In questo giugno in cui il riscaldamento
globale del pianeta si fa sentire nelle torrenziali piogge
che allagano il Nord della penisola, mentre il Sud è
attanagliato da unarsura in cui la scarsità delle
precipitazioni va a braccetto con le criminali politiche di
gestione dellacqua potabile, su giornali e mailing list
si fa un gran parlare di crisi del movimento no-global.
Il disagio, emerso in modo chiaro dopo la mancata contestazione
di piazza al vertice NATO di Pratica di Mare, è divenuto
ancor più rovente dopo la buona ma non entusiasmante
riuscita della manifestazione organizzata a Roma in occasione
del vertice FAO. Allimprovviso la scena apertasi in modo
clamoroso a Genova lo scorso anno, pare chiudersi sui ben noti
teatrini della sinistrignaccola nostrana, più usa agli
intergruppi che alla reale ed orizzontale pratica della relazione
in rete, lunica capace di garantire una partecipazione
ampia ai processi decisionali.
Questa crisi è bene ricordarlo, è squisitamente
italiana, poiché altrove, lo dimostrano i 500.000 di
due mesi orsono a Barcellona, il movimento gode di ottima salute.
Il caso italiano ha indubbiamente delle peculiarità
che non da ora ne fanno una sorta di onda anomala
nel panorama dei movimenti extrasistemici sviluppatisi negli
ultimi 8 anni.
Quella cui abbiamo assistito è una lenta marea salita
dalla Selva Lacandona per investire progressivamente lintero
pianeta.
Lo slogan echeggiato in decine di appuntamenti internazionali
di lotta contro WTO e Banca Mondiale, i vari G-8 e i summit
dellUE come quelli delle Americhe, La nostra lotta
sia transnazionale come il capitale ha rispecchiato in
modo puntuale lo spirito zapatista. Abbiamo visto la nascita
di un movimento inedito, capace di superare sia la tendenza
alla frammentazione e al particulare tipica degli
anni 80 sia lafflato universale ma poco attento
alle questioni ed alle culture locali caratteristico del decennio
precedente.
Tuttavia un esame più attento dei movimenti sviluppatisi
in questi ultimi tre anni, al di là dellavvincente
dichiarazione programmatica dellunità nella diversità,
della pluralità delle lotte e dei percorsi nelle mobilitazioni,
rivela che molti nodi restano irrisolti. E non è, come
ritengono alcuni, una mera questione di stile. In
gioco non è tanto la strategia di piazza preferita quanto
la prospettiva delle lotte e qui il discorso diviene infinitamente
più complesso, perché le linee di cesura e quelle
di convergenza hanno attraversato trasversalmente gruppi ed
appartenenze consolidate spezzando talora vecchi fronti e ricomponendone
di nuovi.
Aree riformiste, aree radicali
Lelemento che tende a colpire i più, ossia le
azioni di piazza, è alla fin fine la questione meno interessante
finché i contenuti rimangono sullo sfondo. Mentre resta
il dato di un movimento che vede al proprio interno sia le componenti
postmoderne che quelle antimoderne, quelle laiche e quelle religiose,
quelle internazionaliste ma, insieme, quelle nazionaliste. Un
movimento in cui ritroviamo tendenze stataliste e neowelfariste
e, su un altro fronte, ma pur sempre interno allarea no-global,
istanze di natura autogestionaria. Per le prime il solo antidoto
efficace alla globalizzazione è nel rafforzamento degli
stati nazionali e nella ripresa di politiche (neo)socialdemocratiche;
le seconde puntano invece su pratiche di opposizione alla logica
capitalista sostenendo la radicale antitesi tra prassi autogestionaria
e ambito statuale.
Le tante anime dei movimenti di contro globalizzazione sono
riuscite a convivere nella loro fase aurorale ma, da Genova
in poi, lo scontro tra aree riformiste, fautrici di una moralizzazione
dei processi di globalizzazione ed aree radicali, convinte dellurgenza
di una politica anticapitalista ed antistatale si è fatto
sempre più aspro. Nel nostro paese, dove il peso delle
tradizioni politiche della sinistra moderata è ancora
forte, e dove questi movimenti si sono sviluppati tumultuosamente
ma assai più tardi che altrove, il tentativo egemonico
delle aree moderate, attuato attraverso buona parte dei Social
Forum locali e, soprattutto, attraverso il partito-non partito,
lItalian Social Forum, è passato attraverso il
tentativo di emarginare, criminalizzandole, le aree radicali
e libertarie.
La vergognosa operazione di fare dellarea anarchica tuttun
blocco, magari nero, di infiltrati e poliziotti,
portato avanti sin dalle tragiche giornate di Genova, è
clamorosamente fallito. Ma soprattutto è fallita la costruzione
di una sorta di partito no-global che riassumesse
e rappresentasse lintero movimento. Sin dallinizio
abbiamo assistito allo sfilamento dellarea cattolica.
La Rete di Lilliput si è sostanzialmente estraniata dal
percorso dellItalian Social Forum, denunciandone il carattere
verticistico ed autoritario. Se a ciò si aggiungono i
diversi e confliggenti interessi dei vari attori in gioco, incapaci
di dar vita ad una struttura che fosse qualcosa di più
di un litigioso intergruppi, cominciamo ad avere un quadro più
chiaro.
Nel luglio genovese Rifondazione è stata disponibile,
pur fornendo un apporto considerevole alla riuscita delle manifestazioni,
ad assumere un ruolo formalmente defilato ma nelle fasi successive
ha fatto pesare sempre più la propria macchina organizzativa.
Inoltre la nascita di un fronte di opposizione antigovernativo,
se da un lato ha visto vaste mobilitazioni di piazza, dallaltro
ha reso possibile un, sia pur parziale, riavvicinamento tra
Rifondazione e settori dellUlivo a scapito di una radicalizzazione
dei contenuti del percorso No-global, che si è vieppiù
appiattito sulle esigenze della politica istituzionale nostrana.
Le decine di migliaia di persone che intorno allappuntamento
genovese e poi nei mesi successivi si erano avvicinate da protagoniste
allagire politico e sociale, partecipando sì ai
cortei, ma anche al dibattito nei vari Forum, sia fisici che
virtuali, sorti un po ovunque, si sono pian piano ritrovate
ai margini di un processo decisionale definitivamente avocato
a sé da risicate minoranze di politici di professione.
Anarchismo sociale
La cosiddetta crisi del movimento è in definitiva
il risultato di fattori diversi e certamente non di segno univoco.
Leccessiva spettacolarizzazione voluta da alcuni settori,
come i Disobbedienti, finisce col mostrare la corda quando larmamentario
di trovate pubblicitarie tende ad esaurirsi. Daltro
canto le dichiarazioni di guerra virtuali della
premiata ditta Casarini & C. si sono infrante tragicamente
di fronte alle pallottole di piombo sparate a Genova da carabinieri
e questurini, di fronte alle botte, alle torture, alle detenzioni
illegali, di fronte al massacro della Diaz. Ci è poi
voluto l11 settembre e la guerra in Afghanistan per chiarire
anche ai più incalliti amanti della farsa che il gioco
feroce dei potenti si era fatto dannatamente reale.
Di fronte alla guerra, alla militarizzazione della società
ed al contestuale tentativo di equiparare no-global e terrorismo
il movimento ha dato i primi segnali di incertezza, di incapacità
di esprimere in modo forte la propria opposizione. In quelloccasione
sarebbe stato necessario un salto di qualità, la capacità
di dar vita ad iniziative internazionali coordinate capaci di
smontare la prodigiosa macchina propagandistica messa in campo
dai signori della guerra, ma per tutti i mesi delloffensiva
americana in Afghanistan il movimento è apparso per lo
più sulla difensiva.
In quanto al resto credo bastino i risibili risultati elettorali
delle liste Disobbedienti alle recenti amministrative
per comprendere che la critica e la volontà di trasformazione
espresse dal movimento No-global sono difficilmente riassorbili
in ambiti istituzionali, sia pur travestiti da esperienze municipaliste,
e che il processo di reistituzionalizzazione del movimento operato
dallItalian Social Forum incontra sempre più resistenze.
I movimenti no-global hanno fatto riemergere il protagonismo
di piazza. Una piazza che è ri-divenuta luogo pubblico,
spazio della critica e della rivolta, luogo di una presenza
diretta non delegata di persone che prendono in mano la facoltà
politica, fuori e contro i tragicomici teatrini della democrazia
parlamentare.
Sapremo nei prossimi mesi se il movimento saprà riarticolare
un proprio lessico, capace di sfuggire sia ai tentativi di istituzionalizzazione,
sia alle tentazioni dello spettacolo per la maggior gloria del
portavoce di turno. Molto dipenderà dalla
capacità di annodare i fili di un discorso che sappia
ancorarsi ai contenuti tessendo una rete di relazioni efficace
ed orizzontale.
La scelta di buona parte del movimento anarchico del nostro
paese, emersa in modo chiaro nel luglio scorso a Genova, di
sfuggire allo spettacolo mirando alla costruzione di un movimento
al contempo radicale e radicato ci pare non solo giusta ma capace,
alla lunga, di dare i propri frutti. In questi mesi vi sono
stati significativi segnali di una crescita dellarea dellanarchismo
sociale che sono il miglior indicatore dellefficacia della
via intrapresa.
Sempre più intollerabile
Oggi più che mai il saper fare deve coniugarsi ad un
narrare che sia azione, relazione, capacità di prefigurare
nuovi mondi, fuori dal cono di luce proiettato dai media.
Ad un anno dalle giornate di Genova, mentre lomicidio
di Carlo Giuliani si avvia ad essere, sul piano giudiziario,
ridotto a mero incidente noi sappiamo che fuori
dalle aule dei tribunali e dalle pagine e gli schermi dei media
solo la volontà di esserci e contare dei senza potere
e dei senza patria potrà opporsi a chi, con la violenza
e la menzogna, rende questo mondo sempre più intollerabile.
La prospettiva di una lotta globale non ha solo un significato
spaziale ma anche e soprattutto il senso di un movimento capace
di investire con la propria capacità critica e di intervento
tutti gli aspetti della vita e, soprattutto, quellagire
politico che in troppi vorrebbero ridotto a mero gioco istituzionale.
Solo così potremo evitare che il movimento no-global,
nel nostro paese, si riduca ad un breve incidente
di percorso in unestate troppo assolata.
Quelle che hanno ucciso Carlo Giuliani erano le pallottole di
uno stato che non ammette contestazioni, di un ordine che non
accetta le critiche; i trecentomila che hanno sfidato questo
stato e questordine sul lungomare di Genova ed i tanti
che hanno riempito le piazze nei mesi successivi sanno che questa
è una verità che nessun magistrato può
cancellare.
Maria Matteo
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