Son già passati 25 anni dalla
posa della lapide nella piazzetta di Letino, che ricordava il
centenario del moto della primavera del 1877. E a distanza di
25 anni, la sera del 4 aprile, in una sala dellazienda
agrituristica che ci ospita, facciamo gli ultimi preparativi
prima della partenza solenne dellindomani mattina. Niente
lapidi, stavolta, anche se la manifestazione ha avuto un suo
prologo nella presentazione di Cusano Mutri, il 23 marzo u.s.,
nella sala consiliare del Comune. Vengo nominato, anche se non
ancora in campo, cronista ufficiale della manifestazione. A
tavola siamo in undici a consumare la frugale cena di lavoro.
Dei presenti ognuno, secondo le proprie simpatie e inclinazioni,
si sceglie un nome tra i ventisei a disposizione dei partecipanti
al Moto del 1877: ricominciano a circolare, per qualcuno per
familiarizzare con gli eventi da rivivere, per qualche altro
per entrare nella finzione goliardica del novello rivoluzionario,
i nomi di Carlo, Errico, Domenico e del fratello Pietro Cesare,
Alamiro, Sisto, Ugo, Ariodante, e via via tutti gli altri. Scelgo,
per la cronaca, quello di Francesco Ginnasi, il Conte, il possidente
di Imola. Attaccata al muro, sulla parete di fronte, sopra al
camino, che arde alacremente, pende la bandiera diagonale rosso-nera.
Tra gli altri presenti nella sala qualcuno sente che parliamo
di Internazionale; uno di questi, tra il sorriso e il serio,
sbotta: Siete dellInternazionale e portate la bandiera
del Milan. Così va la vita. I nostri sono tutti iscritti
ai vari CAI (Club Alpino Italiano) di Napoli, Caserta e Piedimonte
Matese. Benché non la pensino allo stesso modo, ognuno,
interpellato sulla circostanza, si sente comunque orgoglioso
diniziare lavventura sotto il sigillo rosso-nero.
Arriva Vittorio, lautista che ci dovrà portare
allinizio di ogni tappa e riprenderci alla sua conclusione.
Siete in pochi. afferma Vengo col pulmino
da sedici posti.
Gli facciamo notare che sabato e domenica saremo di più.
Va bene lo stesso. risponde Vi ho sistemato
unintera squadra di calcio di ventisette albanesi e, unaltra
volta, trentuno persone che andavano al Santuario del Bambino
Gesù.
Fuori imperversa una bufera di neve. Siamo a quota m. 1030,
immersi in boschi di faggio, pascoli, strutture zootecniche
e complesso agrituristico.
Si scherza, si fanno battute sulla imminente rivoluzione ma
circola, subdolo, un timore malcelato, dovuto al pensiero per
linclemenza del tempo, le asperità del percorso
e, non ultimo, limpari confronto con la storia.
Il camminamento (molto meglio che trekking) prevede tre tappe
di otto ore ciascuna: è stato così deciso per
questioni organizzative, senza alcun riferimento temporale ai
fatti storici. Il percorso, in larga parte, è già
stabilito, sullesperienza delle precedenti escursioni,
necessarie per il suo approntamento; una verifica, che pretenderà
di avere i connotati di una sua storia, senza condizionamenti,
non ancora scritta, sarà possibile solo a posteriori,
quando il confronto delle idee si sarà sedimentato. Lanima
è il Maestro, Luigi, che aleggerà come una colomba
sullintero percorso.
Alle ore 10,00 del 5 aprile si parte da San Lupo (BN) il paesino
dove, nello stesso giorno del 1877, ventisei Internazionalisti
iniziarono unavventura, che solo la storia di stato tende
ad ignorare. Dalla taverna Jacobelli, affittata giorni prima
da Errico Malatesta, per motivazioni di diversa natura, verificabili
sulle tante pubblicazioni esistenti sullargomento, i nostri
presero, nella notte tra il 5 e il 6 aprile, la via dei monti,
ritenuti come unica possibilità di fuga e riparo ma,
per quello che ci riguarda, per riorganizzare le fila e le idee
per mettere in pratica la propaganda del fatto,
sullesempio del mai dimenticato Carlo Pisacane. Nella
taverna Jacobelli fu trovata, dopo la partenza degli Internazionalisti,
questa iscrizione murale:
Oggi/18 marzo 1877/ricordiamo/il 18 marzo 1871./In questo
giorno solenne/il Popolo di Parigi/insorgendo/inaugurava la
libertà comunale/la emancipazione degli uomini./Grande
il popolo e generoso/la grandezza e la generosità non
gli valsero/e/la Comune cadde./Cadde/lasciando uneredità
sanguinosa/che noi abbiamo raccolto./Intorno al vessillo/della
Comune rivoluzionaria/raccogliamoci/o nuova generazione/e/combattiamo.
Siamo in undici a partire, il primo giorno; pochi, secondo le
aspettative. In quel tempo fu il Farina, il delatore di giustizia,
a decimare le fila e vanificare le attese; oggi, più
banalmente, sono state le previste avversità atmosferiche
a far disertare il camminamento. Ma il cielo è con noi,
lo sento. Nella notte scorsa la neve era caduta abbondante,
sul nostro ricovero e sul Matese; ma qui, a San Lupo, ci accoglie
un cielo appena velato, che ci farà poi compagnia per
tutta la giornata, fino allarrivo allincrocio delle
strade provenienti da Pietraroia-Bocca della Selva-Sepino.
Una lapide, posta il 5 aprile 1998 dallamministrazione
comunale di San Lupo, indica il portone dingresso alla
taverna, e cita:
Da questo luogo, il 4 aprile 1877, mossero gli anarchici
del gruppo di Cafiero e Malatesta, divisando un moto insurrezionale
di libertà per le genti del meridione dItalia,
que un sogno di riscatto rimasto senza compimento.
La bandiera, che è mossa dalla leggera brezza, e la fascia
rossa, che cinge Aldo-Errico, il comandante di giornata,
sono i simboli più evidenti che ci portano allavvenimento.
Ci allontaniamo dal paese scendendo verso il ponte sul torrente
Janare (le streghe, nel dialetto locale). Prendiamo sulla destra
che mette, poco più avanti, in un sentiero che si presenta
subito irto. A dritta abbiamo il monte Croce (q. 800), di fronte
ci attende il monte Ciesco (q. 900); sulla sinistra vediamo
le montagne che dominano Guardia Sanframondi (BN), fra cui emerge
il Toppo Capomandro, che lasciamo presto. Il torrente Janare
emerge dalla stretta e si fa sentire nella gola sottostante.
La bandiera si affloscia. Il vento è basso.
dice il Maestro Si riprenderà quando passeremo
le pendici del monte.
Le prime schermaglie
San Lupo sparisce e ricompare più volte, risalendo i
tornanti. La stradina è tagliata da rivoli, che incanalano
le acque provenienti dal monte. La vegetazione cambia con il
variare dellaltitudine. Un cane ci accompagna; si chiama
Woody, come Allen. Il suo padrone è un simpaticissimo
francese, ormai napoletano a tutti gli effetti. La strada si
fa sempre più ripida; si suda già, e siamo ancora
alle pendici del monte Croce. Le ripe sul torrente Janare, con
le zone dombra degli anfratti, danno lillusione
della presenza di caverne; forse ci sono davvero, verosimilmente
erano nascondigli di briganti che, appena dopo lunità
dItalia, si sentivano i legittimi padroni di queste terre.
Dietro, nella valle, ormai lontano, si scorge San Lorenzo Maggiore.
La cresta della montagna che si para innanzi sembra dare più
forza al profilo delle cime in lontananza.
Cominciano le prime schermaglie sullidentificazione del
percorso storico. Cè chi pensa, ansimando
e arrancando sulle asperità, che glInternazionalisti
non avessero San Lupo come obiettivo immediato, altrimenti avrebbero
dimorato altrove, per esempio a San Gregorio Matese (CE); qualcun
altro osserva che la verità sia nellesatto contrario,
affermando che Letino e Gallo fossero stati considerati come
punto darrivo solo in un secondo momento, quando gli eventi
avevano fatto crollare ogni indugio. Prevale la tesi che gran
parte del Sannio beneventano avrebbe dovuto essere interessato
dai Moti.
Nel mio piccolo, non avendo forze di polizia alle calcagna,
ho tutto il tempo di guardarmi intorno e dosservare: margherite
e viole sul sentiero, mandorli in fiore; peccato che non cè
tempo per raccogliere asparagi, che si protendono seminascosti
dai rovi. Entriamo in un sentiero più piccolo e gli arbusti
ci stringono minacciosi. Siamo costretti a camminare in fila
indiana. Non si comunica più. Il cane fa avanti e indietro
e schizza tra le gambe: sembra divertirsi. Ci avviciniamo, dopo
grande fatica, percorrendo la mulattiera da San Lupo, a Serra
La Giumenta (q. 840). Monte Croce è superato. Dietro,
ci si arrampica a testa bassa: i compagni davventura sembrano
fraticelli oranti. Si fa forza sui bastoni per andare avanti.
Il sentiero ora sparisce, il cammino è piatto; piccole
rocce affiorano da vaste macchie derba. La bandiera si
agita che è una meraviglia. La fatica è tanta
e, guardando gli altri, mi chiedo perché ci avventuriamo
in simili prove: si lascia la casa comoda, il tranquillo week-end,
per buttarsi a capofitto, come bambini, nella ricerca di un
vuoto da colmare che viene dal passato. Ma ognuno di noi è
cosciente che qui non si fa la storia, magari la si riassapora,
con uno spirito diverso, e la si racconta, a chi non ha la voglia
o la fortuna di essere qui, con un cuore che palpita davvero,
anche se in larga parte per la fatica. Con una punta dorgoglio,
o di follia, potrei avvertire il respiro di Carlo Cafiero e
di Errico Malatesta, o le urla di Domenico Ceccarelli e di Pietro
Cesare, o rivivere i timori di Francesco Ginnasi, o sentire
le bestemmie di Alamiro Bianchi, il sarto di Pescia, o osservare
gli entusiasmi estetici di Angelo Lazzari, il litografo di Perugina;
e lì, calato su un masso, potrei vedere Sante Celoni,
lo scalpellino di Imola, mentre lo accarezza e racconta a Ugo
Conti, il macellaio suo compaesano, della bottega che ha lasciato
e delle sculture che ha creato. Potrei vederli e sentire tutti,
se solo lo volessi; basta prendere il coraggio a due mani e
fare un salto nelloblio. Perché me lo chiedo solo
ora, quando nulla può essere più fermato, quando
mi lego alla circostanza di non poter più tornare indietro,
non fosse altro che per aver avuto il coinvolgimento di tante
persone ? La risposta è proprio qui, in questi luoghi,
dove il tempo e luomo hanno inciso davvero poco, dove
mi sento orgoglioso di calpestare le stesse pietre, di bagnare
col sudore la stessa erba, di guardare le stesse vette e scrutare
gli stessi orizzonti, di pensare, perché solo quello
posso fare, che nulla è successo invano, in quellaprile
del 1877, quando ventisei giovanotti decisero, coi fatti, di
manifestare le loro idee.
Le rocce appuntite si fanno più fitte, solcate da valloncelli
creati dal disgelo in atto. Monte Croce è alle spalle
e più oltre, quasi a confondersi col cielo, sintravede
il monte Taburno.
Il vento spira forte
Superiamo il crinale che si parava davanti e ci accoglie un
vento molto forte; ci fermiamo un momento per coprirci la testa
e le spalle, per non far raffreddare la sudata. Problemi di
oggi, perché allora non cerano giacche a vento
e giubboni antipioggia, scarpe tecniche idrorepellenti e occhiali
fotocromatici. Alle ore 12,00 siamo sul monte Ciesco; di fronte
il monte Coppe (q. 1003) e, in fondo, con la cima innevata,
il monte Moschiaturo (q. 1471). Incontriamo case di pietra,
semidirute, indicanti una passata presenza, anche organizzata,
su queste montagne; si notano, ad unanalisi più
attenta, dei tracciati limitati dalle fondazioni delle abitazioni
dei pastori: sono disegnati, in modo evidente, cardi e decumani,
così come ce li hanno tramandati, nella memoria storica,
Ippodamo da Mileto e i conquistatori della Magna Grecia, e poi
ripresi dagli urbanisti latini ed esportati nel mondo intero.
Cè tempo per guardare la vallata, per dare uno
sguardo ancora alla fatica appena passata, scambiarsi un cenno
dincoraggiamento e riprendere.
Il cielo ora si apre, lasciando filtrare ampi squarci dazzurro.
Alle spalle si vedono, ora, Pontelandolfo (BN) e, ancora più
in là, sfumate, Benevento e la sua ampia vallata. Ci
lasciamo alla destra il monte Ciesco. Il vento spira forte,
e cè chi si copre la bocca e il naso con una sciarpa.
Ricompare, finalmente, la traccia dun sentiero e qualcuno,
lì davanti, apre le braccia e corre, come se volesse
prendere il volo. Ci fermiamo per fare colazione, per bere un
sorso dacqua sorgiva, per riscaldarci con un bicchiere
di vino. Woody corre spensierato, anche perché non ci
sono altri cani che lo braccano.
Riprendiamo la via e incontriamo una zona acquitrinosa; siamo
costretti a scansare le buche più grandi, ora salendo
ora scendendo le spalle della traccia. Utilizziamo gli stagni
per scrollare il fango che appesantisce le scarpe.
Abbiamo ormai vicino il monte Coppe. Sulla sinistra appare linconfondibile
sagoma della Leonessa di Cerreto Sannita (BN), un
monumento storico-archeologico-religioso, una bellezza naturale:
è un enorme macigno calcareo che ha una somiglianza impressionante
con lomonimo felino, scolpito dallerosione naturale;
al suo interno cè la grotta SantAngelo e
si celebra il culto micaelico.
Alle 12,45 siamo sul monte Coppe. Lamico francese soffre
il decisionismo del Maestro e lo addita come il Rasputin della
spedizione, il monaco anarchico del Matese.
La linea che congiunge monte Ciesco e monte Coppe delinea una
spianata a pascolo bellissima: un solo albero, al centro, un
castagno maestoso e centenario, che certamente sarà stato
notato dai nostri amici del tempo andato.
Giungiamo alla Piana del Lente, che prende il nome dallomonimo
torrente. Di fronte, ma a diverse centinaia di metri, cè
una ripida pietraia, che bisogna risalire. Il Lente nasce più
in là, dal colle Spione (q. 1012) e va ad alimentare
lacquedotto di Pontelandolfo. Seguendo il tracciato dellodierno
metanodotto sincontrano ancora vecchi insediamenti di
pastori, con le caratteristiche costruzioni a tholos; è
ancora visibile lo spietramento, cioè la
presenza di cumuli di pietre che i pastori, per far pascolare
le pecore, creavano liberando di sassi il territorio. Incontriamo
un valloncello, uno dei tanti che scorrono nella zona, e mi
diverto a camminarci dentro: sento che è acqua di ieri
e di oggi, che scorre eternamente sulle nostre illusioni.
Passando di pietra in pietra, in un difficile equilibrio, per
evitare di cadere nellacqua, attraversiamo il Fosso Longo,
nei pressi duna incantevole cascatella. Non si ode nemmeno
più il chiacchierio di fondo, delle prime ore: ora cè
solo natura, con gli scrosci dacqua e il fruscio del vento,
che scuote ogni cosa. Si calma, di rado, come se avesse paura,
quando spunta dimprovviso un sole pallido. Si respira
aria di libertà.
Il Maestro consiglia, a chi non ce lha, di fornirsi dun
bastone, che sia alto fino alle spalle: avrà la duplice
funzione dallontanare possibili vipere o bisce dacqua
e di sorreggersi e daiutarsi nei luoghi più accidentati.
La presenza di escrementi di pecora ci fa capire quando siamo
prossimi ad incontrare un gregge: poco più avanti, infatti,
ci sono povere capanne di pastori, chiuse in recinti per gli
ovini, e fuori i cani pastori che montano minacciosamente la
guardia.
A ridosso della bandiera
I nostri amici Internazionalisti, senza dubbio, avranno percorso
questi luoghi in tempi più rapidi, sia per la giovane
età sia per la presenza di segugi alle calcagna. Presi
dalla fretta non avranno apprezzato la bellezza dei luoghi.
Fin qui è stato solo trasferimento, non avendo incontrato,
sul cammino, insediamenti abitativi. La vegetazione è
poco varia, in questa zona: solo spine, piante di roverella
e arbusti di biancospino che, di tanto in tanto, ci tagliano
la strada. Sono sempre a ridosso della bandiera e, spesso, in
discesa, mossa dal vento, pare mi accarezzi. Recuperiamo il
promontorio che separa Fosso Longo dal torrente Lente. Riscendiamo
per poi risalire, sulla sinistra, il Lente. Woody ci si tuffa
dentro. Poi esce, si scuote, ci bagna.
Chiedo al Maestro, con lautorità del cronista ufficiale,
di fare una pausa e di cercare di capire, a caldo, le possibili
reazioni degli Internazionalisti, una volta giunti lì
dove ora eravamo. Mi risponde che essi partirono da San Lupo
verso le tre-quattro nella notte tra il 5 e il 6 aprile; erano
circa le sette quando transitarono sul monte Ciesco e, alla
vista del monte Coppe, ebbero una pausa di riflessione; riposarono
un paio dore e studiarono le poche carte rimastegli, giacché
il grosso di appunti, viveri, armi ed altro era rimasto alla
taverna Jacobelli. Decisero solo allora di puntare, dritto per
dritto, sul monte Mutria (q. 1822), che ora vedevamo in lontananza.
Non riusciamo ad attraversare il Lente perché, anche
largo solo pochi metri, le abbondanti piogge delle ultime 48
ore lo hanno reso impetuoso. Il cielo è di nuovo chiaro;
stiamo sempre attenti ad una pur minima variazione del tempo.
Sono certo daver recuperato, in poche ore di contatto
con la natura, alcuni istinti che la vita cittadina sopprime;
vuol dire, semplicemente, che il contatto diretto con la natura
ci è congeniale. Penso ora allesuberanza di quei
ragazzi, alle aspettative di chi aveva qualche anno di più,
alla voglia, in quellaprile appassionato, di portare a
sventolare la bandiera rosso-nera sul punto più alto
dei paesi, magari mossa da un leggero vento e irradiata da un
caldo sole.
Risalendo il torrente ci accorgiamo che le acque sono sempre
più irruente; addirittura, in un punto, si sdoppiano,
lasciando al centro un ampio isolotto. Alcuni, i più
temerari, attraversano il torrente. Noi altri, più timorosi,
continuiamo a sinistra. Risaliamo, parallelamente, su sponde
opposte. La bandiera simpiglia, si sfila dallasta,
e resta attaccata tra i rovi. È un brutto segno? La gola
diventa più profonda e i biancospini ci tagliano la strada.
Il biancospino è sempre lo stesso, sia che lo guardi
per ammirarlo sia che lo scansi per passare: mi rendo conto,
solo ora, che gli amici Internazionalisti non avranno visto
con locchio del botanico le essenze che si paravano davanti.
Con laiuto dun albero che si protende sul torrente,
facendo una catena, riusciamo a passare. Qualcuno ancora non
se la sente, e continua a sinistra. Il cielo si rabbuia e il
vento, ora, soffia forte tra gli arbusti. Camminiamo a gruppetti
perché le difficoltà del tragitto ci hanno diviso.
Poi ci perdiamo di vista. È inutile urlare perché
il vento copre ogni altro rumore. Incontriamo ancora tholos:
sarebbe ideale fermarsi e ripararsi, ma non possiamo. Dobbiamo
riunirci. Inizia una nuova arrampicata, questa volta tra sole
rocce, giacché la vegetazione è bruciata. Più
avanti, finalmente, ci riuniamo, nella piana di Parata Ungara
(q. 1007): ora camminiamo in quota. In alto, di fronte, si vede
il casone Parata. Giù, dove siamo, cè una
fontana; ci abbeveriamo. Seguendo, con lo sguardo, il percorso
delle acque che fuoriescono dalla sua bocca ci accorgiamo di
un inghiottitoio, dove esse penetrano, attraversano le viscere
della terra, per andare a sbucare chissà dove. Si vedono
ora i pizzi di Parata Ungara, i Tre Cantoni, che sembrano gobbe
di cammelli. Il monte Moschiaturo è sempre davanti a
noi, lontano, pieno di neve. Attraversiamo ancora valli, acquitrini,
banchi di pioppi, e poi rocce aguzze che spuntano dai terreni.
Voltandosi, alle spalle, si vede bene la dormiente del
Sannio, una continuità di creste che assomigliano
ad una donna sdraiata nellatto del riposo.
A questo punto, immaginando che anche nel 1877 vi fossero state
condizioni climatiche come quelle che stiamo vivendo, assai
mutevoli, e con in più lansia e la preoccupazione
di essere inseguiti e circondati, non conoscendo il percorso
che seguiva, si sarà creato un minimo di sconforto tra
gli Internazionalisti, non riuscendo a prevedere i tempi per
piantare la bandiera. Le guide locali non erano motivate e,
sebbene retribuite lautamente, non avevano alcun interesse a
facilitare le operazione di spostamento tra questi luoghi pieni
di insidie e difficoltà.
Sotto una roccia, usata come riparo, in lontananza, sintravede
la sagoma nera dun pastore; le pecore, immobili, si confondono
con i sassi. Si sentono i cani abbaiare. Camminiamo ancora in
cresta: sui due lati si aprono ampie vallate. Ora i pastori
sono due, e ci vengono incontro. Uno di loro ci chiede:
Perché camminate lungo i confini?
Ma i confini di che? qualcuno risponde.
I confini. Lo sapete che non potete passare sul confine?
E sopra, i corvi
Ci facciamo qualche foto insieme, con limpegno da parte
nostra di tornare per farle vedere, e riprendiamo la via. Mangio
un pezzo di pane. È duro il cammino ma è più
caparbio chi non cede. Le scarpe ora sono di nuovo pesanti di
fango. Sono le 16,30. Il vento aumenta dintensità.
La bocca è asciutta, arsa. Mi copro anchio, con
una sciarpa, il collo, la bocca e le orecchie. Camminiamo con
il capo basso, per tagliare il vento. Conto i piccoli cumuli
di terra scavati dalle talpe. Alzando lo sguardo, davanti a
noi, cè Serra del Carpino (q. 1184). Ogni quadro,
ogni vista, sembra amalgamarsi in una tinta di terra di Siena
bruciata, sfumata di grigio, e di macchie violacee. E incontriamo
ancora erba, sassi, boschetti di pioppi. Passiamo davanti a
massi calcarei, enormi come dolmen, altri posizionati dalla
natura come triliti, che offrono un buon riparo per chi, avventurandosi
da queste parti, viene sorpreso dal maltempo. Il Maestro mi
richiama, perché cammino sui sassi, con il pericolo di
scivolare: come neofita, faccio tesoro dei consigli dellesperto.
Siamo su Serra del Carpino. Prima un sentiero, ora una piccola
foresta di faggi, dritti e maestosi, ma ancora spogli in questo
periodo dellanno: è una zona battuta da cercatori
di funghi porcini. Il sentiero, appena accennato, coperto da
un fogliame secco e fitto, sale più dolcemente: è
surreale attraversare questa faggeta, perché regna una
calma dolcissima. Molti faggi sono isolati, altri protendono
i rami, ad altezza duomo, per oltre dieci metri; è
necessario girarvi al largo o chinarsi, per andare oltre. Altri
faggi partono a gruppi di tre, cinque, e fino a dieci, e si
proiettano in alto per oltre venti metri. Tra il tappeto di
foglie secche spuntano fiorellini dun viola tenero, altri
gialli; bisogna stare attenti ai rami secchi coperti dalle foglie.
Il terreno, che qua e là filtra tra le foglie, ora ha
una tinta più calda, come una terra dombra naturale.
Devo abituarmi a camminare col bastone: spesso, invece di tenerlo
sul terreno, colpisco le pietre e vi scivola sopra, col rischio
di cadere.
Entriamo in una piana più ampia e luminosa, sorvolata
da corvi. Di fronte, ma lontani, pieni di neve, si stagliano
ora il Colle Stotera (q. 1256) e, più oltre, il monte
Moschiaturo. Il prato che stiamo attraversando è pieno
di acquitrini che, a volte, formano dei laghetti, dove i corvi
vanno ad abbeverarsi. Comincia a cadere qualche gocciolina,
ma è piacevole: ci bagna il viso e ci rinfresca le labbra
secche.
Giungiamo al Bosco di Torta. A sinistra, ma più indietro,
si vede ora il monte Pagliarelle (q. 1038); davanti, coperto
di neve dorata dal sole, brilla la sagoma imponente del monte
Mutria. È una caratteristica di queste montagne incontrare,
tra un boschetto e un altro, ampi spazi derba, a volte
dun verde brillante, altre volte secca, da dove spuntano
sassi, fitti e acuminati. Togliamo ancora il fango dalle scarpe.
Alcuni sentieri sono delineati dai pastori con piccoli totem
di pietre, poste una sullaltra, a secco, alti poco più
di mezzo metro.
Come dincanto, al centro della valle, sintravede
un segno della modernità: la strada asfaltata che da
Pietraroia-Sepino-Bocca della Selva conduce a Morcone. Siamo
in località Acqua Spasa (q. 1150), dal nome dellomonima
sorgente. Alle 18,30 raggiungiamo la strada e fissiamo la bandiera
ad uno steccato; ci sdraiamo su un lato, sullerba, nellattesa
che la navetta ci riporti allagriturismo. È stata
davvero dura, la prima tappa. Domani andrà meglio
dice il Maestro. È un sollievo. Ci godiamo il
tramonto, indaco, rosa e celestino pallido.
Il dormitorio è uno stanzone con letti a castello e servizi,
lontano circa due chilometri dal nucleo centrale, ma attiguo
alla masseria Maturi, dove i nostri pernottarono la notte tra
il 7 e l8 aprile. Cè unincantevole
veduta sul lago del Matese. Dopo una doccia ristoratrice, e
una cena adeguata alle esigenze, non tardiamo ad addormentarci,
benché la notte del riposo sia scossa da macabri ululati
esterni e rumorosi respiri al coperto. E viene facile pensare
al Matese di 125 anni addietro, così come lo descrisse
Pietro Cesare Ceccarelli nella nota lettera ad Amilcare Cipriani:
in quellepoca dellanno (aprile n.d.r.)
Il Matese è ancora coperto di neve ed una notte passata
allo scoperto in questi siti ed in quella stagione ti sposserebbe
un toro.
Provocare linsurrezione
Alle ore 10,00 del 6 aprile ci incamminiamo per contrada Filetti
da dove raggiungeremo, dopo poca strada in discesa, la masseria
di Domenico Amato, dove gli Internazionalisti pernottarono nella
notte tra il 6 e il 7 aprile; per contrada Sambuco saliremo,
poi sul monte Mutria. Incontriamo, sulla strada, una mandria
di mucche, scortate da pastori maremmani. Cè un
sole caldo. Attraversiamo una splendida faggeta; gli alberi
sono talmente coperti di edera che sembrano fioriti. Facciamo
una breve sosta alla fattoria Amato; un donna, sulla cinquantina,
ci viene incontro, scambiandoci per una banda di forzati del
week-end. Un dotto amico, uno degli organizzatori, fa una prolusione,
accerchiato da ascoltatori attenti. Poi tocca a me. I presenti
della seconda giornata, non a caso ventisei, ci ringraziano
per lesposizione dei fatti, che ritengono esauriente.
La donna ci spiega di essere una discendente di Domenico Amato
e ci racconta, come una fiaba, daver sentito dire che
il suo avo fu accusato di favoreggiamento perché andò
a comprare vino e pane, per gli Internazionalisti, nella vicina
Pietraroia (la patria di Ciro, il celebre cucciolo fossile di
dinosauro). Dalla masseria si mossero verso monte Mutria, vagando
avanti e indietro, non sapendo con precisione quale direzione
prendere, se verso Campobasso o verso Isernia, poiché,
da informazioni assunte, la strada per Benevento era già
sbarrata dalle forze governative. Tornarono indietro e, dalla
masseria Amato, presero per il Sambuco. Domenico Amato era il
padre di Giuseppe Amato; da questi nacque una figlia, la madre
dellattuale proprietaria. La signora, visto linteressamento,
cerca di attingere notizie anche da noi, un aiuto per inquadrare
storicamente la sua vita, la sua eredità, di cui si sente
erede involontaria.
Si parla, quindi, di Cafiero e di Malatesta, i più conosciuti,
ma anche di tutti gli altri, della giovane età, delle
loro illusioni e dei loro sogni, delle disavventure prima e
durante il processo di Benevento e delle peregrinazioni dopo
la sua conclusione ad effetto. Abbiamo spiegato che non si riuscì
a coinvolgere le popolazioni locali perché ci fu il doppio
gioco del Farina e vennero meno gli aiuti dei signorotti di
riferimento, la borghesia più illuminata; mancò,
in fondo, leco dellinsurrezione, come disse ancora
Pietro Cesare Ceccarelli, giacché lo scopo principale
della banda era quello di provocare linsurrezione. Una
ragazza chiese del perché non vi fosse stata una presenza
femminile tra gli Internazionalisti. La verità è
che le donne ebbero un ruolo importante, fondamentale, nella
preparazione del Moto, tantè che la bella bionda
dagli occhiali verdi attirò su di se tutte le attenzioni
nei giorni di permanenza a San Lupo; e determinante fu limpegno
della bella ed esile figura di Silvia Pisacane, che qualche
pignolo storico ricorda solo per lintercessione presso
il padrino, il Ministro Nicotera, per salvare la vita degli
Internazionalisti.
Una bella spianata si apre dopo la masseria e poi una discesa
molto ripida ci conduce, nella gola, al Fosso dellAcqua
Calda; lo costeggiamo sulla sinistra, a scendere. Lo guadiamo,
lasciandocelo a sinistra, iniziando lascesa del monte
Mutria, attraverso Sambuco. Dallalto si vedono cascatelle
frizzanti e luccicanti, che il torrente produce con salti vorticosi.
Un viottolo taglia il pendio vertiginoso e un ampio vuoto si
apre, allimprovviso, sulla sinistra: si vede dove il Fosso
dellAcqua Calda incrocia il vallone dellAcqua Paradiso.
Questo, lungo il corso, forma un salto: si racconta che un crociato,
per non consegnare al diavolo una spina tolta dalla corona che
cingeva il capo di Cristo, si buttò giù, formando
la cascata dacqua (a Cusano Mutri si conserva la Spina
Sacra, un simulacro da portare in processione). Più avanti
le acque confluiscono nel torrente Titerno. Si vede, in alto,
Civita di Cusano; a sinistra cè la montagna di
Pietraroia: ai tempi del brigantaggio pare che questo fosse
uno dei rifugi di Carmine Donatelli, meglio conosciuto come
Crocco. Saliamo vertiginosamente e la gola del Titerno la vediamo
sprofondare: sembra non esserci vita, quassù, nemmeno
una foglia derba; solo roccia. Molto più avanti,
finalmente, si apre un sentiero: servirà ai pastori per
portare i greggi in sommità. Rincontriamo prati acquitrinosi,
che brulicano di fiorellini bianchi e gialli; cè
un casolare di pietra, ma senza vita. In luoghi come questo
si respira aria di primavera. Valli chiuse e polje, doline,
inghiottitoi e grotte, caratterizzano gran parte del territorio.
Woody non sembra risentire della fatica di ieri. Il sentiero,
ora, è sbrecciato, e continua a salire. Civita di Cusano
sembra irraggiungibile.
Comincio a sentire leffetto delle vertigini, che mi prende
quando le altezze si perdono in precipizi: ma non si può
tornare indietro, né guardare giù; bisogna solo
darsi coraggio e continuare a salire. Sono sudato e ora il vento,
dallo spazio aperto, spinge sulla parete e taglia la fronte;
a destra, di fronte e lontano, solo roccia. La paura mi fa andare
più veloce; probabilmente, agli occhi degli amici, apparirò
come un abile scalatore. Una roccia che fuoriesce mi sembra
un buon riparo e, da dietro, posso sporgermi, quel tanto che
basta, per vedere gli altri amici che arrancano per le asperità.
Ogni tanto un valloncello, largo meno di un passo, taglia la
roccia. Incontriamo piccole gole riempite da neve che, col disgelo,
andrà ad incrementare i valloncelli, formando nuove cascate
verso il Titerno. Ci sono ancora fiorellini gialli e bianchi
che, allapparenza, sembrano margherite; hanno, però,
solo sei petali. Arriviamo, dopo tanta fatica, alla miniera
di bauxite, oggi in disuso. Cè un casamento in
pietra, senza tetto; era, con ogni probabilità, il ricovero
del guardiano della miniera. Ora, al riparo della paura, è
possibile lanciare uno sguardo, centinaia di metri giù,
nella valle; lì si snoda la via penitenziale, con un
corteo di capre che vengono su. Il sentiero sullo strapiombo
è retto da muretti a secco. Pareti, a più livelli
spezzati da piccoli terrazzi, si parano davanti; negli anfratti
e dalle gole spuntano piccoli arbusti. Dalla valle, ormai troppo
lontana, non sodono più i rintocchi delle campane.
Avvicinandoci alle pareti scopriamo che le rocce sono formate
da stratificazioni sedimentarie orizzontali. A destra si apre
un ampio spiraglio e appaiono, innevate, montagne altissime.
Incontriamo sempre la neve, a chiazze ora più grandi.
Lungo i torrentelli nascono foglie basali di farfaracci che
portano, come fiori, delle spighe. Arriviamo a Fontana Paola
e il Maestro decide, con lautorità della competenza,
che è giunto il momento del rilassamento e della colazione.
Lacqua sgorga limpida e impetuosa dalle due bocche, poste
sfalsate a distanza di alcuni metri. Cè un ampio
prato. Ognuno, come può, si cambia le magliette, zuppe
di sudore; le mettiamo ad asciugare al sole, sullerba,
o stese sugli steccati di confine. Ci si sente meglio, con la
schiena finalmente asciutta. In questi luoghi i cercatori di
funghi vengono a raccogliere il virno: così, nel dialetto
locale, è chiamato il prugnolo, o fungo di San Giorgio.
Sdraiati sullerba, che al sole non è umida, ci
rimettiamo presto dalla fatica. Quando il sudore è sparito
del tutto a turno ci laviamo la faccia, provando il brivido
dellacqua gelida. Più in là, sulle pendici
dei monti che ci circondano, si notano ampi recinti di ovini
e cavalli.
Il sentiero degli
anarchici
I ragazzi del 1877, quelli provenienti dal centro-nord, avranno
avuto modo, anche se per poco, di contemplare la bellezza di
questi luoghi. Un professore di lungo corso delluniversità
di Napoli, uno dei ventisei, ci dice dessere felice daver
partecipato, nonostante il tragitto abbia prodotto una notevole
stanchezza; apprezza la guida tecnica del Maestro ed è
entusiasta di confrontarsi continuamente con la storia, con
la cultura, con le idee e i pensieri di libertà, che
sono spuntati da ogni passo che abbiamo percorso; il sentiero
degli anarchici, dice, lo ha sempre intrigato. Ci racconta daver
letto qualcosa sullimpresa di Cafiero e Malatesta e, continua,
percorrere i loro sentieri e sentir narrare gli episodi della
loro storia lo ha molto impressionato. Si sente addirittura
turbato, e pronto ad approfondire lo studio sul periodo post-unitario,
sul fenomeno del brigantaggio, non come insegnato a scuola,
e su tutti gli episodi di lotta e resistenza del sud dItalia.
Savvicina un ex allievo del professore, di mezza età,
e fa un plauso alla sua vitalità ed elogia il sistema
dinsegnamento dallora. Il cattedratico gli risponde
che nulla è cambiato, da allora, e continua ad insegnare
con amore, perché il suo lavoro gli piace.
Mi tornano in mente, allora, le equazioni lavoro-società
ed etica-estetica degli utopisti inglesi dinizio 800
e principalmente John Ruskin e William Morris, con la loro felice
intuizione che il lavoro deve produrre gioia in chi lo compie.
E i risultati, tornando al professore, sono evidenti: è
una lezione di vita quella di dare senso e incoraggiare solo
quelle attività che non contrastano con la natura umana.
Chiedo, ancora, al professore, che significato ha per lui, oggi,
viaggiare accompagnandosi con una bandiera rosso-nera. Mi risponde
in sinistrese, dicendo che ha senso in quanto è necessario
darsi unimmagine e una speranza per il futuro, soprattutto
in unepoca cupa e triste come quella che viviamo, anche
sul piano politico. Dei due colori, egli si sente più
legato al rosso, pur riconoscendo al movimento anarchico ed
internazionalista dei meriti enormi. Auspica, anzi, che questa
manifestazione fosse pubblicizzata e che tanta gente potesse
riunirsi sotto bandiere come questa, cariche dideali,
per superare il momento tristissimo. Gli chiedo, ancora, se
fa paura, oggi, questa bandiera. Risponde che fa paura ai potenti
e, aggiunge, che gli uomini di sinistra dovrebbero trovare,
da manifestazioni come questa, dove emergono ideali libertari
e duguaglianza, una spinta unitaria dintenti, soprattutto
sui grandi temi sociali, perché il vero dramma della
sinistra è la frammentazione. Fa notare, come esempio,
che se la sinistra fosse stata unita non avremmo il cavaliere
al governo. Limportante, dice, è ricondursi, anche
nelle diversità di pensiero, a degli ideali comuni. Ricorda,
nella guerra civile spagnola, che marxisti e anarchici si combatterono
tra di loro, invece di combattere il franchismo; e alla fine
il franchismo vinse.
Ad un altro partecipante chiedo se cera connessione tra
briganti e anarchici, nella preparazione o nello svolgimento
del moto. Risponde che non ci fu un vero collegamento tra il
fenomeno del brigantaggio, lanarchismo e i movimenti rivoluzionari
in genere; è probabile che ci fossero stati dei tentativi
dinsorgere insieme, ma solo perché, in quel momento,
cera un nemico comune da combattere. Il brigantaggio si
legò con il potere più retrivo, come la mafia,
perché auspicava il ritorno dei Borboni. E ricorda la
vicenda triste della Repubblica partenopea, nel 1799, quando
le bande sanfediste, agli ordini del cardinale Ruffo, fecero
strage dei patrioti repubblicani, facilitando il ritorno a Napoli
di Ferdinando IV di Borbone. Il brigantaggio, quindi, non portava
idee innovatrici: giusto il contrario di ciò che fecero
i giacobini nel 1799 e i movimenti libertari e socialisti che
sorsero dopo la prima metà dell800, soprattutto
dopo la Comune di Parigi (a tal proposito ricordo le parole
del prof. Terracciano, nella presentazione di Cusano Mutri,
quando afferma che mentre linternazionalismo ha avuto
una sua bandiera, il brigantaggio ha lottato sotto diversi vessilli).
Il brigantaggio campano, lucano, pugliese e calabrese, continua,
fu una risposta allinvasione piemontese, ma solo dal punto
di vista sociale, giacché erano evidenti, nel popolo,
il divario di classe e le ingiustizie, ma non ideologico. Il
popolo appoggiava i briganti perché vedeva in essi il
fatto nuovo, lintraprendenza associata per combattere
linvasore. E termina dicendo di fare attenzione, nel rispolverare
il fenomeno del brigantaggio, perché potrebbe essere
sfruttato, strumentalizzandolo, dalla destra politica di oggi.
Alle ore 14,00 riprendiamo la via. Sulla destra abbiamo il monte
Mutria e di fronte il valico che porta a Bocca della Selva che
, qualcuno dei partecipanti, si diverte ad anagrammare in cosca
della belva. Non saliamo il monte Mutria, anche perché
non converrebbe dal punto in cui siamo, essendo molto ripido:
bisogna andare a Serra del Perrone, allincrocio della
strada che porta da Bocca della Selva a Campitello, nel Molise,
perché il sentiero è più dolce, lungo la
cresta, e panoramico. Il Maestro ci rimprovera di aver fatto
non una frugale colazione anarchica ma una lauta mangiata avanguardista.
Tra due fuochi
Arriviamo a Bocca della Selva, oggi rinomata località
sciistica. Sulla sinistra abbiamo il monte Porco (q. 1605).
La Serra del Perrone (q. 1250) era, nel 77, un punto obbligato
di passaggio. Quando, alle ore 18,00 del 7 aprile di quellanno,
gli uomini del 55° fanteria mossero da Piedimonte dAlife
(oggi Piedimonte Matese), la banda era già transitata
dal Perrone: il piano militare prevedeva di prendere, proprio
qui, gli Internazionalisti, tra due fuochi. Fu un fallimento,
quindi, quello del governo, non un tentativo voluto
di voler impaurire i dimostranti per poi prenderli sul fatto
in campo aperto. Passeremo per un luogo dove il capitano dei
bersaglieri disse che passarono colà dove non si
poteva e, scendendo per la Defenza Laurenzana, raggiungeremo
la vecchia dimora, la cascina Maturi, che è il nostro
ricovero per il pernottamento.
Non cè più sentiero, ora; si cammina su
un soffice letto di foglie secche. Incontriamo un bel campo
di crochi bianchi, gialli e viola. Incontriamo di nuovo la neve
che, proseguendo, si fa sempre più alta. Ci avviciniamo
al famigerato impluvio che è il Fosso della Cusanara;
non cè acqua, ma solo neve. Lo percorriamo al centro,
scendendo a spazzaneve, e di tanto in tanto un piede sprofonda,
lasciando che la neve tocchi il bacino. Dobbiamo stare attenti
a posare dolcemente i piedi, a non calpestare tronchi, nascosti
dalla neve, che ci farebbero scivolare pericolosamente. Raccolgo,
passando sul fianco del Fosso, dei rametti simili al pittosporo,
che odorano di peperoni arrostiti. Ai due lati si ammirano faggi
altissimi, muschiati alla base. Mi fermo, e per un attimo mi
volgo indietro: il vallone, ripidissimo, è alle spalle;
non è una consolazione perché, avanti, continua
in modo ancora più scosceso. Ci sono faggi piccoli, medi
grandi. Ci fermiamo per riprendere fiato. Mi siedo su un sasso
e traccio sulla neve, col bastone, segni incomprensibili, mentre
penso come si possa definire un faggio, o meglio quale sia la
misura giusta per chiamarlo faggio, e non faggino o faggione.
Mi riprendo subito dalla stanchezza e dai deliri.
Si apre una piccola radura e la neve, colpita da un pallido
sole, diventa dun bianco caldo, nel canale. Bisogna sempre
stare attenti, però, a non affondare, giacché
la neve , ora, copre un soffice letto di foglie secche.
Le difficoltà mi riportano a dialogare col passato: saranno
state le stesse le sensazioni provate o i pericoli del percorso,
fin qui, furono relegati in secondo piano da paure più
grandi? Mi viene sempre più agevole mischiare realtà
e ricostruzione storica, perché non cè nemmeno
un sottile intervallo che separa le due primavere. Non cè
più traccia del tempo trascorso, né di prove che
possono essere state infangate, come si dice oggi. Cè
solo natura, ora, con i suoi ritmi arcani che hanno valore eterno.
«...
Eravamo tutti in uno stato deplorevole; morti di fame e di freddo,
sotto l'acqua da 48 ore, le munizioni liquefatte dalla pioggia
e i fucili diventati inservibili. Facemmo l'ultimo sforzo. Tentammo
di passare un'altra montagna, e se fossimo riusciti ci saremmo
ritrovati fuori dalla cerchia dei soldati. Ma non ci riuscimmo:
salimmo parecchie ore con la neve fino ai ginocchi e sempre
battuti dall'acqua ed infine ci trovammo dinanzi ad una roccia
tagliata a picco. La guida che avevamo preso non sapeva le strade,
scendemmo e ricominciammo a salire da un'altra parte. Resistemmo
ancora, la notte si avvicinava e ad un tratto sopraggiunse la
nebbia. Allora fu evidente che nemmeno il quarto della banda
avrebbe raggiunto la vetta...»
Un punto di riferimento
costante
Scendendo il canalone, con qualche grado di temperatura in
più, si vede lacqua che lava i sassi, scorrendo
sotto la neve e sotto le foglie secche. Ora i sassi affiorano
e rallentano la discesa. Quando la neve si sarà sciolta,
fin dalla sommità, sarà uno spettacolo vedere
la furia dellacqua in questo canale. Cè un
piccolo sentiero, sulla destra, che ci fa evitare la fatica
del canale; il letto sallarga ma la gola diventa più
profonda, con le spalle di roccia che sinnalzano minacciose
per decine di metri. I faggi, schierati come sentinelle ai due
lati, sono altissimi: guardandoli, con la testa allindietro,
si crea una sensazione di vertigine, accresciuta dalla profondità
e dalla ristrettezza della gola. Si aprono cavità misteriose,
nella roccia. Tanto è rigogliosa la vegetazione in alto
che contrasta in modo violento con le foglie e i rami secchi
che calpestiamo. Il canale si apre ancora: saranno ora circa
venti metri di larghezza. Ci sono campanule bianche, polipodi
dal fusto più basso e felci maschio (hanno le foglie
più grandi delle femmine) e tassi bellissimi. Chiedo
al Maestro di fare il punto della situazione. Mi risponde che
nella sua dottrina chi meno sa più sa, per cui, non conoscendo
niente e non volendo conoscer niente, si ritiene quello che
sa di più. Incasso e vado oltre. Cè un torrente
che scende a cascatelle e il Maestro, che sa di più,
dice che è acqua che qui, a valle, affiora proveniente
da un inghiottitoio. Il letto del torrente, nella parte in secca,
è di graniglia calcarea: il battistrada vi lascia delle
A impresse col bastone.
Alle 16,30 termina il Fosso della Cusanara e imbocchiamo Capo
di Campo. In unora circa di marcia saremo a contrada Santa
Maria (q. 1024), dove ci attende il meritato ristoro e riposo.
Il torrentello che sfiorava dallinghiottitoio ora è
largo circa m 1,50. La valle è ampia, stupenda. Il luogo
è detto anche dellimpiccato. Incontriamo
tavoli di legno e barbecue di pietra e, più avanti, un
fabbricato rivestito di assi di legno dipinte di ruggine: è
un ristorante e, dalla gronda, pende un fantoccio con una corda
al collo.
Da sinistra, guardando in alto, si vede il colle Carboniere
(q. 1161); alle spalle sono il monte Mutria e Bocca della Selva.
Mi accorgo solo ora che la bandiera è stata un punto
di riferimento costante, lungo il percorso. Capo di Campo è
una splendida valle e locchio si perde nellorizzonte
sfumato; gran parte della superficie è coltivata a frutteto.
Giunti a contrada Santa Maria, si apre una visione da paradiso:
davanti cè il lago Matese e, a destra, altissime,
le cime rigogliose de La Gallinola (q. 1923) e monte Miletto
(q. 2050), ora piene di neve. Gli steccati dei recinti sono
ancora quelli dello scorso anno perché non mostrano segni
di aggiustamenti; le greggi ancora non sono arrivate. Canali
dacqua, larghi diversi metri, ci tagliano la strada, e
dobbiamo cercare punti adatti allattraversamento. Il nostro
ricovero è a vista: passiamo, su una briglia realizzata
con gabbionate, attraverso un canale senzacqua. Una donna,
della comitiva, sabbraccia ad un albero e poggia la testa
sulla corteccia: sta lì qualche attimo, dice a chi le
chiede, per riprendersi e per assorbire la linfa rigeneratrice
di energia che scorre nella pianta. Risalendo, a destra, il
canale a secco, si arriva al Concone delle Rose (q. 1408). Il
sole, lievemente avvolto in unaura magica, ci saluta allorizzonte.
Lampia sala ristorante, stasera, è piena di gente:
sono davvero i dannati del week-end. Senza timore alcuno mettiamo
la bandiera al muro. Si brinda ai 62 anni del padrone di Woody.
Nel nostro gruppo ci sono alcune giovani coppie di Caserta,
esperte di camminamento, ma a digiuno della propaganda
del fatto. Stiamo, insieme al Maestro, fino alluna,
a rispondere alle loro domande e ad esaudire alla loro curiosità
di penetrazione nel mondo dellanarchismo, vecchio e nuovo.
I nostri Internazionalisti, infatti, diventano ora eroi e ora
guasconi, poi cavalieri erranti, poi ancora signori di lealtà
e paladini dideali mai spenti e difensori e custodi dellessenza
della vita. È una gioia parlare con questi giovani, sani
nel corpo e nella mente, che delle spezie amano solo il peperoncino
piccante.
Alle 10,00 del giorno 7 partiamo dalla masseria Maturi; è
la terza e ultima tappa di questo viaggio nel tempo. Siamo più
di un centinaio; si sono aggregati amici del Molise, di altre
zone della Campania e una cinquantina di aderenti a Legambiente
di Napoli.
Costeggiando il lago Matese, sulla destra, i nostri savviarono
per dimostrare nel paese di Letino; più avanti, dopo
la Serra Sbregavitelli, per Capo di Lete, raggiunsero Colle
Castello (q. 1094) e, quindi, Letino. Viaggiarono, mimetizzati
nella vegetazione, sulle pendici de La Gallinola e del monte
Miletto, poiché dalla vallata ampia era possibile scorgere
ogni cosa, anche a notevole distanza.
La smania di arrivare
Noi viaggiamo ad una quota più bassa e incontriamo,
lungo il percorso, branchi di cavalli che scorazzano in piena
libertà. Il sole batte sui picchi innevati e sulla vegetazione
a mezza costa, che è ora bruna ora grigiastra. Cè
un forte odore di terra e di letame, ci sono stalle e ricoveri
per vacche e cavalli. Le montagne e il cielo si riflettono nel
lago che, anchesso, è ora bruno, ora grigio, ora
azzurro. Si vedono anfratti e gole, tagliate nelle montagne,
che, con la recente esperienza alle spalle, immagini tetre e
profondissime. Cè un bellisolotto, al centro
del lago, alto una decina di metri. Lontane, si scorgono le
inconfondibili alture dietro Letino, che assomigliano alle piramidi
di Giza.
Da sinistra, che incorniciano il lago, ci sono il monte Giumenti
(q. 1231), il monte Maio (q. 1302), il monte Pranzaturo (q.
1382), il monte Soglio (q. 1529); di fronte cè
la Serra Sbregavitelli (q. 1413), e da questa, verso destra,
il monte Miletto, il colle del Monaco (q. 1708), il monte Crocetta
(q. 1735) e La Gallinola.
Lambiente tutto è popolato da scene arcadiche:
le pecore, i pastori, i cani sembrano muoversi in unatmosfera
protetta, cristallizzata. Risaliamo, sulla destra del lago,
un breve poggio, percorrendo un lieve sentiero, derba
e sassi. Una leggera brezza ci soffia alle spalle. Dopo un breve
cammino il lago è già lontano, visibile solo attraverso
una gola. Il Maestro ci dice si seguire i sentieri ma ognuno,
penso, vorrebbe tagliare dritto, come fecero glinternazionalisti,
per la smania darrivare: camminarono in gruppo, per tutto
il tempo, tranne che sulle asperità, per una selezione
naturale; qualcuno, a turno, veniva avviato in avanscoperta,
con il duplice incarico anche di sentinella, per coprire con
lavvistamento larrivo dei compagni.
Incontriamo dei fiori di ghiaccio, che brillano al sole come
cristalli. Il sentiero è un tappeto derba. Attraversiamo
un valloncello, su una briglia che forma una cascatella di un
paio di metri. Landatura è rallentata, e chi si
ferma per i propri bisogni non fa fatica a riunirsi al gruppo.
Attraversiamo un impluvio: sono acque che dal monte Miletto
si versano nel lago. Giungiamo al Passo di Sbregavitelli. Inizia
unerta salita di ghiaia e sassi, sulla destra, mentre
sul lato opposto si apre unampia vallata. Dopo aver passato
il Capo di Lete, dove nasce il fiume, e aver attraversato, sulla
sinistra, il Campo della Secine, troveremo altri sentieri e
una carrareccia che porta a un vecchio ponte sul Lete: a poche
centinaia di metri ci sarà Letino. Cè una
fontana, lungo la via, e facciamo rifornimento dacqua.
Davanti abbiamo un promontorio e, poco oltre, la sagoma delle
piramidi di Letino. È questo il percorso degli Internazionalisti:
dopo Campo delle Secine (la segale, nel dialetto locale), tenendo
il limitare sinistro della faggeta, passarono su Colle Castello
(q. 1094), prima di raggiungere il paese.
Ci sono alberi dagrifoglio dun verde intenso. Incontriamo
un tratturino fatto, ancora una volta, dun soffice e insidioso
letto di foglie secche, costeggiato da alti faggi. Due amici
si stanno chiedendo se, nella vita, sono più le salite
o le discese. Dopo lesperienza maturata nei giorni precedenti
sono certi che la vita è fatta più di salite;
e poi, per avvalorare la loro tesi, concludono che i cimiteri
sono sempre situati su alture di modo che, alla fine, ci sarà
sempre una salita in più, perché non si dovrà
tornare.
La strada continua a salire, anche se senza strappi, e la valle
sprofonda costantemente. Incontriamo delle piante di belladonna;
con lingestione di poche bacche, dice il Maestro, che
sono nere e dolciastre, si arriva prima alleccitazione
e poi, velocemente, al delirio e, quindi, al coma. Più
avanti incontriamo una rotatora di cinghiali, fossi
con ristagno dacqua piovana, dove le bestie vanno a lavarsi,
ruotando su se stesse. Notiamo delle mazze di tamburo (lepiota),
funghi che al primo stadio della crescita si presentano come
quegli arnesi musicali. Ci immettiamo in un sentiero stretto
e pieno di rovi; viaggiando a mezza costa abbiamo avuto la possibilità
di vedere, nella valle, tanti corsi dacqua, e renderci
conto che, per la loro larghezza, spesso ragguardevole, sarebbe
stato molto difficile attraversarli. Ci fermiamo alla fontana
Uccellara, sul colle Castello. Alle spalle abbiamo lasciato,
e sono ancora visibili, cime innevate; davanti e ai lati ci
sono, ora, alture con tinte di terra grigiastra. I sentieri
e i terrazzi sono retti da muri a secco. Ce ne sono tantissimi.
E con pietre a secco sono costruite le abitazioni che incontriamo,
in evidente stato dabbandono. Dalla valle arriva, sfumato,
il suono dei campanacci degli animali al pascolo. A destra,
sul lato sud della montagna, si leggono, nellaridità
della vegetazione, sentieri vertiginosi che sintersecano
come croci di santAndrea. Incontriamo mandrie di cavalli
e qualcuno, innervosito per il nostro passaggio, abbassa la
testa e alza le zampe posteriori, come per farsi spazio intorno.
Di fronte a colle Castello cè la Rave la Noce dove
glInternazionalisti vennero, in un primo tempo, sorpresi
dalla tormenta di neve e poi, dopo diverse peregrinazioni, non
sapendo dove andare, furono catturati.
Il ponte a tre arcate
Il paese di Letino è di fronte, ora, ed è bellissimo,
adagiato su un fianco della montagna: il sole, che inizia a
calare, si riflette in ogni vetro delle case, che cambiamo colore
col passare dei minuti. Un sentiero stretto ci porta giù
nella valle. Ancora una fontana: lacqua è limpidissima
e viene voglia di calarci la testa dentro; filtrata dalle rocce,
proviene sicuramente da un inghiottitoio a monte. Qualche minuto
fa serano notate solo le voci della natura: ora il vocio
è daltro genere; poi diventa chiacchierio: il gruppo
si ricompatta vicino alla fontana. Guardandoci intorno, da sinistra,
vediamo monte Rotondo, quindi Letino, con le sue piramidi; da
destra, poco lontano, si sente lo scroscio, crescente dintensità,
del fiume Lete: lattraversiamo, riscendendolo sulla destra.
Le acque sono limpide e, con locchio reso vigile, è
possibile vedere le trote, malgrado la sorprendente connessione
tra colorazione e ambiente: riesco a vederne qualcuna, con una
bella livrea punteggiata di vivaci ocelli. Riattraversiamo,
su ponti, più volte, il fiume Lete. Poi lo teniamo più
distante. Le creste delle montagne, ora più vicine, si
vedono alberate, e sembra che terminino e ripartano da buie
gole.
Verso le 17,00 arriviamo, finalmente, al vecchio ponte a tre
arcate, di cui quella centrale avrà una larghezza di
circa quattro metri. Più avanti il Lete si versa nel
lago di Letino per poi ripartire e finire in bottiglie di vetro
per il largo consumo di acque piene di storia. Cè
un poco dinternazionalismo, in quelle bottiglie. Davanti
a noi, in alto, spicca la chiesa che domina Letino.
Questo è il nostro limite e il temine della nostra passeggiata.
Non entriamo nel paese.
Ricordiamo, per dovere di cronaca, che allalba dell8
aprile del 1877 la Banda raggiunse la Piana delle Secine, verso
le 10,00 giunse a Letino e, alle 14,00, a Gallo. Il questi due
piccoli paesi si maturò la dimostrazione, da mesi programmata
e idealizzata, che avrebbe dovuto essere una delle tante da
tenersi nellItalia centro-meridionale. La vicenda è
troppo grande e presenta molti lati oscuri, per poterci sentire
in diritto di trarre delle conclusioni. Sappiamo, con certezza,
che la notte tra l8 e il 9 aprile la Banda la trascorse
nella masseria dellarciprete di Montaquila, situata tra
Letino, Gallo e Roccamandolfi e il giorno 9 lo passò
vagando intorno a monte Costa della Croce, nel tenimento di
Longano, dove ci sono pizzi alti anche 1600 metri. Da quelle
parti cè anche il Fosso delle Rave. I carabinieri,
intanto, avevano occupato Gallo, dove si era installato anche
il comando militare, arrestata lultima guida, e sequestrate
le armi agli abitanti, a cui erano state distribuite dagli Internazionalisti
il giorno innanzi. Si posero delle compagnie, a difesa delleventuale
fuga degli anarchici verso Isernia , verso Campobasso e verso
i paesi posti sul lato sud del Matese; il lato est, verso Benevento,
era già sbarrato. Altre compagnie, una volta localizzati
i luoghi, avanzarono, stringendosi in cerchi concentrici sempre
più piccoli, in modo da restringere sempre di più
il campo dazione dei dimostranti.
La sera del 9 due compagnie di bersaglieri giunsero a Letino.
Può sembrare perlomeno strano che per catturare ventisei
dimostranti, stremati dalla fatica e dal freddo, si utilizzassero
tanti uomini: la realtà è che i politici si posero
il problema di fronteggiare uneventuale sommossa, molto
più ampia nelle proporzioni, se davvero, comera
nelle intenzioni, glInternazionalisti fossero riusciti
a coinvolgere, con la propaganda del fatto, anche le locali
masse contadine. La Banda vagò anche nei giorni 10 e
11 aprile. Intanto altre forze governative arrivavano da Piedimonte
dAlife, da Longano, da Isernia e da Castel Pizzuto. Il
mattino del 12 la Banda tornò indietro, verso Rave la
Noce, e fu catturata, senza opporre resistenza, presso una masseria,
da forze miste agli ordini del capitano De Notter. Furono portati
nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere (CE) e di Benevento,
gli Internazionalisti.
Nellagosto del 1878 si tenne, a Benevento, il processo,
con lassoluzione, a furor di popolo, degli insorti, ritenuti
non colpevoli.
Vincenzo Argenio
«...
Noi credevamo, anzi, vista la notte oscurissima che ci avessero
già circondati e naturalmente cercammo di prendere i
monti. In questo mentre fummo raggiunti da un gruppo proveniente
da Roma. Dividemmo le armi e le munizioni che avevamo indosso
coi sopravvenuti, ed eccoci in campagna. Tutto il materiale
destinato ad armare coloro che dovevano arrivare la notte restò
nella cascina e andarono pure dispersi per la sorpresa le carte
topografiche, i cavastracci ed altri oggetti. Ridotti dunque
a circa un terzo di quelli che dovevamo essere, senza carte,
tutti forestieri perché la gente del paese non aveva
potuto raggiungerci e non comprendendo il dialetto del paese,
in una stagione in cui l'esperienza ci apprese tosto che era
impossibile tenere la montagna, la nostra banda era condannata
in sul nascere...»
Lettera da Tokyo
Misato Toda è una docente universitaria giapponese,
che ha studiato la nostra lingua proprio per poter conoscere
il pensiero e la storia di Errico Malatesta, un cui opuscolo
(Fra Contadini) in giapponese le capitò di ricevere
in dono da un vecchio anarchico circa 30 anni fa a Tokyo, nel
corso di una riunione. Da allora Misato è stata spesso
in Italia, studiando a Napoli presso lIstituto di Storia
del Risorgimento e dellEtà Contemporanea (presso
la Facoltà di Lettere), ha scritto numerosi saggi ed
un libro (Errico Malatesta da Mazzini a Bakunin, Napoli
1988), allargando i suoi interessi dalle vicende di Malatesta
negli anni 70 ed 80 del diciannovesimo secolo a
personaggi dellantifascismo quali Piero Gobetti, Carlo
Rosselli e Camillo Berneri. Ha più volte collaborato
con la nostra rivista, raccontando è stato il
suo scritto più recente su A il suo
incontro a Montevideo con Luce Fabbri.
A Misato, anarchica e zen-buddista, abbiamo chiesto un breve
scritto sul significato storico oggi della banda
del Matese.
Sette anni dopo la Banda del Matese, nel 1884, Errico Malatesta
pubblicò Fra contadini, il più famoso opuscolo
suo, che è stato tradotto in varie lingue, non soltanto
europee ma anche in cinese e giapponese ed è apparso
anche nel continente nuovo: Stati Uniti, Argentina,
Uruguay, Brasile, dove lavoravano immigrati italiani e spagnoli.
Questo opuscolo ancora oggi appare in tutto il mondo come un
classico dellanarchismo.
Il lavoro di Malatesta illumina il motivo del Banda del Matese,
come il primo esempio del propaganda del fatto.
Vi si racconta di un altro mondo, un mondo alternativo, che
si può costruire con lamore e la volontà
umana. Ma prima di tutto è indispensabile cambiare il
concetto vecchio dentro di te e di me, accorgersi del preconcetto
che non nasce nel mondo dei lavoratori ma in quello dei padroni,
i quali vogliono sempre, storicamente, è governare da
sopra con il potere e sfruttare il risultato del lavoro altrui.
I padroni, infatti, rubano la ricchezza comune sia dai contadini
che dagli operai, sia dagli uomini che dalle donne, sia dai
giovani che dai vecchi, e si godono i loro privilegi fondati
sul sudore e sul sangue dei lavoratori. È su questo preconcetto
si costruisce la società attuale, vale a dire su una
mitologia, perché storicamente in ogni popolo cè
bisogno di mitologia per persuadere il popolo a farsi governare.
Il primo compito per i lavoratori è accorgersi quale
sia la mitologia ed a chi serva.
In quei sette anni dopo la Banda del Matese, Malatesta era vissuto
fuori dItalia: Egitto, Turchia (molto probabilmente),
Romania, Svizzera, Francia, Belgio, Inghilterra. Con una ricca
esperienza, una vasta cultura internazionale, ormai maturo con
i suoi 31 anni, Malatesta poteva e doveva esprimere il motivo
della Banda del Matese per illuminare tutti i popoli del mondo,
in modo da chiarire la struttura sociale della società
e da smontare il preconcetto che dominava la mente dei lavoratori
che sono poi quelli che davvero producono la ricchezza
umana.
Nel 1877 a Letino e Gallo, la banda del Matese,
con alla testa Carlo Cafiero, Errico Malatesta e Pietro Cesare
Ceccarelli, proclamò la rivoluzione sociale
e dichiarò la terra appartiene a chi la coltiva,
bruciò i catasti in quei municipi e distrusse la bilancia
che serviva per determinare la tassa sul macinato ai mulini.
Entrambi erano il simbolo dello sfruttamento da parte del potere,
politico ed economico. La gente capiva così che la
rivoluzione sociale era un fatto tangibile. Ecco la propaganda
del fatto, rivolta anche a gente che non sapeva nemmeno
leggere come accadeva allora per la gran parte degli
sfruttati.
Oggi su iniziativa del Club Alpino Italiano un gruppo di persone,
donne e uomini, di varia età, ha seguito le orme dei
27 anarchici, uomini onesti che non furono incantati dalla mitologia
del padrone, cioè del sistema dello stato moderno europeo
di allora, che oggi si è trasformato nel padrone internazionale,
con lallargamento dello sfruttamento globale.
Lesperienza fresca, oggi, la possiamo rivivere nella nostra
immaginazione, leggendo Sulle tracce degli internazionalisti,
queste impressioni di viaggio che Vincenzo Argenio, cronista
ufficiale della manifestazione, ha scritto per la rivista A.
Nel maggio 1977, nel centenario della Banda del Matese, anchio
ho girato, con la macchina della mia amica beneventana, per
il Matese e ho visitato i paesi di San Lupo, Letino e Gallo.
Dopo essere ritornata a Tokyo, ho mostrato alle mie studentesse
(allUniversità Giapponese delle Donne) le diapositive
a colori sul Matese, mentre raccontavo loro la storia. Poi ho
chiesto le loro impressioni.
La risposta rappresentativa della prima impressione è
stata per me inaspettata: Siamo rimaste stupite che proprio
in quel contesto naturale così bello siano successi tali
eventi giganteschi di rivolta. Infatti anche nelle diapositive
la natura beneventana in maggio appariva veramente incantevole.
Oggi i partecipanti, con il loro sudore e la loro fatica, si
affezionano ai sassi, agli alberi, ai fiori, alla neve, che
a ogni loro passo si mescolano con il sudore e la fatica e laffetto
dei nostri 27 della storia di 125 anni fà. Le esperienze
in comune, di allora e di oggi, arrivano così a noi e
sembrano come mescolarsi nella nostra sensazione e simpatia,
rispondendo alleco che arriverà a tutta lumanità
oggi e nel futuro..
Quindi la manifestazione realizzata il 5-6-7 aprile 2002 da
queste persone, riprendendo il filo storico che conduce ad un
mondo alternativo in cui tutti siano felici e si godano la pace,
come Malatesta sognava, si trasforma in una propaganda
del fatto a modo loro. Il tentativo con la volontà
originale ci invita ognuno ad inventare in qualche modo la propria
propaganda del fatto nel mondo attuale, dovunque
noi viviamo.
Con saluti affettuosi dal Giappone
Misato Toda
Le tre tavole e il volto di Errico Malatesta sono
tratti da La rivoluzione volontaria. Biografia per immagini
di Errico Malatesta, disegni di Fabio Santin, testi a cura
di Elis Fraccaro, Edizioni Antistato, Milano 1980.
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