dossier ex-Jugoslavia
Come la Nato realizzò il sogno di Enver
Hoxa
di Pino Cacucci
Nel primo anniversario dell'intervento
"umanitario" della Nato nei Balcani, qualche informazione
utile sulle menzogne di allora e sulle vergogne di oggi.
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Se mai volessimo l'ennesima conferma
storica che stalinismo e nazismo traggono linfa da radici comuni,
l'Uck sarebbe l'esempio odierno più concreto.
Viviamo in un'epoca nella quale sia il progetto di Hitler -
dominare il mondo - che quello di Stalin - controllare cuori
e menti degli esseri umani - sono stati portati a compimento
non da una singola nazione o alleanza di stati, bensì dal coacervo
di imprese transnazionali che chiamano questo incubo "globalizzazione",
mentre il mezzo con cui lo concretizzano, il "neoliberismo",
è in sé una contraddizione in termini: mai il mercato è stato
meno libero, perché ferreamente controllato e spietatamente
escludente, capillarmente a senso unico (come sostiene da anni
Noam Chomsky, "il neoliberismo è una ricetta i cui propugnatori
impongono alle proprie vittime ma si guardano bene dall'adottare").
Tornando agli albori di quello che , all'apparenza, sembrerebbe
un assurdo storico - la convergenza di intenti tra un satrapo
staliniano e la Nato - va ricordato che l'Uck è in fondo una
creatura del dittatore albanese deceduto nel 1985, fu lui a
vagheggiare la "Grande Albania" - sebbene il progetto fosse
già caldeggiato dal governo collaborazionista durante l'occupazione
fascista - e a organizzare, armare e sovvenzionare il primo
nucleo di "guastatori" kosovari albanesi, negli anni che lo
vedevano acerrimo nemico di Tito e della Yugoslavia fermamente
antistalinista (anche se per motivazioni tutt'altro che libertarie...).
La memoria cortissima dei nostri mezzi d'informazione ha ignorato
alcuni illuminanti reportage pubblicati in epoca non sospetta
dal... New York Times (d'ora in poi NYT), cioè lo stesso
giornale che più tardi avrebbe capeggiato la campagna in favore
dell'intervento "umanitario". Nel 1982 l'inviato David Binder
descriveva una situazione con termini sorprendentemente simili
rispetto a quella che diciassette anni dopo avrebbe scatenato
la guerra, ma diametralmente opposta: la minoranza serba risultava
vittima di ogni sorta di soprusi da parte della maggioranza
albanese, mentre il governo centrale si guardava bene dall'intervenire
per non alimentare il nazionalismo di entrambe le parti e non
fornire pretesti alla bellicosità di Tirana.
Scriveva Binder il 9 novembre dell'82, dopo l'ennesima aggressione
con tentativo di bruciare vivo un bambino serbo: "Incidenti
di questo genere hanno spinto molti degli abitanti del Kosovo
di origine slava a fuggire dalla provincia, favorendo così la
richiesta dei nazionalisti di un Kosovo etnicamente puro e albanese.
Secondo le stime di Belgrado, 20.000 serbi e montenegrini hanno
abbandonato per sempre il Kosovo dopo i tumulti del 1981". Riguardo
i quali, il NYT del 28 novembre pubblicava quanto segue: "In
una spirale di violenza iniziata con gli scontri all'università
di Pristina nel marzo 1981, un gran numero di persone sono state
uccise e centinaia ferite. Con frequenza settimanale, si sono
registrati casi di stupri, incendi, saccheggi e sabotaggi con
lo scopo di espellere dalla provincia gli slavi ancora rimasti
nel Kosovo". Nel 1986 un altro inviato, Henry Kamm, riportando
il clima di aggressione ai danni degli "slavi" (serbi e montenegrini)
sottolineava che le "autorità comuniste locali, di etnia albanese"
coprivano i crimini dei nazionalisti.
Considerando che dall'altra parte della frontiera Enver Hoxa
finanziava i gruppi paramilitari, embrioni del futuro Uck, il
NYT non aveva remore nel descrivere la situazione. Va ricordato
che risale ad allora la coniazione del termine "stupro etnico",
largamente usato dai kosovari albanesi ("comunisti", a quei
tempi) per "convincere" i serbi ad abbandonare terre e case.
Binder tornò in Kosovo nel 1987, e l'11 gennaio scrisse: "Gli
albanesi nel governo locale hanno dirottato fondi pubblici e
modificato regolamenti per impadronirsi di terre appartenenti
ai serbi, sono state attaccate chiese ortodosse, hanno avvelenato
pozzi e bruciato raccolti. Molti giovani albanesi sono stati
istigati dagli anziani a stuprare le ragazze serbe". Difficile
definire tutto questo "vittimismo serbo": gli archivi del NYT
non sono stati colpiti da missili intelligenti e chiunque, magari
nella sua prossima vacanza nella Grande Mela, può andare a verificare.
Milosevic fu molto abile nello sfruttare l'esasperazione della
minoranza serba per raccogliere voti (giurando alla folla che
non avrebbe mai più subìto soprusi e violenze dalla maggioranza
albanese), ma non dovette faticare granché, vista la serie di
orrori praticati per anni con quotidiano accanimento dai giovanotti
che propugnavano la Grande Albania e ammiravano Enver Hoxa.
Gli stessi che anni dopo sventoleranno bandiere a stelle e strisce,
con notevole capacità di trasformismo politico.
Sarajevo, l'Holiday Inn nel quartiere Marindvor - albergo che
durante l'assedio ospitava la stampa internazionale.
Stupri e saccheggi
Orfani del satrapo di Tirana, i nazionalisti specializzati
in stupri e saccheggi hanno trovato, un bel giorno, il più potente
protettore che il destino potesse loro riservare: George Tenet,
direttore quarantaseienne della CIA. Tenet viene da una famiglia
albanese, sua madre fuggì "dal comunismo" (quello di Hoxa) a
bordo di un sommergibile inglese, e nel luglio del '97 è diventato
uno degli uomini più potenti del mondo per volere di Clinton,
che lo ha messo a capo della centrale di spionaggio statunitense
al termine di una carriera folgorante e con il compito di ristrutturarla
a fondo. Da allora, George Tenet ha lavorato in modo assiduo
per gli ex connazionali. E ha individuato nel Kosovo il punto
nevralgico di una strategia che con i nazionalismi non c'entra
nulla, ma che riguarda esclusivamente il controllo delle risorse
energetiche e la destabilizzazione dell'Unione Europea all'indomani
del varo dell'Euro, per fiaccare sul nascere l'unica potenza
economica in grado di impensierire quella statunitense (prima
o poi toccherà alla Cina, già "avvisata" proprio durante la
guerra contro la Yugoslavia). Gli oleodotti e i gasdotti che
dalla Russia e dall'Iran - via Mar Nero-Romania-Serbia - avrebbero
potuto rendere meno dipendenti i paesi dell'Europa mediterranea
dai giacimenti del Mare del Nord (controllati da Gran Bretagna
e Stati Uniti, il che spiega esaurientemente l'atteggiamento
di Blair al riguardo), sono tornati lettera morta.
Washington considera il Caucaso parte della sfera di intervento
Usa e Nato, e ha sostenuto la costruzione dell'oleodotto Baku-Supsa
(in Georgia) proprio per tagliare fuori la Russia diminuendone
l'influenza geopolitica nell'area: l'apertura è avvenuta dopo
una serie di manovre militari congiunte tra Azerbaigian, Ucraina
e Georgia in un piano di alleanze che comprende anche la Moldavia,
collegata alla Nato tramite la "Nato Partnership for Peace"
(Orwell ci ha insegnato che non può mai mancare la parola "pace"
quando si tratta di scatenare guerre...). Ma dal Vietnam in
poi, è assodato che prima di far decollare i bombardieri occorre
conquistare l'opinione pubblica, compito non certo difficile,
considerando la pressoché totale inesistenza di organi d'informazione
indipendenti in grado di incidere in profondità sulle coscienze
(anche a questo riguardo, si veda l'illuminante produzione di
Noam Chom-sky, in particolare Mani-facturing Consent, La
fabbrica del consenso, scritto in collaborazione con Edward
S. Herman). E così, è stato messo a capo dell'Organiz-zazione
per la Sicurezza e la Coope-razione in Europa (Osce) il famigerato
William Walker (senza che nessun giornale si chiedesse perché
un nordamericano dovesse mai comandare un organismo prettamente
europeo).
Fatalmente omonimo dell'avventuriero che invase il Nicaragua
nel 1855 per conto della multinazionale Vanderbilt, Walker ha
un curriculum degno del compito assegnatogli. Entrato in "diplomazia"
nel 1961, specialista di questioni latinoamericane, iniziò la
carriera come funzionario in Perù, quindi assegnato al Dipar-timento
di Stato nell'ufficio per l'Argentina, e a Rio de Janeiro tra
il '69 e il '72 durante la sanguinosa dittatura di Garastazu
Medici, la prima di un'assidua frequentazione di gorilla genocidi
sud e centroamericani. Tra il '74 e il '77 Walker diresse la
sezione politica dell'ambasciata Usa in Salvador, ai tempi delle
famigerate formazioni paramilitari di "Orden", addestrate dalla
CIA e dai Berretti Verdi. Nell'82, con Reagan, lo spedirono
in Honduras, paese strategico in funzione anti-Nicaragua sandinista,
dove vennero dislocati i contras.
Lavorando in stretto contatto con il colonnello Oliver North,
quello dello scandalo Iran-Contras per i fondi occulti al terrorismo
antisandinista, Walker ha frequentato a quei tempi persino Felix
Rodriguez, istruttore di reparti speciali dal Vietnam all'America
Latina, che interrogò Ernesto Che Guevara dopo la cattura a
La Higuera e trasmise l'ordine di ucciderlo. Nonostante il successivo
scandalo dei fondi, con Walker che compare in ben 13 passi del
rapporto della commissione d'inchiesta, la sua stella non sarebbe
mai tramontata. Nel 1988 fu nominato ambasciatore in Salvador,
dove, l'anno seguente, in occasione dell'elezione di Alfredo
Cristiani a presidente, diede un party per festeggiarlo e invitò
il maggiore Roberto D'Aubuisson, organizzatore degli squadroni
della morte e mandante, tra gli innumerevoli eccidi, anche dell'assassinio
del vescovo Oscar Romero.
Quando il 16 novembre del 1989 i militari salvadoregni fanno
irruzione nell'Università Centroame-ricana e massacrano i docenti
gesuiti, Walker dichiara di non avere nulla da dichiarare...
Nel '92 ha lasciato il Salvador per occuparsi di Croazia, e
quindi del "Supremo" Tudjman, campione degli interessi Usa nei
Balcani. Infine, è stato inviato in Kosovo, per creare i presupposti
di un conflitto a scopo preventivo che limitasse una futura
espansione economica russa - e di conseguenza anche iraniana
- e permettesse agli Stati Uniti di costruire la più grande
base militare nei Balcani - l'odierna Bondsteel, nei pressi
di Orahovac - i cui lavori in corso sono di tale portata da
dimostrare che le truppe Usa resteranno lì per secoli. Il pretesto
all'intervento "umanitario" a suon di missili e proiettili all'uranio
lo avrebbe inventato il 15 gennaio 1999 a Racak.
Ingresso del cimitero ebraico... assedio-abbandono-esodo.
Spudorata messinscena
Quello che sarebbe passato alla storia come il casus belli
della "guerra umanitaria", cioè la cosiddetta "strage di
Racak", è ormai pienamente provato che si trattò di una macabra,
spudorata messinscena. L'inviato del Figaro Renaud Girard
fu tra i primi a denunciare l'eccidio di 45 civili albanesi,
ma soltanto due giorni dopo pubblicò un secondo articolo denunciando
di essere stato "preso in giro dall'Uck" al pari degli altri
giornalisti. Poi, anche Le Monde e Liberation hanno
smascherato l'inganno, ma troppo tardi (e comunque, al di fuori
della Francia non hanno riscosso alcuna eco). Girard si recò
sul posto il 15, su invito delle autorità serbe, in seguito
a un attacco dell'Uck e a un contrattacco della polizia, con
un bilancio di 15 combattenti albanesi uccisi. Sia i giornalisti
che gli osservatori dell'Osce non videro alcuna vittima civile,
e il villaggio "appariva del tutto normale".
L'indomani, Racak era tornata sotto il controllo dell'Uck, e
i giornalisti furono portati a vedere il massacro: 45 corpi
che prima non c'erano, apparsi molto tempo dopo il ritiro delle
forze serbe. Girard pubblicò il 20 gennaio un dettagliato resoconto
dell'inganno subìto, dove, in pratica, erano stati mostrati
cadaveri di persone uccise lontano da Racak e trasportati lì
per la messinscena della strage: perché il giorno in cui sarebbe
avvenuta, nessuno nel villaggio ne sapeva nulla? E perché Walker
si era riunito per 45 minuti con i capi militari dell'Uck proprio
a Racak? L'articolo mandò su tutte le furie i corrispondenti
anglosassoni, che accusarono Girard di "uccidere la loro notizia"...
Il mondo fece come gli osservatori dell'Osce: ignorò la verità
e giudicò sacrosanto l'inizio della guerra. Ottimo lavoro, mister
Walker.
Il "solito" tragico errore
Riaffermare che "la verità è la prima vittima di ogni guerra",
appare ormai scontato, ma vale sempre la pena soffermarsi sugli
esempi concreti, per quanto sia la nostra una lotta di minuscoli
Don Chisciotte contro mulini a vento globalizzanti.
Tra le poche incrinature nella campagna di disinformazione monolitica,
vanno registrate le corrispondenze di Paul Watson da Pristina,
inviato del Los Angeles Times, cioè di un organo tutt'altro
che critico nei confronti della guerra. Anche Watson, rispetto
alla "strage di Racak", dapprima avalla la versione di Walker,
ma in seguito esprime gravi dubbi e intervista addirittura alcuni
abitanti del villaggio che confermano le deduzioni avanzate
dagli inviati francesi.
Quando iniziano i bombardamenti, Watson si rifiuta di lasciare
il Kosovo e assume la scomoda posizione di testimone diretto,
affermando a più riprese che la Nato "sta colpendo soprattutto
chi dice di voler salvare" e gli obiettivi degli attacchi sono
sempre civili inermi, senza distinzione tra profughi dell'una
o dell'altra etnia. Ben presto lo sconcerto di Watson si trasforma
in indignazione: il 17 aprile dichiara alla Cbc canadese che
la Nato sta mentendo riguardo i presunti massacri di civili
albanesi a opera dell'esercito serbo a Pristina, aggiungendo
"Non posso essere d'accordo con i governi della Nato che stanno
solo cercando di nascondere le loro responsabilità per l'esodo
dei profughi dal Kosovo.
È molto improbabile che un esodo di tale entità sarebbe avvenuto
se non fosse stato per i bombardamenti". E il 20 giugno scrive:
"Come unico corrispondente statunitense in Kosovo per buona
parte dei 78 giorni di bombardamenti della Nato sono passato
attraverso una guerra di cui la prima vittima è stata, come
nella maggioranza dei conflitti, la verità. La Nato ha chiamato
la sua devastante guerra aerea un "intervento umanitario", una
battaglia tra il bene e il male per fermare la pulizia etnica
e far ritornare i kosovari albanesi alle loro case.
Ma vista dall'interno del Kosovo, questa guerra non è mai apparsa
così semplice e pura. È sembrato piuttosto come aver chiamato
un idraulico per riparare una perdita ed averlo osservato allagare
completamente la casa".
È anche a causa della presenza di Watson (e di un fotoreporter
della Reuters) se la Nato ha dovuto ammettere il massacro del
14 aprile, quando oltre 80 profughi kosovari albanesi rimangono
uccisi in ripetuti attacchi aerei (ben quattro, a distanza di
tempo uno dall'altro, e non l'errore di un singolo pilota).
Nelle ore successive, i telegiornali mostrano servizi nei quali
diversi presunti "profughi scampati al bombardamento" giurano
di aver riconosciuto le insegne di Belgrado sui velivoli responsabili
della carneficina.
Ma in seguito alle immagini diffuse dall'inviato della Reuters
e alle descrizioni inviate da Watson, la Nato ammetterà "il
tragico errore". Resta solo da chiarire un punto: i testimoni
erano vittime di psicosi collettiva o avevano ricevuto l'ordine
di dichiarare il falso? È assolutamente impossibile confondere
i colori yugoslavi dalle insegne statunitensi che spiccano su
ali e timoni di coda. Comunque fosse, rappresentano un esempio
da tenere sempre bene in mente, quando assistiamo a certe "accuse
irrefutabili di testimoni oculari".
Nessun problema
Qualche mese dopo la fine dell'intervento "umanitario", persino
le tanto sbandierate fosse comuni hanno subìto un drastico ridimensionamento.
Nessuno potrebbe mai negare la ferocia dei paramilitari serbi
- fermo restando, come ha affermato persino una funzionaria
dell'Osce, che questi si sono scatenati dopo l'inizio degli
attacchi Nato, e non prima, a riprova che l'incolumità dei kosovari
albanesi è stata solo un pretesto per altri scopi - ma le famose
foto satellitari di presunte sepolture di massa, sono risultate
altrettante bufale a uso e consumo della propaganda. Durante
il conflitto la Nato ha diffuso la spaventosa cifra di 10.000
civili uccisi dai serbi: calata l'attenzione dei media, risulteranno
essere circa duemila, dei quali la maggior parte combattenti
dell'Uck, mandati allo sbaraglio dai loro comandi per ottenere
maggiori riconoscimenti sul campo, e resta inoltre impossibile
quantificare quanti civili albanesi siano stati uccisi dall'Uck
perché considerati "collaborazionisti". Il 17 ottobre 1999 la
Fondazione Stratford, un centro di studi strategici di Austin,
Texas, ha emesso un approfondito rapporto in cui tra l'altro
si legge: "Nel caso che gli Stati Uniti e la Nato si fossero
sbagliati (sulla cifra di 10.000 vittime) i governi dell'Alleanza
che, come quello italiano e quello tedesco, hanno dovuto a suo
tempo fronteggiare pesanti critiche, potrebbero venirsi a trovare
in difficoltà. Ci saranno molte conseguenze qualora risultasse
che le dichiarazioni della Nato riguardo le atrocità commesse
dai serbi erano largamente false". Sembra che il problema non
sussista: è trascorso un anno senza la benché minima "difficoltà"
nel digerire e dimenticare qualsiasi falsità ingoiata.
Sarajevo, ragazzi giocano a basket tra i resti di un edificio.
La cacciata degli ebrei
Poi, avremmo assistito a una capillare pulizia etnica, stavolta
davvero totale: a parte i serbi, anche turchi, montenegrini,
croati, goran, rom ed ebrei hanno dovuto lasciare il Kosovo,
cacciati a forza di stragi e distruzioni sistematiche. Una pagina
del tutto taciuta dall'informazione globale è quella che riguarda
il dramma della comunità ebraica di Pristina. Jared Israel,
del Brecht Forum di New York, ha intervistato Cedda Prlincevic,
presidente della comunità, scampato al pogrom scatenatosi con
l'ingresso della Kfor - cioè dei "liberatori" - e rifugiatosi
prima in Macedonia e quindi a Belgrado grazie all'aiuto di un
amico israeliano, Eliz Viza, e del presidente della comunità
ebraica di Skopje. Riportiamo alcuni stralci delle sue dichiarazioni.
"Sono successe cose orribili. Ma i serbi come popolo, come nazione
dall'inizio della loro storia fino a oggi non hanno commesso
atrocità né genocidi.
Ci sono stati individui che hanno compiuto atti che non avrebbero
dovuto compiere. Ma qualcuno sta sfruttando questo, lo sta esagerando:
il popolo serbo non aveva problemi con gli albanesi del Kosovo.
Si sono aiutati a vicenda, specialmente nell'ultimo periodo.
Ma appena sono entrate le truppe Kfor e il confine è stato aperto
alla Macedonia e all'Albania, sono arrivati moltissimi albanesi
da fuori e si è creata un'enorme confusione, con molte uccisioni.
Durante i bombardamenti nei luoghi dove viveva la gente comune
non si sono verificati massacri commessi dalla popolazione locale.
Anzi, spesso erano gli stessi serbi a difendere gli albanesi
dalle milizie paramilitari. (...) Poi, con la ritirata dell'esercito,
c'erano gruppi paramilitari da entrambe le parti, allora la
situazione è diventata sporca. Prima, non si verificavano eccidi.
A Pristina ci rifugiavamo in cantina insieme con gli albanesi.
Tutti insieme, rom, serbi, turchi, albanesi, ebrei, tutti inquilini
dello stesso condominio. Stavamo tutti insieme. (...) Il pogrom
è stato messo in atto dagli albanesi stranieri. Loro parlano
una lingua diversa. Un altro dialetto. Non posso garantire al
cento per cento che siano soltanto gli albanesi d'Albania a
farlo, ma non ho visto neppure un albanese di Pristina compiere
una vendetta contro un vicino di casa. (...)
Noi non siamo stati cacciati dagli albanesi di Pristina, ma
da quelli venuti dall'Albania. È la stessa gente che alcuni
anni fa dimostrava in Albania e che stava demolendo l'intero
paese. Adesso, sono venuti in Kosovo. Nessuno li sta fermando.
La Kfor è lì, vede tutto e permette di fare ciò che hanno fatto.
La popolazione si aspettava davvero protezione dalle truppe
Kfor. Ma invece di difendere la popolazione, sono rimasti a
guardare, e tra giugno e luglio almeno trecentomila abitanti
non albanesi hanno dovuto lasciare il Kosovo.
Persino molti kosovari albanesi hanno avuto grossi problemi,
non solo chi era contrario al separatismo, ma persino chi si
è limitato a non sostenerlo". C'è una domanda su cui Cedda Prlincevic
sembra reticente, quasi imbarazzato, tanto che Jared Israel
gliela pone più volte: riguarda le notizie della stampa sulle
atrocità compiute dall'esercito yugoslavo contro gli albanesi
durante i bombardamenti. Infine, il presidente della comunità
ebraica dice: "Anche se ne parlassi, nessuno ormai si fida più
dei serbi. Persino se affermassi che non è accaduto, nessuno
crederebbe ai serbi. E se un ebreo di Pristina dicesse che questa
accusa è falsa, sarebbe molto difficile per lui essere creduto."
L'uranio negato
La guerra in Kosovo ha colpito quasi esclusivamente i civili
- si calcola che siano soltanto 13 (tredici!) i carri armati
serbi distrutti dalla Nato, mentre oltre duemila i civili uccisi
dai bombardamenti. Ma questo bilancio, per quanto spaventoso,
è poca cosa al confronto delle conseguenze terrificanti che
si verificheranno negli anni a venire, e che colpiranno le future
generazioni per decenni e forse per secoli. Perché la guerra
"umanitaria" in Kosovo non è stata assolutamente di tipo "convenzionale",
cioè con l'uso di armi "previste" dalla Convenzione di Ginevra,
bensì chimico-nucleare. Infatti, come in Irak, anche contro
la Serbia - e sul territorio kosovaro, cioè quello che si diceva
di voler "liberare" - sono stati impiegati proiettili e missili
con testate all'uranio cosiddetto "impoverito" (Depleted Uranium),
ottenuti rifondendo le scorie delle centrali nucleari.
Solo di recente, in seguito a una precisa richiesta dell'Onu,
la Nato ha ammesso - il 7 febbraio 2000, in una breve lettera
del segretario generale George Robertson a Kofi Annan - di aver
lanciato durante il conflitto almeno 31.000 (trentunomila) proiettili
all'uranio, senza però specificare che le ogive dei missili
Tomahawk sono anch'esse a base di Depleted Uranium. Soltanto
lungo la strada che collega Pec a Prizren, dove attualmente
sono dislocati i militari italiani della Kfor, si calcola in
oltre dieci tonnellate il quantitativo di uranio lanciato sul
terreno.
Per gli Stati Uniti, che si ritrovano con almeno 500.000 tonnellate
di scorie radioattive da smaltire dalle proprie centrali nucleari,
il riciclaggio sotto forma di proiettili e testate di missili
è un doppio business: si "distribuiscono" all'estero rifiuti
altrimenti costosissimi da stoccare e isolare, e si ottiene
un'arma letale, infinitamente più efficace delle munizioni convenzionali.
Infatti, un proiettile all'uranio, che pesa il doppio del piombo
ma è estremamente più denso e duro, all'impatto con la corazza
di un mezzo blindato brucia ad altissima temperatura fondendo
qualsiasi metallo, e incenerisce all'istante gli occupanti chiusi
all'interno.
Bruciando, l'uranio si trasforma in finissime particelle di
ossido radioattivo, che si spargono nell'atmosfera e quindi
ricadono al suolo. Ogni particella inalata crea cellule cancerogene
nei polmoni e nel sangue, successivamente, sotto forma di polvere
impalpabile, penetra nelle falde acquifere ed entra nel ciclo
alimentare. È' stato calcolato che ogni missile Tomahawk con
testata all'uranio può causare in media 1620 casi di tumore
nella popolazione che vive intorno al punto in cui è esploso.
Un volontario di una ONG italiana ha prelevato nel gennaio di
quest'anno un campione di terra nella città di Novi Sad e lo
ha fatto analizzare al suo rientro in Italia: ne è risultata
una radioattività da isotopo 238 - quello presente nel Depleted
Uranium a uso bellico - addirittura 1000 (mille!) volte superiore
al limite considerato accettabile per gli esseri umani. Oggi
sono ormai novantamila i veterani della guerra contro l'Irak
del 1991 che, per l'esposizione alle polveri di ossido di uranio
provocate dal lancio di proiettili anticarro e missili antibunker,
accusano sintomi riconducibili alla cosiddetta "Sindrome del
Golfo": molti sono già deceduti per leucemia, tumori linfatici
e polmonari, i loro figli sono nati con gravissime malformazioni,
mentre un gran numero di sopravvissuti è costretto a un'esistenza
enormemente pregiudicata, con costanti dolori alle ossa, nausea,
vertigini e stanchezza spossante.
Dato che gli effetti per l'inalazione e l'ingestione di ossido
di uranio si manifestano nel medio e lungo periodo, tra qualche
anno avremo un lungo elenco di militari della Kfor che denunceranno
i propri governi chiedendo un risarcimento (proprio in questi
giorni si è diffusa la notizia dei primi due militari italiani
morti di leucemia dopo essere stati inviati in Bosnia, tra il
novembre del '98 e l'aprile del '99, in una zona contaminata
da proiettili all'uranio). Ma la popolazione serba e kosovara,
i bambini che nasceranno con gravissime malformazioni, le madri
condannate al cancro, gli operai delle fabbriche distrutte che
per primi hanno tentato di ricostruirle esponendosi alla contaminazione,
i contadini kosovari "liberati" che avranno ingerito acqua e
cibi tossici a loro insaputa, tutte le vittime innocenti di
questa "guerra umanitaria", a chi chiederanno un risarcimento?
E in quali ospedali potranno sperare di farsi curare, e con
quali medicine, in un paese devastato dalle bombe prima e stremato
poi dall'embargo, o in un Kosovo governato dalla mafia del narcotraffico?
Mostar, il ponte ieri... prima della guerra.
Mostar, il ponte oggi... dopo la guerra.
Occhio alle cluster-bombs
Tutto questo, per vedere il regime di Milosevic più forte di
un anno fa, con le opposizioni progressiste delle città duramente
colpite dai bombardamenti a risultare le vere forze sconfitte
e ridotte al silenzio. Infine, l'Italia sopporterà il peso più
oneroso tra i paesi che hanno partecipato a questa sciagurata
alleanza. Oltre all'inquinamento ambientale che ci colpirà nel
lungo periodo - prima toccherà agli altri paesi balcanici e
alla Grecia, dove già si registrano impennate nei tassi di radioattività
- l'Adriatico è infestato di ordigni pericolosissimi, le famigerate
cluster-bombs a frammentazione, ufficialmente vietate dalla
Convenzione di Ginevra e successivamente da quella di Ottawa.
Le cluster-bombs sono micidiali ordigni che esplodono al contatto
con il terreno solo parzialmente, infatti si calcola che circa
il 30 per cento rimane inesploso ma attivo, pronto a deflagrare
appena il singolo cilindro - poco più grande di due lattine
di birra - viene rimosso. Decine di migliaia, forse centinaia
di migliaia di cluster-bombs (ogni singolo contenitore a forma
di serbatoio subalare ne racchiude circa duecento) sono state
sganciate in mare dagli aerei della Nato al rientro dalle missioni,
su preciso ordine dei comandi per "questioni di sicurezza" (evitando
di atterrare negli aeroporti con quel carico potenzialmente
devastante). Non passa giorno senza che i pescatori del Veneto,
della Romagna, delle Marche, della Puglia, di tutte le regioni
costiere, ne segnalino la presenza tra le reti tirate in secco,
e sono già diversi i feriti gravi per le esplosioni avvenute
a bordo o poco distante dai pescherecci. E la Nato continua
a rifiutarsi di indicare con precisione i punti in cui sono
state sganciate. In effetti, nelle migliaia di incursioni aeree
effettuate, risulta ormai impossibile stabilire dove e quante
siano, le cluster-bombs finite sul fondo del mare divenuto tra
i più inquinati al mondo, nelle cui acque, tra l'altro, riposa
ancora l'intero carico in bidoni di gas nervino di una nave
statunitense affondata dai tedeschi nei pressi del porto di
Bari (ufficialmente non dovrebbe esistere, perché "ufficialmente"
gli Alleati non hanno usato gas nervino nella Seconda guerra
mondiale...).
Forse, un giorno, nelle università dei nostri paesi, facoltà
di Scienze Politiche, si studierà l'inesplicabile, assurdo caso
di un'Europa che contribuì, nel lontano 1999, a destabilizzare
se stessa e a condannare intere generazioni ad affrontare la
più subdola e pericolosa delle forme di inquinamento letale.
Pino Cacucci
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