Non siamo tra coloro che ritengono la
storia "magistra vitae", anzi crediamo che all'uomo contemporaneo,
frastornato da esigenze, vere o presunte, di un presente che
incalza, lo sbirciare nel passato non insegni proprio nulla
e non lo affranchi dal rischio di ripetere errori già commessi
da lui stesso o dai suoi simili.
Qualche volta, però, il ricorso alla memoria può servire a qualcosa:
se non proprio a raddrizzare la prora della nostra precaria
imbarcazione, almeno a riconoscere i pericoli che la navigazione
ci riserva.
Così eccoci qui a rimeditare a proposito dei Black Bloc
un'esperienza vissuta più o meno direttamente, nel lontano
(anni luce!) 1972.
All'inizio di quell'anno, i compagni di Milano declinarono l'invito
di cogestire, o, almeno, di partecipare alla manifestazione
indetta per l'11 marzo, nel capoluogo ambrosiano, che aveva
come tema principale "Valpreda libero - Fuori i fascisti dalla
città".
I compagni, dopo una serie di riunioni, avevano valutato negativamente
le modalità organizzative e alcune delle finalità che i gruppi
extraparlamentari intendevano imporre alla manifestazione. Ritenevano
soprattutto che non fosse coerente con il costume anarchico
la struttura militaresca che si voleva predisporre per la "difesa"
del raduno, né i propositi, pressoché espliciti, di provocare
lo scontro fisico con la polizia.
Tale diniego dei compagni di Milano, ovviamente, non era dettato
né da una vocazione legalitaria, né da una particolare sensibilità
pacifista istanze che non figuravano certamente nel dna
degli anarchici ma dalla convinzione che lo scontro era
già messo in conto dagli organi repressivi dello stato e che
si sarebbe inevitabilmente esercitato contro la maggior parte
dei partecipanti che allo scontro non erano per nulla preparati.
Per la cronaca, la manifestazione si tenne alla data stabilita
e, alla fine, purtroppo, si contarono decine di feriti e un
centinaio di arrestati.
Torniamo allora al nostro discorso sull'attualità e, in particolare,
ai tre giorni del G8 a Genova.
Era chiaro che un governo arrogante e velleitario, come quello
presieduto da Berlusconi, avrebbe di certo tentato di cogliere
l'occasione per presentarsi al mondo intero a due mesi
scarsi dal suo insediamento come il governo capace di
arginare e possibilmente sconfiggere un movimento quello
antiglobal che aveva destato vaste preoccupazioni in
tutti i paesi dell'occidente industrializzato.
Così, "picchiare duro" e senza alcun riguardo per i manifestanti,
qualunque fosse il loro comportamento in piazza, erano le parole
d'ordine che verosimilmente circolavano nelle caserme di polizia
e carabinieri, i quali, a loro volta, avevano addestrato squadre
speciali di infiltrati per rendere più agevole la realizzazione
del disegno complessivo.
La presenza di Fini nelle sale operative delle forze repressive
era certamente emblematica.
I fascisti, negli ultimi cinquant'anni di vita politica in Italia,
sono sempre stati la manodopera ottusa della violenza dello
stato, democristiano o consociativo che fosse. Sono sempre stati
loro a sporcarsi le mani (con la copertura, la connivenza o
addirittura con la partecipazione attiva dei servizi segreti,
per pudore definiti deviati) per ristabilire equilibri precari
di governo o per arginare le spinte "eversive" di un proletariato
che intendeva esercitare i propri diritti al benessere ed alla
libertà.
Comportamenti scriteriati
Tutto, quindi, era pronto, garantito dai continui viaggi che
Berlusconi e la parte più rappresentativa della sua corte dei
miracoli compirono nel capoluogo ligure prima del grande evento.
Sappiamo che, poi, molte cose non funzionarono secondo i loro
intendimenti, ma questo riguarda gli apprendisti stregoni del
governo e dei suoi organi repressivi, che non seppero dare un'adeguata
regia al copione. Questo però non assolve i comportamenti scriteriati
dei Black Bloc, che avrebbero potuto arrecare danni ben più
pesanti al movimento, oltre a quelli già gravissimi che si possono
sintetizzare negli oltre cinquecento feriti e in centinaia di
arrestati.
Il nostro discorso, ovviamente, non riguarda gli infiltrati,
i naziskin o i provocatori di professione, vestano o no una
divisa, ma quella parte di manifestanti che, in perfetta buona
fede, ha creduto di potere elevare il livello dello scontro
politico, non seguendo le indicazioni nonviolente della maggioranza
dei manifestanti.
Ci auguriamo che essi, nei prossimi appuntamenti, abbiano maturato
la convinzione (suffragata da una lunga esperienza) che atti
di violenza indiscriminata hanno sempre avuto, come esito immediato,
di provocare l'istintiva riprovazione dell'opinione pubblica
anche non moderata (e, quindi una sottrazione di consenso) e,
soprattutto, l'ulteriore divisione del proletariato, che, pur
volendosi battere contro il sistema che non lo garantisce, ripudia
forme di violenza che non abbiano come retroterra motivazioni
forti e riconoscibili.
Appare chiaro, da quanto abbiamo detto, che siamo lontani mille
miglia dal voler criminalizzare qualcuno o dal voler dare contenuti
moralistici alle nostre argomentazioni.
Vogliamo solo ribadire un principio anarchico, consolidato da
cento anni di storia.
Lo scontro duro, anche armato, contro la repressione gli anarchici
lo hanno esercitato quando si è trattato di difendere un processo
rivoluzionario condiviso e supportato da una parte consistente
della società oppressa. Se così non fosse stato, gli anarchici
avrebbero confuso e condiviso la loro sorte con la sorte di
quanti, in tutte le epoche, hanno compiuto fughe in avanti senza
preoccuparsi di chi li seguisse.
Costoro si chiamassero bolscevichi, avanguardie o partiti
egemoni dopo aver tradito e spesso eliminato quanti erano
portatori di istanze autenticamente rivoluzionarie, furono sempre
e ignominiosamente cancellati dalla storia e le loro ideologie
rimosse dalla coscienza popolare.
Noi anarchici, invece, ci sentiamo ancora bene e non accusiamo
molti acciacchi: segno che seguiamo una dieta rigorosa e salutare.
Ritorniamo, allora, all'inizio del nostro ragionamento.
In quel lontano 1972 i compagni di Milano avevano seguito la
buona regola di non cedere alla tentazione di sferrare un pugno
ad un avversario che non era ancora alla loro portata.
Bisognava allora (e bisogna oggi) avere pazienza, fare di tutto
per irrobustirsi e crescere di numero.
La vocazione al martirio non è una virtù rivoluzionaria e non
ha mai fatto molti proseliti.
Il povero Carlo Giuliani è vittima dello stato, che ne ha premeditato
l'omicidio. Sarebbe riduttivo e mistificatorio considerarlo
martire del Movimento.
Antonio Cardella
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