Il caso ha voluto che
terminassi la lettura del libro A casa di Guido Viale
poche ore prima che le reti televisive dessero il via alla
cosiddetta "maratona" elettorale. Apparentemente,
questi due avvenimenti non dovrebbero avere niente in comune:
da una parte la narrazione di un protagonista del '68 italiano,
divenuto poi una delle figure "storiche" di Lotta
Continua (dietro ai suoi striscioni ho marciato anch'io per
chilometri di rabbia, speranza e desiderio), dall'altra, la
tradizionale quanto vergognosa messa in scena della politica
parlamentare, fatta di numeri, percentuali, politicanti di
prima, seconda e terza fila, di dichiarazioni e, naturalmente,
di polemiche da avanspettacolo.
Invece, più trascorreva il tempo, più, paradossalmente,
coglievo i nessi che legavano il filo del racconto di Viale
con la pantomima recitata al di là dello schermo televisivo
dai clown del circo elettorale.
L'affinità "elettiva" tra il libro
tra l'altro ricco di spunti, riflessioni e considerazioni
attente e puntuali, indipendentemente dal mio riconoscermi
o meno in esse e l'irritante quanto osceno balletto
della nostrana classe politica, non era evidenziata solo dal
fatto che alcuni protagonisti della "stagione arrabbiata",
cui aveva partecipato in prima persona Viale stesso, fossero
tra le comparse dello spettacolino "ad usum populi"
che le reti televisive avevano approntato per seguire in tempo
reale la pesca miracolosa che periodicamente stabilisce a
chi andrà la guida governativa del paese. No, non era
solo il vedere, comodamente assisi sulle poltrone, molti degli
"arrabbiati" di allora conversare amabilmente della
"cosa pubblica" con avversari politici ai quali,
un tempo, promettevano forche "in pochi mesi", e
non era nemmeno il constatare che alcuni di loro, con trasformismi
ideologici degni dei migliori illusionisti circensi, ora militassero
proprio in quei partiti che un tempo minacciavano; c'era qualche
cosa di più e, se possibile, di peggiore.
Ma procediamo con ordine.
A casa ha diverse virtù. Viale, infatti, senza
cadere nella retorica del "come eravamo", riesce
in alcune parti del libro stesso a raccontare, soprattutto
a chi non c'era (e quindi, principalmente, ai giovani e ai
giovanissimi che di quella stagione nulla sanno o se sanno,
sanno poco e male chi lo leggerà, però,
non si aspetti un "libro di storia": Viale si limita
a "ricamare", su uno scenario storico tenuto sullo
sfondo, l'arazzo di alcuni suoi ricordi personali), cosa abbia
significato, in quegli anni, ribellarsi alla scuola, alla
fabbrica, alla famiglia. Illuminanti, in tal senso, alcune
pagine del libro dalle quali emerge chiaro e netto lo iato
che separa, irrevocabilmente, il pre e il post
Sessantotto. Il primo, caratterizzato da baroni universitari
e da professori tanto potenti quanto idioti nelle meschinità
di cui erano capaci per garantirsi e conservarsi lo status
che la società affidava loro; da capi e capetti di
fabbrica, violenti e reazionari quanto patetici nel loro essere
"servi dei servi" in una scala gerarchica al servizio
di un padrone disposto a regalare qualche avanzo dei propri
lauti pasti, in cambio di delazioni, servilismo e, soprattutto,
anticomunismo; da famiglie tronfie del ruolo, spesso poliziesco,
che chiesa e stato affidavano loro per il controllo dei figli
ma, nel contempo, quasi sempre profondamente intrise di quell'ipocrisia
magistralmente sintetizzata nella locuzione "tutto a
posto e niente in ordine" che caratterizza la cultura
familistica.
Il secondo (ossia, il post '68 e tutti gli anni Settanta
a venire), caratterizzato, invece, dal ribaltamento di quel
senso comune che aveva retto la società fino ad allora,
attraverso la parola e la pratica di un agire che, finalmente,
rispondevano al desiderio dei soggetti e quindi, di conseguenza,
negavano diritto ai poteri (scuola/università, fabbrica,
famiglia, in primo luogo, ma poi, anche ospedali, esercito,
cultura "ufficiale", ecc.), che a quella parola
e a quell'agire opponevano la violenza delle istituzioni.
La memorialistica è ormai ricca di pagine che ripercorrono
quegli anni ma, a differenza di altri, il libro di Viale ha
il pregio di non essere mai ridondante o trionfalistico, anzi,
a volte è fin troppo sotto tono nel ricordare certi
eventi che, per la loro dirompenza, invece, non solo segnarono
un'epoca ma marcarono dei punti forse di non
ritorno nel sentire comune.
Da sottolineare, pure, la corretta evidenziazione di come
l'esperienza della politica sia stata poi, per più
di una generazione, totalizzante, nel senso che aveva informato
l'intera sfera esistenziale dei soggetti che la praticavano,
fino a tradursi nella parola d'ordine che la sintetizzava:
"il personale è politico".
Ma cosa c'entra tutto ciò con le elezioni politiche
italiane e le trasmissioni televisive che le riguardavano?
C'entra, e ora vediamo come.
Sapore
acido della realtà
Ci sono alcuni aspetti del libro di Viale che risultano illuminanti
(purtroppo, siamo costretti a dirlo in senso negativo), per
quelli che sono stati gli esiti, non solo di quella stagione
di lotte ma anche delle generazioni che quelle lotte svilupparono
- e che poi sono gli esiti che nel corso dei due decenni successivi
hanno permesso, nell'ordine: la criminalizzazione del movimento,
la sconfitta delle avanguardie di lotta nelle fabbriche e
nella società in genere, il revanchismo padronale e
accademico, la deriva individualistica dei soggetti (non importa
se in senso reaganiano, mistico o, semplicemente qualunquistico),
l'affermazione della destra socialdemocratica alla guida
anche se virtuale del movimento operaio; la rimozione
dalla memoria collettiva di oltre vent'anni di conflitto sociale;
la rilettura, in chiave revisionistica, del medesimo periodo
storico; la de-escalation dei conflitti. E questo elenco
potrebbe continuare a lungo fino ad arrivare alla devastazione
mediatica delle coscienze, all'egoismo elevato a virtù
o, specularmente, al buonismo opportunista (quello, per intenderci,
che lacrima per il Terzo Mondo e poi, dietro alla maschera
dell'umanitarismo, manda i propri caccia a bombardare l'Iraq
e la Serbia), e, infine, al giustizialismo che inneggia alla
magistratura e alla polizia affinché facciano piazza
pulita di tutti i malfattori, siano essi politicanti e potenti
della cosiddetta "Prima Repubblica" (una delle creazioni
mediatiche di maggior successo attorno ai primi anni Novanta)
o disperati dell'ultim'ora. Per non parlare dell'apparizione
delle "vecchie nuove" facce della politica-spettacolo.
Non che Viale, in un modo o nell'altro, non accenni o non
descriva l'oscenità di questo presente: anzi, soprattutto
dove la sua narrazione tocca l'oggi o il passato prossimo
della sua vita (il lavoro, la dimensione esistenziale, ecc.),
la filigrana delle sue parole si compone proprio del sapore
acido della realtà che abbiamo tutti davanti agli occhi.
Il problema è che A casa manca, se così
si può dire, il bersaglio, ossia non dà volto
e corpo a chi, volontariamente o involontariamente, è
stato tra gli agenti principali di questa situazione. In poche
parole, non c'è accenno alla responsabilità
diretta né del PCI né dei gruppi di quella che
allora si chiamava "sinistra extraparlamentare"
(e di cui, Lotta Continua era certamente una delle formazioni
più significative), nella débacle subìta
dal movimento a partire dalla seconda metà degli anni
Settanta.
È chiaro che lo "scacco matto" al movimento
lo diedero lo Stato e i suoi apparati (forze "dell'ordine"
in testa ma anche servizi e stragisti), ma certamente
la capacità di resistenza antagonista venne fiaccata
in modo determinante sia dalla costante criminalizzazione
che il Partito Comunista a partire dal 1968 ma con
maggior vigore dal 1973 (Cile, compromesso storico, ecc.)
attuò contro tutto ciò che si muovesse
alla sua sinistra, sia dall'incapacità dei gruppi dirigenti
della sinistra extraparlamentare ad interpretare la realtà
nella quale si muovevano, in primo luogo la propria stessa
realtà: la composizione sociale del movimento, la sua
capacità di resistenza alla crescente violenza dello
Stato, la sua potenzialità (anche teorica), di far
fronte alle mutazioni in atto nello scenario politico (il
PCI che si fa Stato, da una parte e la pratica sempre più
incidente delle formazioni armate).
L'aver eluso allora queste analisi, fece sì che, in
parallelo alla ristrutturazione produttiva attuata dal padronato
per riprendere in mano il controllo della fabbrica (in stretta
collaborazione con un sindacato che in questo modo mirava
a riprendere il controllo del movimento operaio), il "fianco"
del movimento si mostrasse sempre più "nudo",
sempre più scoperto, e quindi sempre più aggredibile,
sia militarmente che psicologicamente.
Eludere queste analisi oggi, a venti-venticinque anni e più
da quella stagione è ancora peggio, perché significa
non voler fare i conti con la Storia (o meglio: con la "propria
storia" in relazione alla Storia) e, dunque con gli errori
di analisi e di prassi che i protagonisti delle lotte di quegli
anni soprattutto di chi, a torto a ragione, quelle
lotte si trovò a dirigerle fecero.
Ha ragione Viale quando lascia intendere che i tempi, ad un
certo punto (ossia, a partire dal '73-'74), cambiarono e che
i gruppi (Lotta Continua in testa, che non a caso fu la prima
organizzazione a sciogliersi "ufficialmente"), non
furono più in grado di gestire la nuova fase.
Ma perché ciò avvenne? Perché i tempi
erano cambiati? Cosa aveva reso possibile l'arretramento e
poi lo sfaldamento di un movimento che, nonostante fosse sulla
"difensiva", già, appunto, a partire dai
primi Settanta (è in quegli anni, infatti, che padronato,
Stato e servizi segreti, con tutte le armi a loro disposizione,
passano al "contrattacco" per impedire ad ogni costo,
lo spostamento a sinistra quello reale, non quello
prefigurato dalle sinistre ufficiali in Italia, utile tutt'al
più a consolidare il dominio del capitalismo, anche
se con la maschera del "volto umano", come si diceva
in quel tempo della società italiana), riusciva
in ogni caso a reggere, e spesso a gestire, il conflitto in
tutti i settori vitali del sistema?
Non rispondere sarebbe già di per sé un errore;
rispondere, come fa Viale, responsabilizzando le organizzazioni
armate, Brigate Rosse in testa, che in virtù di una
supposta "combutta" delle rispettive "direzioni
strategiche" con i servizi segreti dello Stato, avrebbero
lavorato per distruggere, grazie al "terrorismo",
il movimento, è non solo un errore "grande come
una casa" ma è il segno che non sono bastati venti
e passa anni per rileggere in modo adeguato la storia di una
stagione durante la quale alla volontà di cambiamento
radicale dello "stato di cose presente" non vennero
offerte "gambe per camminare" ossia, quando il gioco
si fece "duro" (e duro si fece veramente: basti
ricordare che nel '75 entra in vigore la cosiddetta "legge
Reale" che dà alle forze dell'ordine quella licenza
di uccidere che sarà l'impunita causa della morte di
moltissimi militanti della sinistra), non si trovò
niente di meglio che comandare il "rompete le righe!"
(come fece LC) o, tutt'al più (vedi il caso di Democrazia
Proletaria) rientrare nella bagarre parlamentare.
E già l'uso improprio che oggi Viale fa del termine
"terrorismo" in luogo di "lotta armata"
(scelta semantica effettuata pressoché da tutti i media,
dal Secolo d'Italia a Liberazione, dall'Espresso
a Gente), la dice lunga sulla confusione che si produsse
nel movimento, ad opera delle dirigenze dei gruppi della sinistra
extraparlamentare, quando per quelle, si trattò di
fare i conti (esorcizzandoli, rinnegandoli, lanciando anatemi
degni della miglior real politik), con segmenti del
movimento stesso che a torto o a ragione, non è
questo il contesto per ragionarci sopra furono conseguenti
alle parole d'ordine che i gruppi stessi lanciarono per anni
nelle strade e nelle piazze.
Sostenere, a due decenni di distanza, che quegli slogan furono
degli errori, suona un po' troppo come "difesa d'ufficio"
una sorta di pentitismo a posteriori del tipo: "forse
abbiamo esagerato" o, peggio ancora, "... ma noi
non dicevamo sul serio!" e come un distinguo
rispetto, appunto, a chi scelse la strada del conflitto armato
con l'obbiettivo del rivoluzionamento dello Stato tanto
più che il gruppo di cui Viale fu uno dei "padri
storici", cantava nel suo inno la "lotta di popolo
armata"...
Non si tratta di essere acritici verso le organizzazioni combattenti
e verso gli innumerevoli errori da esse compiuti, ma, più
seriamente, si tratterebbe di affrontare finalmente una riflessione
su una stagione di lotte durissime, i cui esordi (se proprio
vogliamo fissare una data di riferimento che non siano le
lotte, prima agrarie e poi operaie, del dopoguerra e degli
anni Cinquanta), sono rintracciabili nel famoso eccidio ad
opera della polizia di Scelba del luglio del '60 a Reggio
Emilia (cui, come è tristemente noto, con lo stesso
obiettivo di frenare il movimento operaio e sociale che stava
crescendo, fecero via via seguito: Avola, Battipaglia, piazza
Fontana, l'Italicus, Bologna...).
Un'analisi
necessaria
Viale lo sa: questa è la sua storia, vissuta,
tra l'altro, con funzioni di responsabilità. Eppure,
in A casa, sembra ignorare che quello sia stato il
contesto con il quale il movimento e i gruppi dovettero confrontarsi.
Viale sembra anche dimenticare che, in quel contesto, vi furono
poi migliaia di uomini e di donne ("nati" in quel
movimento e in quei gruppi, non su Marte o in qualche ufficio
dei servizi), che ritennero giusto il passaggio "dalle
armi della critica alla critica delle armi".
Tutto ciò (che non era altro che il portato di un progetto
che aveva nutrito l'immaginario di almeno due generazioni
l'Ottobre, la Resistenza, la Lunga
Marcia, Cuba e "il Che", ecc.),
non può essere liquidato con l'aggettivo tanto
scorretto quanto infamante di "terrorismo":
da sempre, storicamente, pratica quest'ultima "intimamente"
fascista anche quando mossa da volontà di liberazione
(il terrorismo, colpisce indiscriminatamente avendo come obbiettivo
il terrore generalizzato; la lotta armata, al contrario, si
pone l'obbiettivo di colpire con la massima discriminazione
andando a scegliere le sue vittime tra i gangli vitali del
sistema che vuole abbattere: e, indipendentemente dal giudizio
etico e politico che se ne vuol dare, non si può non
ammettere che, tra le due interpretazioni dello scontro estremo,
c'è una bella differenza ciò non significa,
naturalmente, ignorare i molti quanto devastanti errori, teorici
e pratici commessi, prima o poi, da tutte le organizzazioni
combattenti).
Mancare, però, un'analisi oggi così necessaria
a contrastare la "pseudostoria di stato"; reiterare,
per convinzione non provata da nessun elemento concreto, il
leit motiv dell'eterodirezione delle organizzazioni
armate (che fu cavallo di battaglia del PCI quando identificava
nella lotta armata la "provocazione fascista operata
con la collaborazione dei servizi segreti ai danni della classe
operaia e del suo partito"); parlare mestamente di "sconfitta"
del movimento senza quella analisi, indicata più sopra,
fondamentale per comprendere ragioni e cause di quanto è
successo; dimenticare la diserzione in massa che, nel giro
di pochi anni, svuotò le piazze di tutta quella parte
di movimento (studentesco, intellettuale, borghese e piccolo
borghese "progressista") che, ritenendo troppo impegnativo
il livello dello scontro che si andava profilando, di fronte
alle innumerevoli contraddizioni di chi aveva parlato di "rivoluzione"
"qui e ora" ("tutto e subito!") ma che
improvvisamente rinviava "a data da definirsi" lo
scoccare dell'ora x, abbandonò (abbandonammo)
la "mitica" classe operaia di cui si era
riempita (c'eravamo riempiti) sino ad allora la bocca
a fare i conti da sola con la ristrutturazione, i licenziamenti
e con il tradimento del PCI (immortalato dalle vicende PCI/FIAT
della fine Settanta-primi Ottanta): ecco, tutto questo è
ciò che, in me, ha coniugato insieme la lettura del
libro di Viale e l'invereconda messa in scena dello spoglio
elettorale.
Certo: anche grazie a quel movimento l'Italia era cambiata
ma non nei termini "di classe" che avevano lasciato
intuire le bandiere rosse che sventolavamo, gli slogan che
urlavamo e i pugni chiusi che innalzavamo, bensì nei
termini che già a metà degli anni Settanta Pier
Paolo Pasolini aveva intuito quando affermò che la
borghesia rivoluzionava se stessa grazie ai suoi figli. Un
bel rivoluzionamento, non c'è che dire e il bailamme
elettorale di maggio che ha coinvolto "le menti migliori"
di più di una generazione (molte delle quali in prima
linea nelle lotte degli anni Settanta) nella difesa di una
coalizione miserrima e impresentabile come quella dell'Ulivo
(no, io no, almeno questo no...), la dice più che lunga...
Non pensa, Viale, che sia giunto il momento di una riflessione
finalmente "scientifica", nel senso di una riflessione
che sappia ripensare il passato alla luce del presente? Un
presente, tra l'altro, dove oltre centocinquanta uomini e
donne (che sbagliavano? non sbagliavano? continua a non essere
questo il contesto per domandarselo), compagni comunque della
nostra stessa passione, marciscono nelle galere di Stato,
dove, a fargli compagnia, da tempo c'è anche Adriano
Sofri (come non ricordarlo, nonostante le sue spregiudicate
evoluzioni ideologiche degli ultimi anni?), chiamato anch'egli,
per il suo passato ruolo di leader di Lotta Continua, a rispondere
della presunzione di una generazione che aveva osato "chiedere
l'impossibile" (e poi anche di affermare che la strage
del 12 dicembre '69 fosse "di stato"; che Pinelli
era stato assassinato; che il neofascismo era pagato dal capitale
e protetto dai servizi con la complicità di uomini
che sedevano in parlamento; ecc.).
Riflessione
collettiva
Dati gli esiti, comunque nefasti, di quella stagione (come
definire, il nuovo blocco clerico-fascista-neoliberista al
potere cui si dovrebbe contrapporre l'opposizione socialdemocratica-neoliberista,
se non come un esito nefasto?), non è forse giunto
il momento di una riflessione collettiva tra chi è
stato protagonista di quella stagione e tra chi, idealmente,
ad essa si riferisce o vorrebbe riferirsi? Penso soprattutto
alle migliaia e migliaia di giovani "antagonisti"
che affrontano, e probabilmente dovranno affrontare sempre
di più, la violenza e l'arroganza dello Stato: non
è forse indispensabile che il loro agire si annodi
ai fili spezzati del patrimonio di esperienze delle lotte
di allora?
Non è un invito retorico, tutt'altro, ed è chiaro
che, inizialmente, sia proprio rivolto a Viale.
A lui comunque il merito, oltre a quelli segnalati in questa
nota, di non essere stato seduto anch'egli davanti alle telecamere
in mezzo ai commentatori (immaginiamo lautamente ricompensati)
a dare "illuminanti" interpretazioni del voto. E
sia chiaro, questa non è una boutade: tra i
"commentatori", infatti, come abbiamo già
scritto, c'erano anche "ex-arrabbiati", compagni
di battaglie, un tempo, dello stesso Viale e oggi ricercati
opinion leader al soldo degli stessi padroni cui, in
anni certamente più a rischio di acne giovanile, "l'avevano
giurata".
Va da sé che, quindi, se i tempi sono questi, quello
di Viale è comunque un merito di grande valore.
Romano Giuffrida