Ricorderete anche voi, spero, quel bel racconto di Isaac
Asimov (se è di Asimov, ma credo proprio di sì)
che all'Election Day appunto si intitola. Risale, mi
sembra, agli anni '60 o '70 e sviluppa l'ipotesi che, in un
futuro dato come imminente, le tecniche di proiezione ed estrapolazione
delle intenzioni di voto i "sondaggi", insomma
abbiano raggiunto un livello tale da far sì che
sia sufficiente, per assegnare il risultato, il voto effettivo
di un singolo elettore estratto a sorte: di quel fortunato rappresentante
del popolo descrive, con vivacità di dettagli, la giornata
elettorale. È un racconto molto divertente, nonché
uno dei rari casi in cui la fantascienza sia riuscita a individuare
e descrivere con una certa precisione una tendenza effettivamente
operante nelle dinamiche sociali. Ma credo converrete tutti
che nemmeno Asimov, in uno dei voli più sfrenati della
sua fantasia, sarebbe riuscito a prevedere una situazione come
quella cui tutti abbiamo assistito domenica 13 maggio, quando
i risultati elettorali erano già stati annunciati e venivano
furiosamente discussi in sede televisiva, mentre ancora gli
elettori si accalcavano in lunghe file fuori dai seggi. L'ultimo
cittadino che è riuscito a esprimere un voto, a quanto
pare, lo ha fatto all'alba del lunedì successivo, quando
ormai tutti i candidati, vincitori o sconfitti che fossero,
se n'erano già andati tranquillamente a letto, sicuri
del risultato proprio e altrui.
L'episodio si potrebbe leggere come una conferma paradossale
del noto punto di vista anarchico sul valore dello strumento
elettorale, anche se non è necessario essere anarchici
per sapere che, in base alla logica democratica e a quello che
Hugo Dingler chiamava il "principio dell'ordine pragmatico",
prima bisognerebbe votare e poi contare i voti (in fondo, nemmeno
il singolo elettore di Asimov conosceva, prima di entrare in
cabina, il risultato della competizione in cui aveva tanto larga
parte). Molti commentatori, di fatto, lo hanno visto come un
esempio lampante di inettitudine amministrativa e non hanno
mancato di sottolineare le responsabilità di chi ha organizzato
le operazioni elettorali e quelle, in particolare, del ministro
Bianco. Ma visto che denunciare l'inettitudine di quel ministro,
che con quel voto concludeva, comunque, la sua carriera, era
come sparare sulla Croce Rossa, nessuno si è particolarmente
sprecato sull'argomento. Come nessuno ha avuto il coraggio di
far notare come tutta la procedura rappresentasse un caso, patente
se mai ve ne fu uno, di violazione della legge in vigore, il
che non avrebbe dovuto in un paese serio restare
privo di conseguenze. Ma sulla serietà di questo paese,
ovviamente, tutti i commentatori, da una parte e dall'altra,
avevano delle opinioni abbastanza precise.
Omologati di forza
Queste, naturalmente, sono pure banalità, anche se,
altrettanto naturalmente, il fatto che siano tali non dovrebbe
autorizzare nessuno a far finta di niente. Il vero problema
è che, a più attenta riflessione, non si può
non concludere che tutta la storia non ha avuto, in sé,
proprio niente di paradossale. Che una campagna elettorale che
si è svolta esclusivamente in forma mediatica, in cui
i cittadini sono stati coinvolti soltanto nella loro qualità
di spettatori televisivi, in cui i (rari) dibattiti sono stati
orchestrati e valutati in termini di audience e i candidati
si sono battuti soprattutto su quel piano, si sia conclusa con
uno scrutinio puramente mediatico virtuale non dovrebbe stupire
nessuno. Ben lungi dall'essere individuati in base alle loro
particolarità individuali e sociali, alla loro caratterizzazione
personale e di classe, gli elettori erano già stati omologati
di forza in quanto semplici fruitori di programmi e detentori
di telecomando. Era fin troppo ovvio che in questa situazione
il medium imponesse i propri specifici valori su quelli
che avrebbe dovuto veicolare, che affermasse se stesso, come
unico protagonista politico, in una situazione in cui, a rigor
di logica e a norma di legge, avrebbe dovuto soltanto tacere.
Nella società dello spettacolo, il singolo cittadino,
specialmente quando compie un gesto così poco spettacolare
come quello di deporre nell'urna le molteplici schede di cui
è stato dotato, non ha uno spazio particolare: la sua
stessa esistenza, in effetti, rappresenta un residuo fastidioso,
un'anomalia che si può e si deve ignorare.
Molti ritengono che questa situazione sia stata necessitata,
in un certo senso, dallo strapotere mediatico di uno dei contendenti.
Ma se Berlusconi è riuscito a imporre come terreno di
confronto quello su cui era in vantaggio fin dall'inizio, ci
sarà ben un motivo. Molti esponenti della sinistra (quelli,
almeno, che non erano troppo impegnati ad autogratificarsi giocando
coi numeri o ad attribuirsi l'un l'altro la colpa della sconfitta)
hanno affermato, nell'immediata fase postelettorale, che la
vittoria della destra era soprattutto pericolosa sul piano dell'egemonia
culturale e dei valori riconosciuti. Il che era verissimo, naturalmente.
Ma il guaio è che su quel piano non c'è stata
partita. In termini di subordinazione al mercato, di mercificazione
dei servizi sociali, di sottomissione passiva agli interessi
forti sul piano internazionale (quella che adesso si chiama
"globalizzazione") ben poco la sinistra si è
voluta, o potuta, distinguere. Persino sui temi classici dei
diritti civili, della libertà di pensiero, di ricerca
e di informazione, della laicità dello stato e dell'uguaglianza
dei soggetti di fronte alla legge, la maggioranza uscente era
stata tanto timida da non incoraggiare proprio nessun entusiasmo.
In questi anni abbiamo visto dilagare indisturbata in tutti
i settori sociali la cultura dell'individualismo, intendendo
con questo termine non certo l'individualismo che del singolo
difende i diritti di libertà, ma quella sua versione
contraddittoria che più di ogni altra dote apprezza la
capacità di imporsi sugli altri, come a dire, oggi, la
disponibilità monetaria. Opporre alla strapotenza del
mercato e del quattrino una maldefinita esigenza di "solidarietà"
o di "concertazione", senza nemmeno provare di far
saltare il quadro ideologico del liberismo estremo, è
altrettanto futile della pretesa di dare di quel liberismo una
versione "compassionevole".
Ma a pedalare saremo noi
Ora, visto che è proprio con queste futilità
che ci si è baloccati a lungo e che in qualcosa, quando
si arriva al dunque, bisogna ben cercare di differenziarsi,
era inevitabile che si andasse allo scontro sul puro piano dell'immagine.
Tutti hanno detto, dopo il 13 maggio, che il buon Rutelli non
è stato un cattivo candidato, che, anzi, ha fatto dei
veri prodigi e si è conquistato sul campo i galloni di
leader dell'Ulivo e di coordinatore principe dell'opposizione.
Sarà vero, anche se, personalmente, avrei qualche dubbio.
Ma il fatto che il poveraccio abbia dovuto guadagnarsi sul campo
dei galloni che già gli erano stati conferiti, porrà
bene il problema dei criteri con cui, a suo tempo, lo avevano
designato. E nessuno, in definitiva, ci toglierà dalla
testa l'idea che l'abile Berlusconi, con il semplice espediente
di opporre un netto rifiuto alla proposta di uno scontro televisivo
diretto, abbia vanificato almeno al settantacinque per cento
l'astutissima strategia dello schieramento avversario. Perché
quanto a immagine l'uomo di Arcore poteva o vincere o perdere,
ma su tutto il resto, non foss'altro che per mancanza di proposte
alternative, era sicuro di vincere lui. Come, infatti, è
regolarmente avvenuto.
Poi, naturalmente, ci si consola come si può. Ci si può
consolare sostenendo che, in fondo, non è andata così
male, perché, a prescindere dal fatto che la colpa è
stata tutta di Bertinotti, i voti dell'Ulivo (sommati, beninteso,
a quelli di Bertinotti), non erano poi tanti di meno, o forse
erano persino un poco di più, di quelli toccati al cavaliere
e ai suoi alleati. E tanto peggio se le persone normali proprio
non riescono a vedere cosa ci sia di così confortante
nell'idea di aver subito una batosta storica, che permetterà
agli avversari di governare per cinque anni filati, pur disponendo
di un patrimonio di consensi pari o appena inferiore al loro,
nel senso che di fronte a una sconfitta dovuta a inferiorità
manifesta ci si può anche rassegnare, ripromettendosi
di darsi da fare per cambiare le cose in futuro, ma se si è
convinti che quell'inferiorità proprio non ci fosse,
allora sì che i problemi si fanno gravi.
Ci si può consolare con la vittoria alle amministrative
di Roma, Napoli e Torino, evitando con cura di far notare come
si sia trattato, in due casi su tre, di un trionfo in discesa,
in cui i candidati del centro sinistra sono stati eletti con
margini di consenso parecchio inferiori di quelli dei loro predecessori.
Ci si può persino compiacere del fatto che i presidenti
delle nuove camere hanno dichiarato, nei rispettivi discorsi
di insediamento, il proposito di garantire i diritti di tutti,
senza discriminare l'opposizione, come se, in una simile circostanza
formale, fosse possibile dichiarare qualcosa d'altro. Si può
dare tutta la colpa al sistema elettorale, dimenticandosi che
di questo sgarrupatissimo sistema maggioritario il centrosinistra
è stato propugnatore e difensore a oltranza, nonostante
lo scarso entusiasmo dimostrato dagli italiani in un paio di
referendum. Si può dire di tutto, pur di non riconoscere
che la sconfitta era implicita nella scelta di far propria la
cultura dell'avversario e di accettarne a priori regole e priorità.
In questi casi chi detta le regole prevale sempre su chi le
adotta.
Certo, chi ha voluto la bicicletta non può far altro
che pedalare. Il guaio è che questo particolare modello
di bicicletta lo hanno voluto loro, ma a pedalare, come al solito,
saremo noi. Per cinque anni, senza condizionale.
Carlo
Oliva
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