Non è un caso che, parlando degli
anni sessanta, si finisca sempre col definirli «mitici».
Fuor di retorica, infatti, e depurati da inevitabili incrostazioni
nostalgiche, quegli anni furono davvero un eccezionale momento
di svolta, e di non ritorno, per unintera generazione
di giovani che accedeva in massa, per la prima volta, ad opportunità
che solo il nuovo e diffuso benessere degli anni del miracolo
potevano offrire. Anni che rappresentarono una cesura irreversibile
con un passato definitivamente «passato» e che al
volgere del decennio terminarono, coerentemente, con laltrettanto
mitico 68, punto di arrivo di un processo generazionale assolutamente
originale nelle sue dinamiche, e punto di partenza di un altro
straordinario percorso, i cui approdi, nonostante tutto, sono
tuttora alla base di una quantità di aspetti del nostro
quotidiano ben maggiore di quanto non si voglia credere.
Recentemente abbiamo assistito al fiorire degli studi sulla
storia dei movimenti contestativi e di lotta nati allo scadere
del decennio, e parecchi di questi hanno saputo cogliere e descrivere
la complessità di quel periodo, che fu così breve
temporalmente quanto portatore di cambiamenti epocali. È
anche raro, però, incontrare lavori interessati al più
lungo processo di formazione di quella coscienza ribelle che
prefigurò e rese possibile lesplosiva «contestazione
globale» sessantottesca. Più che a proposito, pertanto,
esce oggi questo bel libro di Diego Giachetti edito dalla Biblioteca
Franco Serantini (Anni sessanta comincia la danza. Giovani,
capelloni, studenti ed estremisti negli anni della contestazione,
Pisa, BFS, 2002) nel quale si dà conto, mi pare per la
prima volta in modo organico, dei passaggi di quel percorso
di trasgressione che ebbe inizio nel lontano e sovversivo 1960
e che arrivò a compiutezza con gli avvenimenti del 1968
e degli anni immediatamente successivi. Una bella occasione,
finalmente, per riconsiderare quegli anni senza il «rimpianto
del tempo che fu» (anche perché Giachetti, quando
arrivarono in Italia le canzoni dei Beatles, non aveva ancora
10 anni) ma anche senza quella insopportabile spocchia ipercritica
sfoggiata da tanti pentiti dellantico entusiasmo. Tanto
più una bella occasione perché in questa sua ultima
fatica Giachetti, già autore di altri studi sul periodo,
affianca ai consueti strumenti dello storico quelli dellantropologo,
ricavando dai documenti coevi (in gran parte testi delle canzoni
e giornaletti per i giovani) le radici di quellautentica
mutazione culturale che fu alla base della sovversiva originalità
degli atteggiamenti di allora.
Dallattenta lettura dei testi delle canzoni più
significative e dirompenti, e dallo spoglio delle lettere che
arrivavano alle redazioni dei primi giornali «per giovani»
usciti in Italia, emerge un filo rosso che lega, passo dopo
passo, le profonde trasformazioni che interessarono il modo
di sentire e i comportamenti quotidiani di una parte tanto minoritaria
quanto significativa del mondo giovanile. Un filo rosso partito
da una esigenza sostanzialmente esistenziale, attenta soprattutto
alle pulsioni generazionali, poi trasformatasi in una maturità
dalle forti connotazioni politiche e sociali: in pratica la
cronaca di una «educazione sentimentale» che dal
bisogno di trasformare se stessi è arrivata, non cè
bisogno di ricordarlo, al tentativo di trasformare il mondo.
Un percorso di ribellione, dunque, e di trasgressioni, condotte
da una «minoranza agente» per affermare il rifiuto
dei valori perbenistici e utilitaristici del mondo degli adulti
accettati acriticamente dalla maggioranza dei coetanei, ma anche
un percorso di impegno per dare forma e sostanza a una socialità
diversa e innovativa, nella quale potesse esprimersi la naturale
generosità di tutto il mondo giovanile.
Spiazzanti iniziative
Rifiuto di valori e modelli alieni, dicevo, ma comunque mai
estraneità rispetto al presente, alla realtà circostante.
Infatti, a differenza dei comportamenti «altri»
caratteristici di generazioni successive chiuse al mondo di
fuori, i ribelli degli anni 60 non intesero mai la loro
provocatoria alterità come isolamento, ma cercarono sempre
di utilizzarla per nuove forme di interazione e di cambiamento
di quel presente che non volevano più accettare. Non
cera ancora un altrove nel quale rifugiarsi per nascondere
le proprie sconfitte (fosse pure, questo altrove, la lotta armata
o leroina), e lincazzatura che traspariva dalle
scioccanti esteriorità che finalmente cominciavano a
farsi strada in quel mondo di grigie uniformi (li ricordate
gli uomini blu di Yellow Submarine?) era quella di chi
voleva anche convincere, e non cercare solo un astioso conflitto.
E basta ricordare le spiazzanti iniziative dei Provos olandesi,
vero e proprio modello per tutta la galassia beat, per convincersene!
Buona parte delle tappe descritte da Giachetti coincidono con
quelle della mia maturazione sociale e politica, ed è
quindi comprensibile che, dopo quasi quarantanni, la lettura
di Anni Sessanta comincia la danza mi abbia provocato
il risveglio di sopite emozioni. Infatti, in quella specie di
percorso ad ostacoli che furono quegli anni, si misurarono le
mie qualità e i miei difetti, così come si misurarono
quelli di migliaia e migliaia di altri giovani che si ritrovarono
fianco a fianco, con le loro contraddizioni e le loro madornali
ingenuità, sconosciuti ed estranei ma sempre vicini e
«destinati» a un solo, comune traguardo.
La danza comincia nel 1960, quando la rabbia dei giovani operai
e proletari, ancora influenzati, ma senza esserne più
inquadrati, dagli apparati della sinistra tradizionale, si manifestò
nelle città del nord Italia contro i fascisti di Almirante
e i democristiani di Tambroni. E già da quel momento
le forze politiche che più avrebbero dovuto apprezzare
la generosa spontaneità manifestatasi nelle piazze italiane
cominciarono a dare, con la rara eccezione di alcuni spiriti
liberi, quei segni di incomprensione del cambiamento che avrebbero
sempre più caratterizzato i rapporti generazionali. Liniziativa
autonoma giovanile cominciava a fare paura, come dicono le numerose
testimonianze raccolte dallautore, e nessuno si sarebbe
mostrato attrezzato per comprenderla. E inevitabilmente le difficoltà
di comunicazione e lincapacità di dare risposte
convincenti a chi cominciava a rifiutare le aride prospettive
della società dei «grandi» (casa, famiglia,
lavoro nella più deprimente delle routine) diventarono
il tratto caratteristico del dialogo (o meglio, della sua assenza)
fra giovani e adulti.
La rivolta dei giovani operai torinesi di Piazza Statuto, le
manifestazioni milanesi in cui fu ucciso il giovane comunista
Ardizzone, la nascita del primo governo di centrosinistra nel
1964, sentito più come un cedimento allegemonia
democristiana che non come lapertura di una stagione di
riforme, lintervento americano nel Vietnam, i conflitti
razziali in Africa benedetti dalle grandi potenze, la fame nel
Biafra, la guerra dei sei giorni fra Israele e paesi arabi contribuirono,
fra gli altri, nella loro drammaticità, ad approfondire
il solco fra una generazione da poco uscita dalla guerra mondiale,
e già pronta a proporre nuove tragedie, e una bombardata
quotidianamente da promesse che non potevano essere mantenute.
E la risposta fu il sorgere di un fenomeno sociale e culturale
che avrebbe segnato lintero decennio. Anche il nostro
paese, sullesempio di quelli più «evoluti»,
cominciò a vedere nelle strade e nelle piazze strani
giovani, vestiti in modo bizzarro e con chiome di insolita lunghezza,
che marcavano con la loro estremistica diversità linconciliabilità
di due mondi. Avanguardie di un sentire collettivo che si propagava
a macchia dolio, i beat posero al centro della questione
giovanile le loro profonde insoddisfazioni esistenziali: il
bisogno di una sessualità più libera, la fuga
dalle gabbie del perbenismo, la scoperta ambientalista, loppressione
di un servizio militare di 18 mesi, lesigenza di rapporti
non opportunistici, lincomprensione degli adulti.... Un
bagaglio «ideologico» che si espresse, con straordinaria
efficacia, nei testi e nelle note di una musica completamente
nuova che faceva da cassa di risonanza di nuove tensioni e aspettative.
Fu quella una vera e propria colonna sonora collettiva, che
trovava le proprie forme espressive in autori ed interpreti
che si muovevano in totale sintonia con il loro pubblico e si
lasciava alle spalle il tradizionale genere melodico italiano,
ormai incapace di farsi ascoltare da orecchie che non ne volevano
più di cuore in rima con amore. Grazie alle contaminazioni
coi generi musicali anglosassoni, che contribuirono a sprovincializzare
definitivamente i contenuti tradizionali, la musica italiana
acquistò una funzione dapprima impensabile, diventando
un momento di unificazione interclassista, in grado, in un certo
senso, di ribaltare i momenti dellaggregazione giovanile
(sezione e parrocchia) quali si erano espressi fino ad allora.
Attraverso una lettura «pignola» dei testi musicali,
Giachetti ci permette di comprendere questi passaggi, mostrando
come i principali topoi caratteristici di quel nuovo ribellismo,
la rabbia, la speranza, limpegno sociale, il desiderio
di libertà..., trovassero tutti i propri referenti in
questo o quel testo. E ci fa anche capire come mai, a distanza
di quasi quarantanni, molte di quelle canzoni (quelle
italiane, principalmente, perché i testi dei Beatles
o di Bob Dylan, o di Joan Baez quasi nessuno era in grado di
tradurli) siano ancora presenti nella nostra memoria.
Il proliferare dei complessi
Eravamo in molti a identificarci nelle parole dei Corvi e cantavamo:
io sono un poco di buono/non faccio la vita che fai/sono
un ragazzo di strada/lasciami in pace perché...,
pur non essendo dei poco di buono, né dei ragazzi di
strada e neppure, almeno non del tutto, almeno non ancora, degli
emarginati. Ma quelle parole rendevano ragione, più di
un trattato di sociologia, di una insoddisfazione e di una rabbia
che trovavano solo nellesclusione dallesistente
la possibilità di costruire qualcosa di diverso. Il
ragazzo della via Gluck di Celentano, Proposta dei
Giganti, Auschwitz e Dio è morto di Guccini
e I Nomadi, Nessuno mi può giudicare della Caselli,
E la pioggia che va dei Rokes, 29 Settembre dellEquipe
84, e molte altre canzoni nei loro testi «di protesta»
rappresentavano e davano voce a un mondo giovanile refrattario
e irriducibile rispetto a una realtà cupamente immobile.
Refrattario e irriducibile, ma anche profondamente convinto
che dopo la pioggia «poi torna il sereno» e che
le possibilità di cambiamento, sulle ali di una spinta
che pareva inarrestabile, fossero davvero a portata di mano.
Lo stesso proliferare dei «complessi», che si sostituivano
al classico cantante con orchestra, non era solo un nuovo modo
di fare musica ma soprattutto lintenzione di socializzare
il proprio bisogno di esprimersi. Era una prima forma di aggregazione
che prefigurava in sedicesimo il gruppo politico, altrettanto
fortemente coeso ed armonico. E a fianco delle canzoni, poiché
il movimento non si esauriva con esse, nascevano, soprattutto
nelle grandi città, i primi fogli autoprodotti, dedicati
esclusivamente alle tematiche giovanili. Fu anche quello un
fenomeno del tutto originale, che lasciava presagire lesplosione
della stampa e dellinformazione «alternativa»
degli anni a seguire.
Con queste premesse, sovversive anche se prepolitiche, diventa
evidente la necessità del passaggio dalla contestazione
musicale e generazionale a quella più espressamente politica,
e parallelamente dellincontro fra canzone rossa e canzone
beat. Mano a mano che la coscienza sociale trova nuove urgenze,
beat e capelloni cominciano a prendere a prestito contenuti
e strumenti dei movimenti di lotta che li avevano preceduti.
Le tematiche libertarie proprie dellanarchismo (forse
un po sottovalutate da Giachetti, e questo è lunico
appunto che mi sento di fargli) e quelle della tradizione marxista
cominciarono a «contaminare» e ad arricchire lafflato
giovanilistico, determinandone una sostanziale evoluzione. Gli
ultimi anni del decennio, a cavallo fra il 1967 e il 1968, vedono
quindi il trapasso, né traumatico né doloroso,
dalla fase «primitiva» a quella «matura»
della protesta, con la progressiva emarginazione di gran parte
dei contenuti fin lì espressi. Fu un passaggio logico,
non contraddittorio e nemmeno autoritario, ma lesito naturale
di un processo storico che stava aprendo altre prospettive.
I capelloni, in quanto emergenza sociale, si facevano da parte,
ed entravano in gioco i compagni. Ma senza sostanziali soluzioni
di continuità: questi avevano cominciato la danza, adesso
erano gli altri a mandarla avanti.
Massimo Ortalli
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