Forse, per discutere seriamente sui
fatti di Genova, bisognerebbe cominciare con il togliere di
mezzo quello su cui non si può che essere d'accordo.
Come a dire, la sacrosanta denuncia della brutalità poliziesca,
delle cariche inutili, dell'incursione alla Diaz, dei pestaggi
a Bolzaneto e altrove, dei comportamenti violenti cui, senza
apparente necessità, si sono abbandonati molti, troppi
esponenti delle "forze dell'ordine" e della loro manifesta
incapacità (ma forse sarebbe più esatto dire disinteresse)
di far distinzione tra i manifestanti pacifici e le eventuali
presenze violente. Che tutto ciò sia potuto accadere
in Italia all'inizio del XXI secolo è indubbiamente una
vergogna, ma non può essere una sorpresa per nessuno.
Che un governo di destra insediato da poco e notoriamente ossessionato
dal problema della propria immagine non potesse che impostare
una gestione della piazza di quel tipo era quanto tutti avevano
il diritto (e il dovere) di attendersi. Che all'interno dei
molti corpi di polizia che allignano nel paese fosse largamente
diffusa una cultura a basso contenuto di democrazia, lo sapevamo
tutti, con la possibile eccezione di quei sostenitori dell'Ulivo
che credevano che in cinque anni di governo della sinistra (diciamo
così) le malepiante fossero state estirpate e il rapporto
tra cittadini e polizie si improntasse ormai ai modelli idilliaci
esibiti nelle più note serie televisive in materia. Che
in questa situazione finiscano per esserci delle vittime, è
un dato tragico, che trova ben più di un tragico e puntuale
riscontro nella storia italiana dal dopoguerra in poi.
Insomma, è giusto e doveroso sforzarsi di definire i
singoli comportamenti e le singole responsabilità individuali,
cercar di capire cosa ci faceva il tal deputato in sala operativa
e quale graduato, ufficiale o funzionario abbia o non abbia
dato il tal ordine, ma l'analisi politica di quanto è
successo, purtroppo, non è difficile. Al potere è
solidamente insediata una destra molto meno moderata di quanto
ami far credere ed era altamente prevedibile che un siffatto
governo avrebbe dato mano libera all'apparato poliziesco che,
a sua volta, avrebbe largamente approfittato di quell'avallo.
Più imprevedibile, forse, è stata la reazione
del "paese civile", la ribellione dell'opinione pubblica,
di una consistente parte dei media e persino di qualche elemento
della magistratura. Se un certo numero di cronisti si sono ostinati
a riferire quanto avevano visto con i propri occhi, in evidente
contrasto con i giudizi solennemente espressi dalle "firme"
dei loro stessi giornali, se i comportamenti polizieschi più
scandalosi non hanno goduto di un'immediata copertura giudiziaria,
nonostante le forti pressioni in tal senso, vuol dire che la
presa della destra sul paese è meno stretta di quanto
i risultati elettorali possano far pensare. Ma questo, come
i lettori di "A" sanno benissimo, è un altro
discorso.
Tutto ciò premesso, bisogna ammettere che a Genova di
imprevisti ce ne sono stati parecchi. E che le problematiche
che questi imprevisti ci pongono sono forse maggiori e più
complicate di quanto comunemente si creda.
Innanzi tutto, bisognerà ben decidersi a prendere in
considerazione un dato che, chissà perché, si
tende a dare per scontato, vale a dire lo straordinario successo
della mobilitazione contro il G8. Un successo tanto più
notevole, in quanto verificatosi in una situazione di generale
ripiegamento delle forze di opposizione e in assenza, tutto
sommato, di un vero e proprio movimento organizzato. Certo,
tra le forze rappresentate nel Genoa Social Forum, di movimenti
organizzati non ne mancano certo, e alcuni di essi vantano radici
ramificate e un ampio insediamento sociale. Ma non era affatto
scontata l'idea di una confluenza, tutto sommato, feconda, tra
realtà tanto eterogenee, dai centri sociali al volontariato
cattolico, dalle "tute bianche" alla "rete Lilliput".
In quella vasta galassia, che, non per niente, ha scelto, per
definire il proprio livello di autocorrelazione, un termine
non troppo impegnativo e vagamente esoterico come "Forum",
c'era e c'è di tutto: gruppi con pretese di rappresentanza
politica generale e single purpose mouvements, emanazioni di
partiti tradizionali e organizzazioni impegnate nell'intervento
sociale diretto, estimatori della Tobin Tax e fautori della
consegna di pasti caldi a domicilio agli anziani indigenti,
utopisti estremi e profeti dell'uovo oggi, asceti e gaudenti,
anarchici e boy scout. E tutti costoro si sono messi insieme,
superando le immaginabili difficoltà e complicazioni,
in nome di una parola d'ordine tutt'altro che di facile intendimento,
quel no a una "globalizzazione" che moltissimi cittadini
che seguivano la cronaca di quei giorni in TV si chiedevano
cosa cavolo fosse.
Democrazia diffusa
Già, perché una cosa è protestare contro
il G8, perché non è bello che i leader dei paesi
più ricchi si arroghino il diritto di governare l'intero
pianeta (anche se, naturalmente, le cose sono più complicate,
visto che il G8 non rappresenta in toto la potenza economica
mondiale, nel senso che ci sono paesi ricchi che non ne fanno
parte, con un importante viceversa e c'è chi ne fa parte,
come l'Italia, anche se non riesce a governare nemmeno se stesso)
e un'altra è abbozzare un'analisi politicamente utilizzabile,
sia pure in termini sommari, dei processi di globalizzazione.
Che sia in corso una qualche forma di unificazione dell'economia
e della gestione delle risorse a livello mondiale, con tutte
le ricadute del caso sulla cultura dei popoli e le condizioni
di vita delle comunità, è, naturalmente, un dato
di fatto. Che questa tendenza sia un male in sé, tuttavia,
è ancora tutto da dimostrare. Che vada bloccata o corretta
(governata, come si dice più spesso) è argomento
di acceso e articolatissimo dibattito. Discussioni del genere,
naturalmente, a Genova non ne sono mancate, nelle giornate di
convegno che hanno preceduto le manifestazioni del 19, 20 e
21 luglio, ma si è trattato in gran parte di un dibattito
interno che non è stato ancora socializzato a livello
di massa.
Quel che si è espresso a livello di massa in quei giorni,
mi sembra, è un'ampia richiesta di democrazia diffusa,
portata avanti a partire dall'analisi di certe contraddizioni
caratteristiche della situazione contemporanea. Il che non è
poco. È l'atto di nascita di un movimento nuovo, impegnato
con il presente e abbastanza indifferente alle contrapposizioni
ideologiche del passato, un movimento - quindi - capace di rappresentare
un salto di qualità politica quanto mai necessario, non
solo rispetto alla sinistra tradizionale, ma anche rispetto
agli eredi della contestazione degli anni '70. Un movimento,
però, che non ha ancora elaborato obiettivi e strategie
comuni (ne ha a livello di singole componenti, ma questo, appunto,
è il problema) e che per ora deve limitarsi, nonostante
la forza che esprime e le novità che incarna, alla manifestazione
simbolica (e, tutto sommato, abbastanza tradizionale) della
propria esistenza. La necessità di essere a Genova in
quei giorni non era determinata dalla volontà di esprimere
un programma, che di fatto manca ancor oggi, e di indicare una
strategia, che non è stata ancora elaborata: era la pura
e semplice necessità di esserci, di contrapporre la realtà
propria a quella istituzionale secondo i modelli già
sperimentati con maggiore o minore successo da Seattle in poi.
Dopo Seattle, e Davos, e Goteborg, non poteva non esserci Genova.
Quel movimento, in definitiva, si è aggregato per imitazione
di quelle esperienze, che ha conosciuto in gran parte per via
mediatica, e si è posto un obiettivo di autotestimonianza
che è stato in gran parte affidato ai media. I suoi gesti
avevano, dunque, una fortissima valenza simbolica, nel senso
che i suoi messaggi erano affidati ad azioni essenzialmente
esemplari, prima tra tutte la dichiarata intenzione di eludere
il divieto che voleva escludere i manifestanti da una parte
della città. Che questo fine andasse perseguito in termini
di sfondamento militare o di infiltrazione concordata è
stato incerto fino all'ultimo (anche perché un'altra
caratteristica delle aggregazioni di questo tipo consiste in
una certa incertezza sulla natura e la collocazione delle istanze
decisionali), ma che il clou della manifestazione dovesse individuarsi
la penetrazione nella "zona rossa" non mi sembra sia
stato messo in discussione da nessuno. E siccome, a questo punto,
la "difesa" della zona rossa acquistava per le autorità
un valore altrettanto simbolico, ecco che si erano poste tutte
le condizioni per uno scontro di quelli tosti.
Il quale scontro, si sa, è stato complicato dalla (inattesa?)
presenza dei vilains, i "cattivi", meglio noti come
i Black Bloc, le temibili "tute nere", che, abbandonandosi
a inconsulti atti di violenza contro le cose avrebbero, se non
innescato, almeno giustificato la reazione poliziesca e i successivi
eccessi repressori. L'opinione prevalente, ben attestata anche
in alcuni interventi su questo numero di "A", è
che costoro vadano considerati soprattutto dei terribili guastafeste
e che il fatto che le fonti governative e poliziesche, ricorrendo
a un repertorio di definizioni politiche fermo, più o
meno, a un secolo fa, li abbiano prontamente identificati per
"l'ala anarchica" del movimento rappresenti, in ultima
analisi, un onore immeritato. Il fatto, innegabile, che le loro
imprese siano state ben poco ostacolate dalle forze dell'ordine,
dando adito al sospetto che tra loro non mancassero infiltrati
e provocatori, ha contribuito alla diffusione di un giudizio
severo. Alla polizia, in effetti, i portavoce del Forum hanno
rimproverato soprattutto la dimostrata incapacità di
fermarli.
Ora, non sarò io, a mettere in discussione questi giudizi,
anche perché a Genova non c'ero e della dinamica degli
eventi non ho esperienza diretta. Personalmente credo alla nonviolenza
e ho già avuto occasione di scrivere, su queste pagine,
cosa penso della disinvolta tendenza ad attribuire agli "anarchici"
in quanto tali attentati poco chiari e azioni violente di incerta
paternità e dubbia rivendicazione (qualche anarchico,
ricordo, se n'era persino adontato, come se gli avessi dato
dell'imbelle). Ma mi permetterò di far notare, senza
alcun intento giustificatorio, che, almeno da un certo punto
di vista la logica di questi casseurs, che hanno incendiato
cassonetti, infranto vetrine, devastato agenzie bancarie e acciaccato
automobili, non è poi così irriducibile alla logica
generale cui il movimento si è attenuto a Genova. Anche
quella di distruggere certi oggetti e devastare certi luoghi
è un'azione eminentemente simbolica. Se il problema è
quello di affermare, e segnalare per via mediatica, la propria
esistenza, be', qualcuno convinto che un cassonetto in fiamme
serva allo scopo meglio di cento cortei lo si troverà
sempre. Il ragionamento può sembrare di corto respiro,
nonché abbastanza controproducente, ma non a tutti gli
dei hanno concesso il dono della perspicacia.
Naturalmente, per evitare in futuro esiti di questo tipo, non
basta pretendere che tutti, d'ora in poi, si impegnino a fare
i bravi ed è assai dubbio, come insegna l'esperienza
degli anni '70, che ci si possa affidare con successo ai servizi
d'ordine. La via non può essere che quella dell'approfondimento
sempre più puntuale delle analisi, della definizione
di obiettivi e strategie che non si esauriscano nella contrapposizione
pura e semplice. I gesti esemplari sono importanti, ma da soli
servono a poco. Far coincidere il proprio scadenzario con la
successione delle manifestazioni istituzionali cui esprimere
la propria ostilità non porta da nessuna parte. Il rischio
è quello di trovarsi impegolati in un dibattito di natura
desolatamente ideologica (com'è, in definitiva, quello
sulla violenza). Il che, per un movimento che è cresciuto
sul rifiuto degli steccati ideologici tradizionali, non sarebbe
l'ultimo degli imprevisti.
Carlo Oliva
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