Rivista Anarchica Online


attenzione sociale


diario a cura di Felice Accame

Il teatro della bomba

 

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Nel teatro contemporaneo, allorché il dramma si è incentrato sulla fisica, si è più o meno velatamente alluso ad uno dei risultati cruciali di questa scienza per la storia dell’umanità, ovvero alla costruzione della bomba atomica ed al suo uso, sciagurato, ingiustificato e ingiustificabile, da parte degli americani contro l’ormai prostrato Giappone. Brecht ha arrangiato la sua Vita di Galileo almeno tre volte e, nell’ultima versione – databile fra il 1953 e il 1955 – attinge parecchio a quella materia tragica che la storia del conflitto mondiale ha purtroppo messo a disposizione. Dopo Brecht, in proposito, non bisogna dimenticare Dürrenmatt, che, nel 1962, scrisse I fisici. È lui che immagina un gruppo di fisici del Novecento tanto oberati dalle proprie responsabilità da fingersi pazzi – e farsi ricoverare in manicomio –, piuttosto che adempiere alle volontà dei potenti costruendo la nuova arma micidiale di cui pur sarebbero stati capaci.

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Verso la fine di aprile del 1942, a tavola, il generale Friedrich Fromm confidò ad Albert Speer tutto il suo pessimismo e gli disse che se la Germania non si fosse dotata di una nuova potentissima arma avrebbe certamente perso la guerra. Lui aveva i contatti giusti e li metteva a disposizione di colui che, oltre a essere legato da vincoli di amicizia con Hitler, in quel momento, dal 1941 – nonostante fosse un architetto –, era anche Ministro per l’armamento. Nelle sue memorie, Speer (e Gitta Sereny nell’ampia e approfondita biografia che gli ha dedicato, In lotta con la verità, Milano 1955) ricorda come da queste premesse non si passò, tuttavia, alla realizzazione della bomba atomica. Si incontrò con i fisici del Kaiser Wilhelm Institut – fra i quali c’erano sia Hahn, che nel 1938 aveva scoperto la fissione nucleare, ed Heisenberg –, soddisfò le loro richieste e, senza parlarne troppo con Hitler – che detestava la fisica atomica perché la riteneva indissolubile dall’ebreo Einstein –, attese con fiducia e pazienza. Una volta sola si tradì, con Goebbels e, nonostante gli avesse raccomandato la segretezza, il giorno dopo questi diede alle stampe un articolo intitolato Armi miracolose in preparazione.

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Gli storici della scienza, presumibilmente, messi in difficoltà dall’azione dei vari servizi segreti, non hanno le idee chiarissime su quel che effettivamente accadde. Fino ad ora la tesi prevalente diceva che Heisenberg e soci non sono riusciti nell’impresa di costruire la bomba atomica – che ci hanno tentato, che non ne avevano i mezzi e che non ce l’hanno fatta nonostante la loro buona volontà. A cura di Anna Ludovico, viene pubblicato oggi Effetto Heisenberg (Armando, Roma 2001), libro che, fra i vari saggi, ne contiene uno di Federico Marinelli intitolato Sulla impossibilità epistemologica di separare la storia dagli altri ambiti di realtà – saggio che, nelle intenzioni dell’autore, dovrebbe aiutarci, anche tramite dati nuovi, a rovesciare la prospettiva.
Dal canto mio ero e sono più che disposto alla riconsiderazione benevola nei confronti di Heisenberg. Figuriamoci, se salta fuori nuova documentazione che dimostri come storicamente fondate la sua capacità di costruire la bomba atomica, nonché la sua ferma volontà di non costruirla affatto per non agevolare il nazismo, sono ben lieto di potermi fare una migliore opinione di lui. Dico che l’opinione di oggi sarebbe migliore, rispetto a quella di ieri, perché, a dire il vero, molte affermazioni di Heisenberg in Fisica e filosofia non le condivido e continuerò a non condividerle – almeno fino a che una nuova documentazione non mi convinca che quelle affermazioni non sono sue. Per esempio, quella più o meno conclusiva concernente “le idee scientifiche” – che si diffonderebbero “soltanto perché sono vere” (pag. 226, ed. Il Saggiatore, Milano 1994) –, o quella secondo la quale “i concetti delle leggi naturali devono, nella scienza naturale, essere definiti con precisione completa” e secondo la quale “ciò può esser fatto soltanto per mezzo dell’astrazione matematica” (pag. 202, ibidem). In Fisica e filosofia, insomma, si fondono allegramente ingenuità realistiche e idealistumi della più bell’acqua. Per quanto concerne, invece, il suo ruolo politico nel nazismo e durante la guerra, ho sempre ritenuto di saperne troppo poco a confronto di servizi segreti e altri professionali mestatori nel torbido. Da ciò una certa dose di cautele nell’ascriverlo a qualsiasi fazione.
Sarei ben lieto, dunque, di assegnargli qualche merito, ma – e qui siamo al punto dolente del saggio di Marinelli – senza dovermi abbracciare un’intera teoria spiritual-neo-idealistica per poterlo fare. Posso, cioè, anche accettare l’idea che Heisenberg abbia avuto a che fare con l’opposizione antihitleriana della “Rosa Bianca” senza dovermi sorbire i delirii cattosimbolistici di Romano Guardini sulle rose in quanto ontologia botanica.
Per farla breve: mirando più a filosofare che a fornire documentazioni convincenti, Marinelli finisce col non persuadermi di alcunché. Lascia in ombra alcuni problemucci storiografici (del tipo: come mai Heisenberg se la cava ripetutamente – nel 1944, dopo l’attentato fallito contro Hitler, nel 1945, dopo l’accusa di disfattismo da parte della Gestapo, prima, in seguito all’accusa di “omosessualità” – nonostante non stia facendo la bomba? Perché, nel 1942, gli viene assegnata la direzione dell’istituto di fisica del Kaiser Wilhelm Institut nonostante una “forte opposizione”?) e, con un salto mortale degno di una nuova antologia di Sokal e Bricmont, cerca di giustificare quest’ombra tirando in ballo addirittura il principio di indeterminazione (proprio quello doc, quello formulato da Heisenberg stesso nel 1927). Heisenberg salva Heisenberg, neo barone di Münchhaunsen si tira fuori dal guado tirandosi per il codino. Si legge, infatti, a pag. 158 che “chi da questa documentazione storica vorrebbe trarre un responso definitivo su Heisenberg, chi voglia cercare fino in fondo come le cose siano realmente, si scontra appunto contro lo scandalo insito nel principio di indeterminazione e cioè che questa realtà presunta non è e quindi non è pensabile, l’ipotetica “versione definitiva” non è realtà storica”. E si rincara la dose a pagg. 166-167, laddove si dice che “qualora le interpretazioni che ho argomentato fossero accolte e condivise, riteniamo” – segnalo il passaggio dalla prima singolare alla prima plurale perché è troppo bello per lasciarselo sfuggire – “che l’interrogativo che incalza da oltre cinquant’anni, se cioè Heisenberg non abbia potuto o non abbia voluto costruire la bomba atomica, possa essere risolto in un’ottica filosofico-spirituale e non soltanto storico-tecnico-scientifica”. Le implicazioni della questione, prosegue il Marinelli, travalicherebbero “di gran lunga il fatto episodico” e giacerebbero “in un ambito della realtà superiore e totalmente “indeterministico”, come quello del libero arbitrio”.
Se poi ci si aggiunga alcuni tratti, diciamo così, stilistici, si ottiene un quadro della metodologia storiografica di Marinelli davvero inquietante. Forse qualche critico della prima ora sarà stato anche tentennante allorché ha bollato Heisenberg di “apologia del nazismo” (pag. 160), ma se avesse letto che, “in questa ottica non limitativa si potrà (…) portare allo scoperto ideali e comportamenti sia pur condivisi da poche persone emergenti da una massa amorfa o condizionata nel discernimento” e che “tali atteggiamenti, sostenuti da una chiara visione spirituale e da simbolizzazioni che consentono l’approccio ad ambiti superiori della realtà, altrimenti inconoscibili, diventano descrivibili e chiave interpretativa della realtà stessa, più e meglio di quanto è visibile e tangibile in modo immediato” (pag. 104, ma gli esempi avrebbero potuto essere tanti, come i suoi punti esclamativi), non avrebbe più avuto alcun dubbio. I neretti sono miei – come mia è la paura che questo linguaggio mi incute.

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Nella Copenhagen occupata dai tedeschi, nel 1941, Heisenberg incontra il fisico danese Nils Bohr e gli dice che la Germania avrebbe vinto sicuramente la guerra, perché la bomba atomica era quasi pronta. Anzi, lo invita a unirsi a loro per salire sul carro dei vincitori e per fare in modo che questo carro arrivi prima. Bohr, invece, detesta i nazisti: scappa in Inghilterra e, probabilmente – con quel che sa o che crede di sapere –, contribuisce a dare un’accelerata alla bomba atomica della controparte. Heisenberg, più tardi, dirà che Bohr lo aveva frainteso e che lui gli aveva detto tutt’altro. Lo storico incontro – con l’ormai inevitabile nebulosità che l’accompagna – è servito ai nostri giorni per un ulteriore spettacolo teatrale, Copenhagen di Michael Frayn che, dopo Londra e Parigi, è stato allestito, per la regia di Mauro Avogadro, anche nei teatri italiani. Ancora storia della fisica come materia di teatro. Nulla, comunque, che possa disturbare quegli “spettri del passato” sul silenzio dei quali hanno fatto molto affidamento i protagonisti.

Felice Accame