Capire il dolore del bambino equivale
a capire le potenzialità della sua intelligenza, intesa
come capacità di giudizio, di elaborazione e assimilazione
degli aspetti più significativi dellesperienza,
come capacità di cambiamento, se necessario, delle proprie
strutture di pensiero e quindi inevitabilmente anche come capacità
di sofferenza. Si tratta di unintelligenza che presenta
connotazioni ben più ampie rispetto alluso ristretto
e svilente che viene fatto correntemente di questo termine,
quando dagli adulti viene per lo più associato semplicemente
alluso del computer, allapprendimento di una lingua
straniera o alla soluzione di un problema logico-matematico.
Il tema del dolore del bambino ha molti aspetti, ma due mi sembrano
fondamentali: a) il ruolo delladulto nellaiutare
il bambino ad affrontare lesperienza del dolore e b) i
modi in cui ladulto, in genere intenzionalmente, ma talvolta
anche non intenzionalmente, produce dolore nel bambino attraverso
lesercizio del potere e della violenza.
Analizzerò questi due aspetti facendo riferimento, a
titolo esemplificativo, a queste specifiche tematiche: 1) il
rapporto del bambino con la morte e la malattia; 2) la spinta
in molti settori della popolazione nelle società industrializzate
a favorire nelleducazione dei bambini, in una prospettiva
di efficientismo e di competitività, prevalentemente
lo sviluppo di capacità che potremmo definire tecniche;
3) lapporto dellarte, in particolare della letteratura,
alla comprensione del dolore del bambino; 4) la comunicazione
adulto-bambino.
In una ricerca che ho svolto alcuni anni fa sugli atteggiamenti
dei bambini nei confronti della malattia e della morte e in
cui ho raccolto molti dati soprattutto attraverso interviste
e questionari, ho avuto la possibilità di riscontrare
quanto varia, ampia e poco coerente sia la gamma di idee che
gli adulti in genere hanno sul rapporto del bambino con il dolore
(Pagani e Robustelli, 1986; Pagani, 1992). Nonostante si trattasse
di un gruppo particolarmente selezionato di adulti, costituito
prevalentemente da insegnanti e da genitori di cultura media
e medio-alta, questa indagine ha messo in evidenza, tranne ovviamente
alcune eccezioni, una diffusa superficialità e una diffusa
contraddittorietà delle opinioni su questo tema espresse
dalle persone interpellate. Dallanalisi dei dati emergeva
generalmente in questi adulti una visione molto riduttiva, e
di conseguenza falsa, del bambino per quanto riguarda le sue
effettive capacità cognitive ed affettive. E se gli adulti
hanno una visione superficiale e distorta del bambino ne deriva
che il bambino si sentirà poco capito, solo, scarsamente
incline alla comunicazione con gli altri, e notevole sarà
quindi la sua sofferenza. A titolo esemplificativo basterà
citare due opinioni espresse da alcuni degli insegnanti e dei
genitori coinvolti nella ricerca. La prima è che il bambino,
rispetto alladulto, ha una forza intrinseca che
gli permette di dimenticare più facilmente gli eventi
dolorosi e di avere quindi maggiori capacità di recupero.
La seconda è che ladulto deve porsi di fronte al
bambino come una fonte di speranza e di ottimismo. Deve perciò
evitare di affrontare con lui temi dolorosi come quelli della
morte e della malattia, per non apparire agli occhi del bambino
come una persona triste o depressa.
Queste due opinioni fanno riferimento, in modo più o
meno implicito, ad un concetto di forza legato alla capacità
di dimenticare o, in ogni caso, alla capacità di negare
alcuni aspetti della realtà. Come ho già scritto
(Pagani, 1992),
[...] un individuo tanto più avrà raggiunto
un adeguato sviluppo della personalità quanto più
avrà analizzato, elaborato e assimilato gli aspetti più
significativi della sua esperienza (compresi quelli dolorosi),
organizzandoli in un insieme sufficientemente coerente di ricordi,
di sentimenti, di idee.
La forza non consiste quindi nelloblio
o nella negazione, ma nello sforzo di capire e di far capire.
Sappiamo, anche perché la ricerca psicologica lha
dimostrato, che il bambino, fin dai primi mesi di vita, percepisce,
elabora e ricorda, attraverso modalità diverse a seconda
del suo livello di sviluppo, quanto avviene intorno a lui e
dentro di lui, ivi compresi gli eventi dolorosi (cfr. Anthony,
1971; Pagani e Robustelli, 1986; Pagani, 1992; Raimbault, 1975;
Robustelli e Pagani, 1983; Stuber e Mesrkhani, 2001). Sappiamo
anche che spesso il bambino vive questo processo di elaborazione
e di assimilazione delle sue esperienze, soprattutto di quelle
più complesse e dense di sofferenza, da solo, perché
ladulto per diversi motivi di solito lo abbandona in questo
difficile compito. È possibile anche che in questa situazione
di confusione, smarrimento e angoscia il bambino decida più
o meno inconsapevolmente che ci sono ambiti dellesperienza
umana in cui è meglio non addentrarsi troppo o perché
sono troppo dolorosi perché lui li affronti da solo o
perché gli adulti sembrano non ritenerli importanti oppure
sembrano considerarli aspetti della vita troppo terribili, e
per questo talvolta anche proibiti o vergognosi, a cui non è
possibile accedere nellinfanzia. Una delle conseguenze
di questo stato di cose può essere che nel bambino lesigenza
soggettiva, e quindi progressivamente anche la capacità,
di analizzare gli aspetti più complessi e più
affettivamente coinvolgenti dellesperienza vengano in
parte o del tutto atrofizzate. Unaltra conseguenza è
che nel bambino diminuisca o venga meno la capacità di
comunicare costruttivamente con gli altri. Approfondirò
questo punto più avanti, quando parlerò più
in generale della comunicazione adulto-bambino.
Visione meccanicistica
Daltronde questo processo non avviene in un vuoto culturale.
In un articolo intitolato Febbre e videogame, apparso
in una rivista italiana di ampia diffusione, Mensurati (1998)
cita un libro di J. C. Herz, Joystick Nation (1997).
Così scrive la Herz nel prologo del suo libro:
I videogiochi costituiscono una perfetta formazione alla
vita nellAmerica fin de siècle, dove lesistenza
quotidiana richiede labilità di saper analizzare
[...] tipi diversi dinformazioni lanciateci simultaneamente
addosso da telefoni, fax, televisori, cercapersone, agende elettroniche,
sistemi vocali di messaggeria, la posta normale, quella elettronica
in ufficio e Internet. Le notizie internazionali vengono aggiornate
ogni mezzora, e il posto di lavoro ha un piede nel cyberspazio.
Ed è necessario elaborare tutto questo istantaneamente.
È necessario saper riconoscere i differenti modelli in
questo vortice dinformazioni, e in fretta. I nati col
joystick in mano sono avvantaggiati. Checché ne dicano
i polemici luddisti, i ragazzini svezzati a videogiochi non
sono piccoli zombi illetterati [...]. Sono semplicemente acclimatati
a un mondo che assomiglia sempre più a una specie di
esperienza da sala giochi.
Anche se lautrice fa un esplicito riferimento agli Stati
Uniti, le sue considerazioni sono in gran parte valide anche
per le altre società occidentali, dove il modello di
vita americano è diventato sempre più pervasivo.
Senza voler toccare, ad esempio, nemmeno marginalmente il problema
delicatissimo e concretissimo del ruolo del virtuale nello sviluppo
della personalità di un individuo e il tema del collegamento
tra videogiochi e addestramento al combattimento nella guerra
moderna e tra videogiochi e sviluppo dellaggressività,
le espressioni abilità, lanciateci addosso,
vortice, avvantaggiati, simultaneamente,
istantaneamente, in fretta, ci rimandano a campi
semantici facilmente riferibili alla competizione, allo sport
agonistico, alla guerra, allo sviluppo di capacità prevalentemente
tecniche. Queste capacità sono fondamentalmente legate
alla prontezza di riflessi, alla rapidità dellesecuzione
del compito, allefficienza della prestazione in una rincorsa
conformistica al successo e alla vittoria su rivali e nemici.
In questo contesto il significato del compito dal punto di vista
etico, metafisico e delle sue conseguenze sul reale benessere
di tutti, è considerato del tutto irrilevante. Si tratta
di una visione essenzialmente meccanicistica dellesistenza,
in cui le informazioni significative che arrivano al cervello
sembrano ridursi per lo più a quelle che provengono appunto
da telefoni, fax, televisori, cercapersone, agende elettroniche,
sistemi vocali di messaggeria, la posta normale, quella elettronica
in ufficio e Internet. La velocità nellinterpretazione
degli stimoli e nellelaborazione delle risposte agli stimoli,
il passaggio rapido da un compito a un altro, il ritmo martellante
dellavvicendarsi delle nuove informazioni, sembrano scandire
i tempi che fanno da sfondo alla vita. Nonostante le numerose
critiche che le vengono rivolte da ambienti diversi, scientifici
e non, questa visione dellesistenza si sta consolidando
con sempre maggior forza nelle società occidentali.
Non ci si deve stupire quindi se la depressione, la violenza
e i suicidi sono così diffusi tra i bambini e gli adolescenti
e se permangono livelli disastrosi di primitivismo nei rapporti
affettivi degli esseri umani tra di loro, con gli altri animali
e la natura in genere. Infine, nel brano citato il punto culminante
è costituito dallassimilazione del mondo a una
specie di esperienza da sala giochi e dalla disinvolta
e acritica constatazione dellacclimatazione dei ragazzini
a una tale realtà. In questa prospettiva gli aspetti
alienanti di un mondo divenuto una sala giochi e di conseguenza
i problemi, ad esempio, del dolore, della solitudine e dellincomunicabilità
non sono nemmeno per un attimo presi in considerazione. È
ovvio che questo contesto culturale non favorisce negli adulti
un atteggiamento di interesse e di disponibilità nei
confronti della comprensione del bambino e del suo dolore. È
anche altrettanto ovvio che questo contesto culturale non favorisce
nel bambino un atteggiamento di riflessione e di analisi critica
per quanto riguarda le sue problematiche e quelle dellambiente
in cui vive.
Se la consapevolezza di non essere capito è unesperienza
molto dolorosa per un adulto, tanto più lo è per
un bambino, che ha più bisogno di appoggi, di linee guida
nelle prime fasi della sua scoperta del mondo. Uno degli aspetti
più negativi della nostra società è quello
di non sapere guardare il bambino al di là della facciata
che ci presenta e che spesso noi gli abbiamo costruito, così
che succede che la gente è stupita e costernata quando
un bambino o un adolescente si suicida o è ignara di
quanta sofferenza si nasconde dietro la durezza e lapparente
indifferenza di un baby-killer o di un baby-soldato (Pagani,
2001).
Acquistare consapevolezza del dolore del bambino equivale anche
ad acquistare consapevolezza degli aspetti più dolorosi
e tragici dellesistenza umana e della fondamentale inconsistenza
del mito dellinfanzia come età felice, mito che
gli adulti strumentalizzano per diminuire limpatto del
dolore sulle loro coscienze. Quando si programma la nascita
di un bambino ci si dovrebbe interrogare non solo sulle possibilità
affettive, economiche, di tempo, che siamo in grado di offrirgli,
ma anche sul valore e il significato che attribuiamo allesistenza
umana di per sé, perché è innanzi tutto
lesistenza, intesa in senso metafisico e in senso sociale
(cioè in un dato mondo, in una data epoca storica) che
noi diamo al bambino. Una prospettiva metafisica e sociale è
quella che ci offre su questo tema uno scrittore, Russell Hoban
(1975), autore tra laltro anche di libri per bambini:
Cè chi scrive libri per bambini e chi scrive libri
sui libri scritti per bambini ma non penso assolutamente che
venga fatto per i bambini. Penso che tutti quelli che si preoccupano
tanto dei bambini in realtà si stiano preoccupando di
se stessi, di tener insieme il proprio mondo e indurre i bambini
ad aiutarli in questo compito, indurre i bambini a convenire
che si tratta davvero di un mondo. A ogni nuova generazione
di bambini bisogna dire: Questo è un mondo, questo
è quello che si fa, è così che si vive.
Forse la nostra paura costante è che arrivi una generazione
di bambini a dire: Questo non è un mondo, questo
non è niente, e non cè nessun modo di vivere.
Nei giorni degli attentati terroristici alle Twin Towers e al
Pentagono una parte della società occidentale è
sembrata rendersi tragicamente conto del problema del dolore
dei bambini. Ad esempio, è apprezzabile il fatto che,
due giorni dopo la strage, il 13 settembre, linviato di
la Repubblica a New York abbia dedicato in un suo
articolo un capoverso ai bambini:
A soffrire di più anche se non lo dicono
sono i bambini della città. Molti non sanno che fine
abbia fatto il papà pompiere, la cugina telefonista o
lo zio poliziotto: aspettano e guardano la tv. Molti altri non
riescono a dare una risposta a tanti perché. Perché
i terroristi sono venuti proprio qui? Perché le torri
che erano così solide si sono frantumate? Perché
le scuole sono chiuse? (la Repubblica, 13 settembre
2001)
È apprezzabile anche che negli Stati Uniti più
voci (psicologi, insegnanti, genitori) abbiano sottolineato
la necessità di aiutare soprattutto i bambini ad affrontare
questa drammatica esperienza (cfr. Helping Children Handle Disaster-Related
Anxiety. Medscape News, September 13, 2001).
È auspicabile però che la maggiore consapevolezza
del dolore dei bambini manifestata appunto da una parte della
società occidentale in occasione dell11 settembre
includa il dolore dei bambini di ogni parte del mondo.
Migliori strategie
La psicologia, da parte sua, dovrebbe contribuire maggiormente
a porre in risalto le enormi capacità e potenzialità
affettive e cognitive del bambino e quindi la sua capacità
di sofferenza. E non mi riferisco soltanto ai casi più
vistosi di sofferenza del bambino, ma anche alla sofferenza
di tutti quei bambini che vivono quel tipo di vita che viene
comunemente definito normale. La psicologia, essendo
una scienza influenzata in modi più o meno sottili dallideologia
dominante nelle società occidentali, non si rende sempre
conto in modo adeguato di quanto un bambino normale venga
traumatizzato dalle normali contraddizioni sociali del
nostro tempo. Tra laltro laggettivo normale
dovrebbe essere limitato al campo della statistica e bandito
dal linguaggio corrente, in nome della unicità e della
complessità di ogni singolo individuo e di ogni singola
situazione e perché è un aggettivo fondamentalmente
superficiale, fuorviante e denso di connotazioni che incoraggiano
la passività e laccettazione dello status quo,
percepito come fondamentalmente positivo.
Larte invece, e in particolare la letteratura e il cinema,
ha spesso analizzato con profonda penetrazione il mondo interiore
del bambino e il dolore del bambino in particolare. Mi viene
in mente a questo proposito, per citare solo un esempio tratto
dalla letteratura, un breve romanzo di Henry James, Ciò
che sapeva Maisie (1897). I problemi a cui accennavo prima,
della scarsa o nulla attenzione degli adulti alle domande più
delicate e profonde del bambino, della sua solitudine, della
vastità e complessità delle sue capacità
e potenzialità affettive e cognitive, della sua sofferenza
e del rischio che questo scrigno di ricchezza interiore venga
irrimediabilmente perduto o venga deturpato da un ambiente esterno
corrotto e perverso, sono tutti concentrati con una essenziale
chiarezza nella figura della protagonista, una bambina, Maisie
appunto.
In questa storia, diversamente da quanto ci si potrebbe ragionevolmente
aspettare, dalle burrasche e dagli scossoni che accompagnano
i primi anni di vita della bambina, soprattutto a causa delle
liti furibonde dei suoi genitori, che vivono separati, del loro
atteggiamento irresponsabile e patologicamente traumatizzante
nei suoi confronti e dei comportamenti falsi, volgari e superficiali
di molti adulti che ruotano intorno a lei, Maisie uscirà
illesa, anzi con una capacità di percezione, di analisi
e di elaborazione della realtà estremamente acuita. Perché
se è vero che lo sviluppo di un bambino che cresce in
una famiglia caratterizzata da mancanza di affetto, da aggressività
nei rapporti interpersonali, dallassenza di un supporto
adeguato che gli venga fornito nellelaborare i dati dellesperienza,
in generale subirà rallentamenti o distorsioni più
o meno gravi, è anche vero che esistono dei bambini i
quali, nonostante queste premesse negative, sono in grado di
manifestare atteggiamenti e comportamenti di profonda empatia
e notevoli capacità cognitive. Probabilmente, proprio
perché conoscono gli effetti devastanti dellaggressività
e della solitudine affettiva, questi bambini sviluppano una
reazione di rifiuto nei confronti di scelte distruttive e manifestano
una profonda maturità nei loro pensieri, nei loro giudizi
e nei loro affetti. La ricerca psicologica dovrebbe analizzare
con maggiore attenzione lo sviluppo della personalità
di questi bambini e il ruolo eventualmente svolto da figure-chiave
al di fuori della famiglia (un amico, il genitore di un altro
bambino, un insegnante). Forse in questo modo potremmo individuare
con più chiarezza i fattori che promuovono lo sviluppo
dellempatia e quindi elaborare migliori strategie per
favorire questo sviluppo.
Per ritornare alla letteratura, vorrei citare alcuni frammenti
tratti appunto da Ciò che sapeva Maisie. James
tra laltro penetra nel mondo interiore di questa straordinaria
bambina con grande delicatezza e profondo rispetto:
[...] era cresciuta in mezzo a delle cose riguardo alle
quali ciò che aveva soprattutto imparato era che non
doveva mai fare domande.
[...] la vita era un corridoio lungo lungo con tante porte
chiuse. Aveva imparato che a queste porte era saggio non bussare
[...].
Ricordiamo che Maisie è il pretesto e lo strumento dei
litigi e delle dispute legali dei due genitori. Allinizio
ha una percezione solo confusa di questa specie di gioco perverso
e del ruolo che vi svolge. Ma poi ne diventa progressivamente
e lucidamente sempre più consapevole. Capisce ad esempio
di essere stata usata dai suoi genitori come inconsapevole latrice
di messaggi violenti e volgari tra di loro. Decide allora di
stare fuori dal gioco, usando una strategia ben precisa, quella
di fingersi stupida:
La teoria della sua stupidità, abbracciata alla fine
dai suoi genitori, coincise con un grande evento nella sua piccola
vita silenziosa: la visione completa, personale ma definitiva,
dello strano ruolo che aveva. Fu letteralmente una rivoluzione
morale che avvenne nelle profondità del suo essere. Le
bambole rigide sugli scaffali bui cominciarono a muovere le
braccia e le gambe; vecchie forme e vecchie frasi cominciarono
ad assumere un significato che la spaventò. Provò
una sensazione nuova, una sensazione di pericolo; un rimedio
nuovo sopraggiunse per fronteggiarla, lidea di un io interiore
o, in altre parole, lidea del nascondersi. Comprese da
segni imperfetti, ma con una mente prodigiosa, che era stata
fulcro di odio e messaggera di insulti, e che tutto era cattivo
perché lei era stata usata per renderlo cattivo. Le sue
labbra socchiuse si sigillarono con la determinazione di non
voler più essere usata. Avrebbe dimenticato tutto, non
avrebbe riferito nulla, e quando, come tributo al successo dellapplicazione
del suo sistema, cominciarono a chiamarla una piccola idiota,
provò un piacere nuovo e acuto. Perciò quando,
qualche tempo dopo, i genitori, prima luno e poi laltro,
dichiararono davanti a lei che era diventata disgustosamente
stupida, questo non era affatto dovuto al contrarsi del piccolo
corso dacqua della sua vita. Sciupò il loro piacere,
ma in realtà aumentò il suo. Vedeva sempre di
più; vedeva troppo.
Nellanalisi di questa crescita interiore, di questa maturazione
intellettuale, non può sfuggire che questo nuovo stato
di cose, seppure accompagnato da unaumentata soddisfazione
della bambina per le proprie capacità di autonomia, di
controllo, di lucidità, nello stesso tempo prelude probabilmente
anche a una sua profonda e diversa esperienza di dolore, legata
alla solitudine e alla perdita di speranze ed illusioni. Il
problema sempre aperto del rapporto tra conoscenza e sofferenza
entra qui in gioco.
Questo è quello che ci sa dare larte. Ma larte,
per come è strutturata oggi la società, rappresenta
una forza troppo piccola tra le molte altre forze costituite
dalle ideologie dominanti. Vedremo più avanti se, e come
eventualmente, è possibile fronteggiare questa realtà
in modo costruttivo ed efficace.
Amplierò ora alcune riflessioni fatte allinizio
di questo articolo sul rapporto tra la comunicazione delladulto
con il bambino e il tema del dolore del bambino. Per motivi
di spazio mi limiterò alla comunicazione verbale. Sfortunatamente
in molti casi la comunicazione delladulto con il bambino
è inadeguata non soltanto quando le tematiche da affrontare
con il bambino sono collegate alla sofferenza, ma anche quando
sono collegate ad altri ambiti della realtà di livelli
più o meno complessi. I messaggi delladulto al
bambino sono spesso, a seconda dei casi e in gradi diversi,
confusi, fuorvianti, egocentrici, falsi. Frequentemente quello
che il bambino dice non è preso nella dovuta considerazione,
non è analizzato e capito. Ladulto non è
sufficientemente empatico e il suo linguaggio è spesso
metaforico, approssimativo, poco logico, poco coerente, poco
comprensibile. È come se ladulto non fosse in grado
di riconoscere le capacità razionali del bambino o non
volesse riconoscerle. Gli esempi che si potrebbero fare sono
innumerevoli. Per restare nel campo della sfera cognitiva e
non toccare le connotazioni ansiogene di alcuni messaggi del
tutto mistificatori (del tipo Se sei cattivo ti mando
in collegio) basterà citare lesempio delleducazione
religiosa.
Ma è peccato, è peccato
Spesso le religioni si basano su principi filosofici astratti,
su dogmi, su concetti per loro stessa definizione non dimostrabili
empiricamente. Il bambino, che sviluppa la sua capacità
di ragionare partendo dai dati concreti dellesperienza
(in questo modo cerchiamo di insegnargli la matematica, le scienze,
la storia, e così via), si trova più o meno irretito
in una trama di idee e di immagini complesse, talvolta contraddittorie
(laldilà, dio, il diavolo, gli angeli, linferno,
lanima, il peccato) che non riesce ad elaborare e ad assimilare
liberamente e autonomamente ma che invece gli vengono presentate
come realtà precostituite, scontate. Quindi i bisogni
del bambino di chiarezza, di concretezza e di conoscenza vengono
verosimilmente frustrati. È chiaro che latteggiamento
degli adulti in questo campo può essere definito autoritario
e violento, anche se per tradizione non è in genere considerato
tale.
Una madre araba, che abita con la famiglia in Italia e il cui
bambino frequenta lasilo, ha risposto così al figlio,
che le chiedeva perché non potesse mangiare il prosciutto
a scuola come facevano gli altri bambini: È cattivo
il prosciutto. No, non è cattivo, è
buono ha ribadito il bambino. Ma è peccato,
è peccato ha ribadito a sua volta la madre. Le
risposte a questo bambino non sono diverse per il loro messaggio
di autoritarismo e di irrazionalità (di cui probabilmente
questo genitore, come tanti altri genitori, non si rende conto)
da quelle, ad esempio, di un genitore cattolico a proposito
di altri principi religiosi.
A chi dovesse obiettare che solo in questo modo è possibile
impartire al bambino uneducazione morale, è opportuno
ricordare che esiste anche una morale laica, fondata su principi
di libertà, di tolleranza, di giustizia e di solidarietà,
su principi quindi che ci sembrano utili e giusti per ogni persona.
È una morale che può essere spiegata al bambino
in termini molto concreti (facendogli osservare, ad esempio,
che laltro bambino piange se lui gli dà i pizzicotti)
e sui cui principi si basa una convivenza armoniosa tra gli
esseri umani, come pure tra gli esseri umani e gli altri animali
e la natura in genere. Sono principi che hanno fondamentalmente
lo stesso carattere di essenzialità, di urgenza, di universalità
e di necessità, a livello per così dire di sopravvivenza,
come quelli che impartiamo appunto al bambino nella realtà
quotidiana, in base ai quali, per fare un altro esempio, non
bisogna mettere le dita dentro una presa della corrente o arrampicarsi
sul davanzale di una finestra.
Tra laltro il tema delleducazione religiosa è
collegato a quello dei diritti umani e a quello dei diritti
del bambino in particolare (cfr. Convenzione sui diritti del
fanciullo, 1989; Peens e Louw, 2000a; Peens e Louw, 2000b; Robustelli
e Pagani, 1983), al diritto del bambino di cercarsi una
propria verità, come scrive in una lettera a Camus
(1994) il suo vecchio maestro di scuola a proposito dellinsegnamento
della religione, al diritto del bambino di conquistare la propria
autonomia.
La comunicazione inadeguata delladulto con il bambino
ha spesso, tra i suoi effetti principali, quello di inibire
lo sviluppo della razionalità nel bambino. A sua volta
uno scarso sviluppo della razionalità in molti casi produce
sofferenza perché in questo modo le capacità di
affrontare costruttivamente i problemi della vita, di capire
gli altri e la realtà in genere, vengono ridotte. Negli
ultimi anni è stato giustamente dato ampio risalto alle
capacità di elaborazione fantastica del bambino, collegandole
in particolare allespressione artistica (disegno, pittura,
fiabe, musica, ecc.). È importante tuttavia che venga
dato altrettanto risalto alle capacità tradizionalmente
definite razionali del bambino, alle sue capacità di
elaborare ipotesi, di riflettere su se stesso, sugli altri,
sulla realtà e quindi anche sul problema del dolore.
È importante accompagnarlo in questa sua indagine e aiutarlo
nei limiti delle nostre possibilità.
Qualcuno potrebbe obiettare che anche la razionalità
produce sofferenza in quanto lindividuo razionale non
elabora le sue esperienze con il sostegno offerto da miti, illusioni
o fedi. Ho accennato a questo problema precedentemente, commentando
una citazione dal romanzo di James.
La scelta o meno della razionalità è collegata
al sistema di valori di una società e al sistema di valori
di un individuo. In una società in cui i valori dominanti
sono quelli della solidarietà è verosimile che
la razionalità aiuti gli individui a soffrire di meno.
In una società dominata da un modello di vita competitivo
è verosimile che, ad un certo livello, diciamo più
superficiale, dellesperienza, gli individui soffrano di
meno grazie alla dipendenza da miti, illusioni e fedi. In ogni
modo è nel contesto dei suoi valori personali che in
ultima analisi si inserisce la scelta di un individuo, una scelta
che è possibile operare autonomamente e indipendentemente
dai valori dominanti della società in cui è dato
vivere. È verosimile tuttavia pensare che luso
della razionalità, che implica di per sé ladesione
a stili di vita più costruttivi e solidaristici, a lungo
termine apporterebbe agli individui un maggior benessere psicologico.
La configurazione di questo maggior benessere psicologico è
tuttora solo in minima parte delineabile, in quanto a tuttoggi
per quello che possiamo sapere non ci sono mai stati i prerequisiti
psicologici e sociali per una sua realizzazione. Sarebbe comunque
un benessere collegato al potenziamento delle capacità
cognitive ed affettive e alla diminuzione dei sensi di frustrazione,
di insicurezza e di solitudine.
Nella ricerca e nellanalisi delle cause della sofferenza
in generale e del bambino in particolare la nostra cultura è
rimasta fondamentalmente superficiale. Ci si accontenta in genere
dellevento, della concretezza del dato immediato e non
si va oltre, non si penetra dentro le motivazioni più
profonde degli individui, né si valutano criticamente
i possibili effetti di una cultura sugli individui stessi. Si
mettono a fuoco, ad esempio, a seconda dei casi, il gesto violento,
la percossa, la coltellata, la bocciatura e si ignora la lunga
e complessa sequenza degli atteggiamenti degli individui che
fanno parte dellambiente psicologico del bambino e la
vasta gamma dei condizionamenti culturali.
Comunicazione inadeguata
Che cosa fare per aiutare il bambino nel suo rapporto con il
dolore? La risposta non potrà mai essere del tutto esauriente.
Ladulto stesso non è in grado in molti casi di
capire il perché della sofferenza. Ma certamente qualcosa
si può fare. Alcuni suggerimenti emergono già
dalle considerazioni presentate finora. È necessario
comunque e soprattutto reimpostare il rapporto delladulto
con il bambino. Nel corso della storia questo rapporto è
stato in genere caratterizzato dalla più o meno tacita
convinzione che il rapporto stesso dovesse essere di tipo gerarchico,
basato cioè su una maggiore quantità di potere
delladulto rispetto al bambino. È importante invece
che ladulto consideri il bambino, pur tenendo conto della
diversità delle esperienze e delle competenze, a tutti
gli effetti un individuo alla pari, un compagno di strada,
con cui, nei dovuti limiti e nel rispetto del suo grado di sviluppo
cognitivo ed affettivo, si può e si deve condividere
la riflessione sulla maggior parte delle esperienze fondamentali
della vita. La comunicazione inadeguata delladulto con
il bambino, a cui facevo riferimento prima, è fondamentalmente
legata a questo rapporto gerarchico e quindi distorto. È
inoltre necessario che tutti, bambini e adulti, siano in grado
di analizzare criticamente le ideologie dominanti e quindi i
modelli di pensiero e di comportamento della nostra società,
in modo che si rendano conto di quanto questi modelli condizionino
la nostra visione del mondo in generale e di quello del bambino
in particolare.
Queste riflessioni sul dolore del bambino, in riferimento, in
particolare, alla comunicazione adulto-bambino, alleducazione
religiosa e ai normali condizionamenti culturali in una
società, acquistano, credo, un rilievo ancora maggiore
nel momento storico attuale.
Alcuni anni fa un adolescente di 13 anni con un handicap psichico,
il cui padre aveva ucciso la moglie, la madre del ragazzo, saputo
che mia madre era morta, mi chiese con molta dolcezza dove si
trovasse ora mia madre. Gli risposi che non lo sapevo. Presumo
che questa risposta, che non forniva alcuna certezza sulla sopravvivenza
o meno delle persone morte, gli dava tuttavia la certezza di
un nostro legame affettivo e di un rispetto reciproco sulla
base di una comune sofferenza e di una comune ricerca di significati
in una realtà che non riusciamo a penetrare.
Camilla Pagani
Riferimenti
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