Qualche anno fa sono andato a Dachau, vicino Monaco
di Baviera, per visitare il campo di concentramento, uno dei luoghi nei quali
è stata messa in pratica la "soluzione finale".
Per trovare il luogo ho avuto molte difficoltà perché dai diversi
passanti da me interpellati per avere delle indicazioni che non trovavo lungo
la strada, ho ricevuto informazioni contraddittorie, sfuggenti, ma anche diversi
dinieghi e tanti "non so".
Parlando di questa "strana" amnesia collettiva con altre persone ho
riscontrato che ciò avveniva spesso, quasi fosse concordato.
In realtà, dopo aver riflettuto su ciò, credo di non essermi dato
ancora una risposta convincente e certa.
Rimozione, senso di colpa collettivo, disprezzo, vergogna, menefreghismo: tutte
risposte approssimative che non mi convincono del tutto.
Sono ritornato a questo fatto con la memoria questi giorni di fine gennaio che
sono stati occasione per media, istituzioni, ecc. di ripensare alla Shoa, all'Olocausto,
ai crimini del nazismo.
Su questa tragica pagina della storia del novecento sono stai riversati molti
studi, che hanno seguito approcci diversi, che hanno tentato di spiegare il perché
dello sterminio, le ragioni che portano alla formazione di stati totalitari, i
motivi che portano l'essere umano ad accettare e subire oppure a tiranneggiare
a dei livelli allucinanti.
Sull'origine del nazismo credo che uno dei contributi più significativi
sia ancora oggi quello di Wilhelm Reich (Psicologia di massa del fascismo,
Sugar, Milano, 1972) che cerca di affrontare l'origine del fenomeno non solo con
una chiave di lettura economica ma anche e soprattutto nelle strutture familiari
gerarchiche e piccolo-borghesi, in dinamiche quindi di tipo relazionale che svolgono
un ruolo chiave nella formazione delle personalità.
Ma in questi giorni le riflessioni più pertinenti, per capire non solo
il nazismo ma anche altre forme di razzismo contemporanee, mi sono sembrate quelle
di Hannah Arendt, testimone oculare del processo ad Adolf Eichmann (La banalità
del male, Feltrinelli, Milano, 1964 e ora 1999), uno dei più spietati
"esecutori" della teoria ariana.
Secondo Hannah Arendt è inutile cercare nella storia dell'orrore dei mostri
ai quali addebitare ogni responsabilità; troppo semplice e fuorviante pensare
che le mostruosità siano opera solo ed unicamente di un improvviso demiurgo
del male che possa essere in grado di produrre simili malvagità.
Certamente quando un regime totalitario di destra si identifica poi in un individuo,
la scomparsa di questo muta l'esito dei fatti (una riflessione a parte merita
l'analisi dei regimi totalitari di sinistra, che sopravvivono, perché probabilmente
ancora peggiori e insinuati, alla morte del dittatore).
Ma Eichmann era un uomo qualunque, uno di quelli che trovi nella porta accanto,
un grigio burocrate, uno dei travet dell'Organizzazione.
E attraverso di lui noi possiamo vedere l'immagine riflessa della vita e della
storia di altri esseri umani, con le caratteristiche proprie della fredda normalità.
I macellai di questo secolo sono tra noi, sostiene la Arendt, simili a noi, vicino
a noi. Aspettarsi dei mostri, dei demoni è pericoloso perché non
ci permette di cogliere il "male" che si insinua in noi.
Atti di disobbedienza
Io credo che queste riflessioni tocchino il cuore del problema del perché
possano nascere nella storia, siano esplose nel novecento, delle realtà
così tragiche che qualsiasi uomo o donna le riveda con mente lucida e cuore
non compromesso, non possa che inorridire al loro cospetto.
Naturalmente non mi sfuggono le analisi più sofisticate e complesse che
hanno dato delle spiegazioni sull'origine degli stati totalitari e delle dittature,
così come so bene che non vi è mai un'unica spiegazione che possa
interpretare lo scorrere dei fatti storici.
Ma ciò che mi preme qui evidenziare è proprio questa "banalità
del male", questa normale e apparentemente semplice realtà: gli orrori
si avverano perché noi permettiamo che ciò accada, perché
spesso siamo complici passivi dell'insorgere di simili efferatezze.
Senza questa presa di coscienza precisa e puntuale, spietata e scomoda, non è
possibile fronteggiare il sorgere del terrore. Ciò non significa affatto
insinuare che poiché tutti sono colpevoli, allora nessuno lo è.
All'opposto, vuol dire proprio che sta nella libera volontà di ognuno,
nell'atto di disobbedienza, di intolleranza contro l'intolleranza, l'anticorpo
alla diffusione del virus della tragicità degli eventi.
Quante volte, quotidianamente, permettiamo ad una strisciante cultura fatta di
luoghi comuni, di frasi fatte, di comportamenti abitudinari, di silenzi omertosi,
di rassegnazioni e di complicità, di convenienze e di ricatti, di governare
la nostra vita?
Quanto tempo dedichiamo a contrastare invece tutto ciò che la società
del dominio e del profitto, del tornaconto interessato e del successo ad ogni
costo, ci baratta come valori autentici e indispensabili per non perdere il proprio
posto nella gerarchia sociale?
Non possiamo trascurare questi aspetti della nostra vita sociale e occuparci solo
dei grandi temi e problemi, con delle analisi approfondite e colte, con l'atteggiamento
distaccato di chi si preoccupa dei mali distanti da noi per non vedere le piccole
ingiustizie e sopraffazioni di ogni giorno, consumate in luoghi prossimi alla
nostra vita quotidiana.
Anche quando ci indigniamo talvolta lo facciamo più per noi stessi, per
sentirci orgogliosamente a posto con la nostra aristocratica sensibilità.
Presa di coscienza
individuale
Ma gli uomini come Adolf Eichmann si sono sempre giustificati sostenendo di
"aver obbedito agli ordini", di essere solo una parte insignificante
di un sistema complesso, di essersi applicati per senso del dovere a far funzionare
ciò che sembrava giusto e inevitabile.
Il rimando all'oggettività del collegiale è una fuga dall'assunzione
delle proprie responsabilità, un negare il diritto e il dovere di affermare
la propria etica della libertà.
Quasi sempre dietro questa logica della fuga dalla realtà, sta un rifiuto
della libertà. Ecco perché occorre rompere il cerchio, segnare la
differenza, dissentire, senza eroismi ed estetiche azioni. Ma con la fermezza
della ragione libera, con gesti e parole che possano toccare la "tranquillità"
e le "certezze" degli altri. Non serve alcun furore messianico, né
tantomeno una tragica e altrettanto violenta imposizione.
La nascita dei regimi totalitari, le nefandezze che la storia del novecento ci
ha dimostrato, non dimentichiamoci che ci hanno trasmesso anche tanti esempi individuali
e collettivi di rifiuto, di ribellione, di lotta che hanno segnato parimenti gli
anni tragici del dominio del male.
Insomma è l'atto di volontà, la presa di coscienza individuale prima,
collettiva poi, che permette all'uomo di contrastare il diffondersi del dominio
del terrore. E' la capacità di mettersi in discussione, di cogliere le
proprie contraddizioni, di stare in mezzo alla gente comune, che permette anche
agli anarchici di non crearsi l'illusione di stare nella verità astratta
e teorica, di essere fuori da ogni possibilità di contaminazione. Parliamo
di più con gli altri, con quelli che anarchici non sono; accettiamo di
verificare le nostre idee o proposte, seminiamo pazienti i semi della libertà.
Forse dopo l'inverno arriverà la primavera.
Sono convinto che solo attraverso il dissenso e la coerenza del nostro comportamento
nella vita quotidiana, solo presentando nei fatti, e nei processi nei quali siamo
coinvolti, tutta l'eticità dell'anarchismo, sia possibile avvicinare alla
riflessione su se stessi gli altri esseri umani.
Possiamo ragionevolmente pensare che l'origine dei domini totalitari trovi proprio
nella mancanza di questi atti e gesti di dissenso, l'humus sul quale far fiorire
il terrore e la brutalità.
Dobbiamo quindi fare attenzione a ciò che spesso ci appare insignificante
perché una volta diffusosi porta significato e spinta all'insieme del sociale,
lo caratterizza, lo rende accettato e accettabile.
L'insieme di gesti e comportamenti, narrazioni e storie, simboli e immagini, diventano
poi cultura diffusa, molto più penetrante e coinvolgente perché
non più astratta e teorica, ideologica o valoriale, ma pratica comune,
abito usuale, che rassicura e che segna in profondità proprio perché
semplice, immediato, chiaro. Insomma la cultura dei comportamenti quotidiani diventa
spesso molto più pregnante e rassicurante, molto più di quella con
la "C maiuscola", perché contribuisce molto più di quest'ultima
a semplificare l'appartenenza degli uomini ad una comunità, a rassicurarne
il diritto di cittadinanza, profondamente e durevolmente.
La nostra vita è tutta centrata su questo processo di condizionamento,
fin dalla tenera età, e i luoghi nei quali questa si diffonde, sono i luoghi
della nostra vita quotidiana, pertanto familiari e abitudinari. Senza accorgerci,
sommessamente, magari ridendo o scherzando, facciamo transitare i germi del terrore.
Riflettiamoci. Impariamo a pensare su noi stessi. La libertà si conquista
anche così.
Francesco Codello
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