Il Bangladesh come contesto
Il Bangladesh, disteso nel delta del Gange, a sud est dell'India
ha conosciuto fin dalle sue origini il dominio di imperi potenti
come di Moghul che arrivarono nel VI secolo, sconfitti soltanto
dalla Compagnia delle Indie dei coloni inglesi. Questi in Bangladesh
trovarono una vera e propria fortuna, sia per la sua posizione
strategica (con il porto di Chittagong a sud) che per le risorse
da sfruttare: riso, juta e tè. Cominciò uno sfruttamento
intensivo senza alcun ritorno, tutte le ricchezze venivano esportate
in Inghilterra. Ma il peggio arrivò con l'indipendenza
del 1947, quando il Bangladesh fu diviso in due: la parte orientale,
quella a maggioranza musulmana fu ceduta al Pakistan e prese
il nome di Pakistan dell'est, mentre la parte occidentale divenne
India a tutti gli effetti, pur avendo in comune solo la religione
indù. La dittatura pakistana esordì con l'abolizione
della lingua bengalese e con l'obbligo di adottare ogni usanza
pakistana, e non ammettendo nessun rappresentante bengalese
al governo.
Tutto questo condusse a una rivoluzione civile nel 1970, conclusasi
nel 1971 con la proclamazione di Bangladesh indipendente. Da
allora il paese deve ancora risollevarsi, tra carestie e alluvioni,
un'economia sempre fragile e governi instabili. La fragilità
politica ed economica è solo un particolare rispetto
allo stato di mera sussistenza in cui vive il popolo bengalese,
basti pensare che la superficie è di circa 144.000 Kmq
per una popolazione di 120 milioni di abitanti: una sproporzione
che ha fatto del Bangladesh un paese di emigranti. Altro fatto
di grave rilevanza sono i casi di donne colpite dall'acido al
volto, donne sfigurate per motivi di onore, dote o gelosia da
parte di spasimanti o parenti. In molti studi le donne bengalesi
sono indicate come le più povere dei poveri, perché
la loro situazione è aggravata dalle violenze e dalle
regole di un ordine patriarcale forte.
Microcredito e cooperative
Il microcredito è un'esperienza nata negli anni 70
in Bangladesh, si tratta di un piccolo prestito dato al singolo
ma con il vincolo di costituire un gruppo, di modo che se un
membro non restituisce la sua quota saranno gli altri a coprire
l'ammanco. In questo modo la "banca" è
tutelata e la pressione sociale costringe tutti i membri del
gruppo a lavorare. In questo sistema le donne si sono rivelate
più attendibili degli uomini, questo dato è riportato
in particolare dal prof. Yunus Muhammad, ideatore del microcredito
(vedi Il Banchiere dei poveri, ed. Feltrinelli, Milano1998)
Negli stessi anni, parallelamente a questa esperienza, nasceva
quella del commercio equo italiano che con lo stesso sistema
ha dato dei finanziamenti a gruppi di donne che lavorassero
in gruppo (con la costituzione di una cooperativa) per poter
esportare i manufatti artigianali in occidente. Dopo trent'anni
di esperienza il gruppo di donne che ha cominciato, è
in grado di elencare i vantaggi personali e sociali che al villaggio
si sono avuti grazie alla cooperativa, ne riporto alcuni: i
figli e le figlie possono studiare, si può andare dal
medico o comperare le medicine, molte si sono costruite la casa
e hanno comperato del terreno da coltivare e delle bestie; inoltre
c'è un piccolo fondo di garanzia che ottenuto detraendo
il 5% dello stipendio di ogni donna della cooperativa, in modo
che se qualcuna deve far fronte ad un'urgenza economica può
richiedere alla cooperativa di accedere a quella parte di denaro.
In Bangladesh, dove la povertà è il denominatore
comune, è nata un'esperienza che ha esportato il suo
sapere in innumerevoli paesi: il microcredito. Ciò che
mi ha interessata di tale proposta sta nella scommessa di prestare
denaro a chi privo di garanzie patrimoniali ma carico di capacità
e, in seconda battuta, la scelta di prestare il denaro alle
donne. Perché alle donne? Con questa domanda sono partita
per la mia ricerca di tesi, e sono arrivata al villaggio di
Bhabarpara (nord-ovest del Bangladesh), dove un gruppo di donne
(circa 60 in tutto) lavorano nella loro cooperativa. Sono rimasta
al villaggio per due mesi, ospite di una famiglia. La cooperativa
è nata negli anni 70 per lavorare la juta e con
cui confezionare diversi articoli, sottopentola, tappeti, amache,
shike (qui conosciuti come portavasi da appendere al soffitto)
ed altri ancora.
"Ma dove sono le altre?"
"Sono qui per studiare il lavoro nella cooperativa"
spiegai al mio arrivo. "Bene, allora dovrai conoscere tutte
le donne che ci lavorano", mi disse Nicha, la presidente
in carica. Già il secondo giorno stavo seguendo a passo
veloce la sua figura avvolta in un sari giallo e blu, stavamo
andando al sentare (centro) ovvero il magazzino dove vengono
depositati tutti i manufatti per essere imballati e poi spediti
al porto di Khulna. Stavo aspettando l'arrivo delle donne che
lavorano per la cooperativa, ma ne arrivarono soltanto cinque.
Ma dove sono le altre? chiesi a Nicha. Oggi facciamo una riunione
con tutte le rappresentanti dei gruppi, per questo sono venute
al sentare, solitamente noi lavoriamo a casa ed una volta
in settimana portiamo qui i manufatti.
Per il resto della mia permanenza ho sempre seguito Nicha nel
suo lavoro, e con lei sono andata nelle case delle donne, che
si radunavano in gruppetti per lavorare assieme. "Il nostro
non è un lavoro a tempo pieno mi spiegano
tutte noi abbiamo i lavori domestici da sbrigare, i bambini
da accudire, e varie attività che occupano buona parte
della nostra giornata, comunque l'attività artigianale
occupa un posto privilegiato nella nostra vita. È un
lavoro in cui riusciamo ad esprimere la nostra abilità,
il nostro gusto. È un lavoro che ci fa sentire apprezzate.
Per noi lavorare insieme, ci dà modo di parlare di quello
che ci interessa. E poi sapere che quello a cui stiamo lavorando
andrà all'estero
è un po una parte
di noi che va all'estero!".
In queste poche parole è espressa tutta la forza del
lavoro che quotidianamente viene svolto dalle donne della cooperativa.
Ritrovarsi a piccoli gruppi, potersi muovere liberamente da
una casa all'altra e, talvolta, da un villaggio all'altro per
motivi di lavoro ha dato alle donne un grossa spinta all'autonomia.
Basti pensare che le donne in Bangladesh sono costrette ad osservare
tutte le regole imposte dal purdah, che prescrive la
segregazione dentro casa, l'impossibilità di compiere
qualsiasi transazione se non si è accompagnate da un
rappresentante maschile della propria famiglia. All'inizio i
mariti non vedevano di buon occhio il fatto che le mogli si
recassero "in giro" sole, ma quando si accorsero dell'importanza
del contributo del loro lavoro si ricredettero; questo cambiamento
avvenne con gli anni e con molta insistenza e caparbietà
da parte delle donne.
Tutte partecipano
Avere la possibilità di riunirsi ha permesso alle donne
di mettere in comune ben più del lavoro, si accorsero
che i problemi di ogni singola erano i problemi di molte, fino
ad arrivare a sostenersi e a difendersi a vicenda. "Abbiamo
aperto gli occhi" dice Chalear, una delle fondatrici e
presidente per anni, la sua voce tonante risuona nella piccola
stanza buia.
Il lavoro è faticoso, gli unici strumenti sono un ago
e la juta, tutto viene intrecciato a mano, senza telai. Bisogna
fare una lunga treccia sottile, poi la si modella a seconda
della forma che si vuole creare, le forme e le dimensioni sono
disegnate su una tavola di legno, così da rendere tutti
i manufatti omogenei. Il controllo della qualità viene
fatto da una delle donne della cooperativa, che è stata
scelta dalle altre per la sua esperienza, lei infatti si accorge
subito degli errori e dei difetti. Ciò che mi ha stupita
è l'organizzazione che si sono data: benché nella
cooperativa si siano individuate delle figure rappresentati,
tutte le donne partecipano attivamente al funzionamento della
cooperativa, tutte si interessano alla conduzione e non soltanto
alla produzione in senso stretto, se ci sono delle decisioni
importanti da prendere si riuniscono tutte al sentare,
oppure se non è possibile, si radunano tutte le rappresentati
che riferiscono le decisioni e raccolgono i pareri di tutte
le donne.
Il lavoro della cooperativa è parte integrante della
vita delle donne che vi partecipano, ed ha fatto emergere una
fitta rete di legami che ha tenuto forte ed ha parato le cadute,
causate da alluvioni, crisi economiche o imprevisti: quella
che emerge è la storia di grandi passaggi che le donne
hanno fatto nel tempo e di piccoli passaggi che compiono quotidianamente,
per seguire tutte le attività dentro e fuori la cooperativa.
Chalear racconta le difficoltà del passato, dei sabotaggi
dei "capoccia" del villaggio (uomini d'affari a cui
dava fastidio il lavoro indipendente delle donne) a cui "sarebbe
piaciuto che noi chiudessimo e che tornassimo a lavorare a servizio
dei ricchi o nei campi, per un barattolo di riso". Ciò
che risalta nel lavoro della juta sono le forti relazioni che
le donne tengono vive con il lavoro, in questo sta il punto
di svolta che fa la differenza tra il lavoro di gruppo femminile
da quello maschile.
Oltre il guadagno
Quello che Yunus Muhamad, ideatore del microcredito, ha indicato
come "solidarietà femminile" ha origine nel
"luogo comune" alle donne, la casa. È lì
che le donne costruiscono, e si affidano, ad una "rete
femminile" che non è una trama ipotetica che unisce
le donne in una solidarietà misteriosa ma un'istituzione
come la parentela e il matrimonio profondamente
radicata nella loro vita. Il mutuo aiuto e la collaborazione
sono elementi che contraddistinguono il lavoro femminile, non
si basano soltanto sulla necessità, ma sono un intreccio
tra bisogno e sentimento: le relazioni delle donne sono il loro
capitale. Il fatto che le donne in Bangladesh siano dipendenti
è ripetutamente e ovunque sottolineato, ciò che
manca di essere detto è che questo può diventare
sia il centro del loro potere che della loro vulnerabilità.
Far uscire le relazioni, nella cooperativa di Bhabarpara ha
permesso alle donne di creare un'attività produttiva,
rivolta ad un mercato internazionale e di mantenere saldo il
loro legame familiare. Il guadagno supera l'aspetto economico,
se c'è qualcosa che ho sentito sottolineare con forza
dalle donne è che il cambiamento per loro è stato
di mandare i figli a scuola, di aver comperato una mucca, qualche
gallina, di poter andare dal medico se necessario.
Prima di lasciare il villaggio chiesi a Chalear "Sono trent'anni
che lavori la juta, non sei stanca? non vorresti riposarti o
cercare qualcos'altro?". In tutta risposta mi disse: "Io
nel mio lavoro sono libera."
Sandra Endrizzi
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