E così, tanti anni dopo Paolo Sarpi, Pietro Giannone
e Giuseppe Mazzini, l'Italia ha ritrovato un campione dello spirito laico. Giovedì
3 maggio, proprio il giorno in cui il governo, pur di non spegnere le antenne
del papa, costringeva un proprio ministro alle (quasi) dimissioni, una cosa che,
a una settimana dal voto, equivarrebbe a un suicidio, se non fosse che non ci
si può suicidare più di una volta, l'ottimo Adriano Celentano, di
fronte a dodici milioni di telespettatori in diretta, ha osato l'inosabile, definendo
"ipocrita" l'Osservatore romano. Un'invettiva di antica tradizione
evangelica, che lo ha subito accomunato a un noto eversore come Dario Fo e ha
suscitato lo sdegno, se non proprio del papa, che in quei giorni era troppo occupato
a fare i conti con la Quarta Crociata (con le altre, no), di uno schieramento
di vescovi abbastanza nutrito da far onore a qualsiasi militante della causa del
libero pensiero. Il che, a pensarci bene, non è niente male per un artista
che, nel corso di una carriera che dura, salvo errore, da una quarantina d'anni,
non ha mai mancato di esibire una forma particolarmente plateale di devozione,
trasformando in una preghiera insulsa uno dei più bei rock degli anni '60,
portando nella cultura pop il ricordo dei pomeriggi all'oratorio e scrivendo una
canzone contro il divorzio e una contro l'esercizio del diritto di sciopero, che
non sarà forse un problema di rilevanza catechistica, ma serve comunque
per indicare una scelta di campo.
Certo è che quella sparata rivoluzionaria all'ex ragazzo della via Gluck
gliela avevano estorta proprio con le pinze. Per una settimana avevano fatto tutti
finta di fraintendere il senso di certe sue fin troppo ragionevoli dichiarazioni
sul problema del trapianto degli organi e del relativo assenso alla donazione.
Il poveraccio si era limitato ad affermare che la normativa vigente in merito
è un po' troppo pressapochistica, e tutti si erano indignati perché
un pensatore così eminente e un così influente comunicatore si dichiarava
contrario alla pratica dei trapianti. Lo hanno trasformato a forza in un campione
dell'egoismo a tutti i costi, contrapponendogli le ragioni della scienza e quelle
della medicina, le sofferenze dei malati e lo strazio delle famiglie. Avevano
insistito sull'ovvio e glissato sull'opinabile, come se senza l'infida norma del
silenzio assenso non si potessero più fare né donazioni né
eseguire trapianti. E lo avevano costretto, in definitiva, se non proprio a una
ritrattazione in piena regola, a una di quelle "precisazioni" che, anche
in assenza di palinodie vere e proprie, permettono agli avversari di cantare comunque
vittoria. Era ovvio che il personaggio, che un po' megalomane lo è sempre
stato, si incazzasse e ne sparasse un paio di quelle toste. Niente di preoccupante,
naturalmente: è del tutto probabile che anche lui, presto, ritornerà
nei ranghi e non mancherà di farsi banditore dei buoni sentimenti di un'Italia
che alle parole di Stand by me ha sempre preferito quelle di Pregherò.
Peccato, perché il problema esiste, al di là delle sparate di Celentano
e delle ipocrisie dei suoi contraddittori, vaticani, accademici e ministeriali.
È fin troppo ovvio che si tratta di un problema di domanda e di offerta
(nel senso che, come tutti sanno, si richiedono molti più organi di quanti
ne siano disponibili) e che in un paese come il nostro, in cui la logica della
solidarietà viene sempre di più sottomessa a quella dell'interesse
privato, il rischio è quello di vederlo risolvere in termini banalmente
e drammaticamente monetari. Visto che si fa mercato di tutto, perché non
si dovrebbe far mercato anche di organi?
La questione, in un certo senso, sembra banale: in fondo era già stata
impostata, in forma grottesca, in una vecchia commedia di Zavattini, più
di quarant'anni fa, e in tempi più recenti è stata riproposta spesso
dalla fiction di genere, in cui le trame impostate su rapimenti, omicidi
e consimili amenità finalizzate alla deprivazione di organi sono fin troppo
frequenti. Ma oggi come oggi il problema non può più essere considerata
né grottesco né fittizio. Lo sfondo in cui si iscrive è quello
di una società largamente criminalizzata e di un sistema sanitario largamente
privatizzato, in cui le necessità degli utenti paganti vengono, di necessità,
preposte a quelle degli altri.
In fondo, il mercato è il mercato e oggi tutti ci vengono a ripetere che
gli unici valori cui deve adeguarsi sono quelli che esso stesso esprime. Per salvare
i soggetti deboli dal rischio di essere retrocessi alla condizione di merce, ci
vuol altro che il silenzio assenso.
Carlo
Oliva
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