Pensare limmigrazione significa
pensare lo stato, (...) essa costituisce loccasione privilegiata
per rendere palese ciò che é latente nella costituzione
e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò
che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse
a ignorare e lasciare in uno stato di innocenza
o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire ciò
che abitualmente è nascosto nellinconscio sociale
ed è perciò votato a rimanere nellombra,
allo stato di segreto o non pensato sociale.
A. Sayad, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul «pensiero
di Stato»
(
). Alle 9 in punto dal cancello esce il camper che stavo
aspettando, il camper del Naga. Il Naga è una storica
associazione di volontariato che opera a Milano nel campo dellassistenza
socio-sanitaria a immigrati e nomadi indistintamente rispetto
alla disponibilità o meno da parte loro del permesso
di soggiorno (cosa che invece gli ospedali pubblici «per
legge» non possono fare). Pur conoscendo da tempo il Naga,
fino a poco tempo fa sapevo ben poco del Progetto Medicina di
Strada al quale invece, a partire da stasera, ho chiesto di
poter partecipare come osservatore esterno.
Il progetto nasce più di un anno fa sulla base delle
riflessioni e delle analisi statistiche realizzate da alcuni
medici e operatori dellassociazione che hanno rilevato
lesistenza in città di una consistente quota parte
di stranieri che non usufruisce dellambulatorio del Naga.
In particolare si tratta dei gruppi facenti parte della più
recente ondata migratoria, delle etnie arrivate a Milano (e
in Italia in generale) soltanto da poco e nella maggior parte
dei casi per questo ancora sprovviste di relazioni familiari
e di comunità cui appoggiarsi; persone ancora in condizione
di instabilità per quanto riguarda lorientamento
in città prima ancora che per quanto concerne la sistemazione
abitativa, spesso irregolari e quindi nella maggior parte dei
casi costrette a condizioni di vita e di lavoro estremamente
precarie. Per loro dunque il meccanismo informativo del passa-parola
tra connazionali rispetto allesistenza dellambulatorio
non riesce ancora a funzionare al meglio: la sfida per i volontari
del Naga è diventata allora quella di trovare il modo
per non abbandonare a se stesse queste persone.
Una volta costituito allinterno dellassociazione
un sottogruppo dedicato ad occuparsi specificamente di questa
tipologia di pazienti, è stato avviato un lavoro di mappatura
e aggiornamento continuo dello stato di fatto degli insediamenti
abusivi sul territorio di Milano (baraccopoli, case occupate,
fabbriche dismesse, baracche isolate, ecc.). Soltanto dopo aver
raggiunto una quantità soddisfacente di informazioni
a riguardo, in parallelo al lavoro di rilevamento degli insediamenti
(che comunque prosegue) è stato avviato un programma
settimanale di uscite serali con lobiettivo di portare
assistenza sanitaria nei luoghi identificati a mezzo di un camper.
Mi sono reso conto fin da subito che seguire gli operatori del
Naga in questa attività avrebbe costituito unoccasione
forse unica per accedere a questi luoghi, per osservare e tentare
di capire qualcosa di questi ambienti tanto sconosciuti quanto
costretti dallo stato delle cose a rimanere nascosti; prendere
parte alle uscite serali del unità mobile rappresentava
per me una irripetibile opportunità per attraversare
questi territori, queste forme dellabitare e al contempo
per scambiare qualche parola con i loro abitanti disponendo
delle condizioni utili e del tempo necessario per farlo, quello
dellattesa per la visita medica allesterno del camper.
Il camper, donazione di una fondazione, è stato attrezzato
allinterno da parte dei volontari stessi per essere a
tutti gli effetti un ambiente funzionale e al contempo caldo
e accogliente. Le medicine, le schede degli assistiti e la strumentazione
medica necessaria alle visite sono state classificate, ordinate
e ripartite un po ovunque allinterno di scomparti
progettati per tuttaltro uso: nel piccolo frigorifero,
nei cassetti della cucina a gas, nellanta bagno... Ad
ogni uscita lequipe si compone mediamente di cinque volontari,
tra i quali due medici e tre assistenti: questi ultimi si alternano
con turni regolari nellambito di un gruppo che ha precedentemente
seguito un apposito corso di formazione, mentre i medici sono
gli stessi dellambulatorio di viale Bligny che periodicamente
garantiscono la loro disponibilità anche serale.
Silenziosamente nascosti nella città bombardata
Il resto dellequipe attende in piazzale Loreto. La destinazione
delluscita di stasera è lex Magneti Marelli
di via Adriano, in fondo a viale Padova, periferia nord-ovest
di Milano: «Si tratta di una uscita un po particolare»
mi spiega Filippo, uno dei due medici, «perché
solitamente ci rechiamo allinsediamento anche il giorno
prima, di solito la domenica, per presentarci al maggior numero
possibile di abitanti e avvertirli così dellappuntamento
della sera dopo. Invece in questo caso, per una serie di disguidi,
si tratta in realtà della prima volta che ci andiamo.
Abbiamo soltanto appuntamento di fronte al cancello con un abitante
dellinsediamento, un ragazzo ucraino, conosciuto in occasione
della visita ad un altro insediamento». Durante il viaggio,
mentre Filippo è alla guida, laltro medico si prepara
indossando il camice. Nel frattempo gli altri volontari si riferiscono
le ultime novità a proposito dellattività
dellassociazione, confermano o annullano le loro disponibilità
per le prossime uscite e cercano di individuare sulla mappa
di Milano dove si collochi linsediamento verso cui ci
stiamo dirigendo: «Dovè?», «Come
ci arriviamo?», «Noo...fino lì in fondo?»,
«Ma» ironicamente uno di loro «perché
sempre così lontano? Perché non occupano mai il
Duomo o non fanno un accampamento in piazza Vetra?» (...).
Sono le nove e mezza quando arriviamo in via Adriano. Un gruppetto
di tre ragazzi ci aspetta di fronte allingresso sigillato
della ex Magneti Marelli, lunica interruzione metallica
di un interminabile muro di cinta che, costeggiando tutto il
marciapiede destro della via, scompare alla vista con lesaurirsi
sul fondo dellilluminazione stradale. Uno di loro è
Vitale, 26 anni, ucraino, laureato al suo paese e da tre mesi
arrivato clandestinamente a Milano alla ricerca di una migliore
sorte rispetto a quella avuta finora. Sarà lui la nostra
guida allinterno dellinsediamento essendo lunico
dei tre che parla un po litaliano. Nessuno dei tre
pare rilassato durante le poche parole che lequipe, guidata
dal medico, cerca di scambiare con loro non appena discesa dal
camper: il camper è infatti molto visibile, attira lattenzione
e lo sguardo di chi passa su di loro che, senza permesso di
soggiorno, necessitano invece di risultare il più possibile
invisibili (soprattutto alla polizia), di non farsi notare e
soprattutto di mantenere nascosto il loro rifugio notturno in
quel luogo abbandonato. Vorrebbero che le visite avvenissero
da unaltra parte, che il camper non sostasse proprio davanti
allingresso dellinsediamento: tuttavia non cè
altra possibilità perché tutti gli accessi allinterno
dello spazio cintato sono sigillati e allontanarsi in gruppo
significherebbe comunque aumentare il movimento visibile lungo
la strada. Lequipe cerca di tranquillizzarli tentando
di spiegar loro che ci sono margini di garanzia sufficienti
a far sì che non debbano preoccuparsi: la polizia conosce
il Naga, sa che presta questo servizio e con essa ci sono accordi
precisi affinché non vi siano interferenze tra le rispettive
attività.
Viene detto loro che bisogna informare tutte le persone che
vivono lì dentro della momentanea presenza dellunità
mobile del Naga. «Si tratta di unoccasione da sfruttare»
prova a spiegare il dottore a Vitale «perché
i medici non potranno tornare qui di frequente: prossima volta
tra due-tre mesi». A giudicare dai loro sguardi sembrano
dubbiosi sulla possibilità di soddisfare tale richiesta.
Le ragioni di tale perplessità, che inizialmente mi è
sembrata francamente inspiegabile se non nei termini delle loro
evidenti difficoltà di comprensione della lingua italiana,
mi si sono rivelate solo successivamente: Vitale e gli altri
abitano nellimmensa ex-Magneti Marelli «soltanto»
da due mesi e pertanto non sono in grado di sapere dove si trovino
tutte le altre persone che dormono lì... «Va bene,
allora andremo insieme a cercarli. Ci accompagnate?» chiede
Filippo. Di lì a cinque minuti entriamo.
Pancia a terra
Lingresso è un buco delle dimensioni di circa
un metro quadrato, al livello del suolo, nel portone metallico
sigillato: probabilmente è il risultato del lavorio di
braccia attente a creare lapertura minima indispensabile
al passaggio sfruttando un foro preesistente nel portone ossidato.
Con meno agilità degli «indigeni» strisciamo
anche noi pancia a terra per entrare. Di colpo, allinterno,
un altro mondo, unaltra realtà, unaltra città.
Nel corso della mia vita non ho mai avuto occasione di trovarmi
fisicamente nel mezzo di una città distrutta e svuotata
per via di un bombardamento, tuttavia ho come limpressione
che limmagine in cui mi sarei imbattuto non sarebbe stata
molto diversa da quella che ora ci trovavamo davanti. Uno spazio
immenso, viali alberati e asfaltati separano lotti di edifici
e palazzine, hangar e capannoni sventrati e in alcuni casi ridotti
a macerie. Buio, pioggia e silenzio; solo il rumore e leco
dei nostri passi che avanzano lungo il primo viale e che quasi
ritmano il movimento dei nostri sguardi alla ricerca senza esito
di qualsiasi traccia di spazio abitato.
Vitale, dirigendo lo sguardo verso una palazzina, con due fischi
cerca di richiamare lattenzione di una famiglia di amici
che si rifugiano in una stanza di quelledificio, al terzo
piano. Soltanto al secondo tentativo la luce di un accendino
si accende dietro ad un pannello di plastica. Le due voci in
ucraino si scambiano alcune battute. Lunica parola che
riusciamo a comprendere è «doctore». «Ha
detto che non hanno bisogno di cure, che stanno bene e che continuano
a dormire» sintetizza Vitale.
Proseguiamo a camminare lungo il viale. Allaltezza della
terza palazzina la nostra «guida» ci fa segno di
attendere e sale scomparendo nel buio delle scale. Poco dopo
torna e riprendiamo il cammino. Al suo nuovo distaccarsi dal
gruppo in direzione di unaltra palazzina decidiamo di
seguirlo e, sebbene si dimostri in parte restio a farci salire,
prosegue con noi al seguito. Illuminando i nostri passi con
la luce di un accendino percorriamo le scale interne, in alcuni
punti ricoperte da macerie. Ogni piano si compone di spazi immensi
coperti ma sventrati sui lati; soltanto alcune parti sono ancora
integre, soprattutto quelle intorno alle scale: stanze probabilmente
un tempo destinate agli uffici dei responsabili del reparto.
Ed è proprio aprendo le porte di quelle stanze che, vincendo
limbarazzo dellintrusione, irrompiamo nei piccoli
rifugi di intere famiglie.
Presenza insolita, pertanto sospetta
La prima porta che il medico del Naga apre svela ai nostri
sguardi un ambiente di pochi metri quadri, interamente ingombro
da una struttura artigianale in legno, evidentemente realizzata
con materiale di recupero, che funge da letto a castello, e
da un altro letto matrimoniale, da qualche ripiano e da un paio
di armadietti e da una lamiera adattata a stufa a legna. La
finestra della stanza è chiusa da alcuni strati di plastica
fissata ai serramenti preesistenti, o almeno a quanto rimasto
di essi. Lambiente interno appare nel suo complesso ordinato;
allinterno unintera famiglia, padre madre e quattro
figli, già nel pieno del sonno. «Dottore
Naga medicine avvocato informazioni»:
bastano queste semplici parole a richiamare lattenzione
e linteresse del padre di famiglia che si alza ed esce
a parlare con il dottore. Muovendoci per tentativi nel buio
delledificio cerchiamo altre porte. Nel frattempo unaltra
porta si apre «da sola»: un ragazzo, sui 25 anni,
si affaccia avendo sentito il vociare allesterno. Anche
a lui viene spiegato il motivo di questa visita ma, in questo
caso, restando al di fuori dalla sua stanza.
Seguendo Vitale scendiamo nuovamente le scale ritornando così
sul viale dove ci trovavamo poco prima. Percepiamo dai suoi
gesti e dalle sue espressioni la volontà di ricondurci
verso lentrata. «Ma non ci sono altri da avvisare?
Noi sapevamo di almeno 100 persone che vivono qui tra ucraini,
moldavi, rumeni, polacchi,...» chiede a Vitale il dottore
del Naga. «È possibile! Ma io non posso sapere
dove si trovano. Io sono qui solo da due mesi. Noi veniamo qua
solo per dormire, di giorno non stiamo qui, cè
chi lavora e chi cerca lavoro. Qua è grande. Bisogna
cercare». Lequipe non si rassegna: è evidentemente
abituata a trovarsi in questo genere di situazioni. Sa di dover
cercare, andare incontro, quasi stanare persone che non si vedono
e non si sentono perché la loro esigenza è proprio
quella di non apparire. In particolare lo spazio di questo insediamento
è grandissimo e, già sgomberato tempo fa, il suo
ripopolamento è nuovamente iniziato, a piccoli gruppi,
soltanto da poco: così forse si spiega lincredibile
dispersione dei suoi abitanti. La presenza di Vitale ci è
tuttavia indispensabile per muoverci allinterno di questo
spazio, per creare un contatto con persone silenziosamente nascoste
per le quali, noi volenti o meno, non possiamo che risultare,
o quantomeno apparire, una presenza estranea, insolita e pertanto
sospetta.
Sullaltro lato del viale una piccola porta. «Proviamo?
Vitale ci accompagni?» dice il medico guadagnando la disponibilità
del ragazzo. Questa volta niente scale: siamo allinterno
di un immenso capannone aperto sul viale parallelo. Leco
dei passi si fa più consistente in quanto ci troviamo
allinterno di un ampio spazio in parte chiuso sui lati.
Illuminando con gli accendini camminiamo per cinque minuti allinterno
alla ricerca di qualche traccia, di qualche luce o di qualche
riferimento utile verso il quale orientare la ricerca. Troppo
grande e poco riparato per poter essere utilizzato come rifugio,
lampio capannone presenta soltanto tracce di un suo utilizzo
come latrina. Un ombra in movimento a qualche centinaia di metri
di distanza sembra essere di qualcuno interessato a capire chi
siamo, mantenendosi però a distanza. Vitale lo chiama
parlando in ucraino. Si ferma. Ci avviciniamo. Non capisce litaliano,
invece intuisce lucraino: è rumeno. Dice di abitare
«qua in giro» senza specificare dove, di non conoscere
nessun altro lì e di non aver bisogno di assistenza sanitaria.
La già difficile comunicazione viene interrotta dallo
squillare del suo telefono cellulare. È ormai ora di
tornare al camper per organizzare le visite di tutti quelli
che, avvisati in precedenza, nel frattempo sono confluiti allingresso
dellinsediamento così come il dottore aveva indicato
di fare. Per tornare allingresso completiamo il percorso
circolare allinterno dellinsediamento: percorriamo
altri viali. Il tono della voce negli scambi di parole mentre
camminiamo si mantiene basso come quello di Vitale: una rispettosa
complicità nel non violare la silenziosità del
nascondiglio, preziosa caratteristica che fa di un luogo abbandonato
un rifugio appropriato allesigenza principale di chi lo
abita, rimanere invisibile. «Questo comunque è
veramente enorme. Ci si potrebbe creare un villaggio...»
è lultimo commento di un volontario dellequipe
guardandosi indietro prima di piegarsi sulle gambe e scivolare
verso lesterno attraverso il buco da cui eravamo entrati
mezzora prima.
Lavoro in nero
Una quindicina di persone, quelle più bisognose insieme
a quelle che hanno avuto maggior fiducia in noi, attendono pazienti
il proprio turno per la visita al di fuori del camper dove,
nel frattempo, i membri dellequipe che non avevano preso
parte alla spedizione allinterno avevano allestito un
banchetto informativo rispetto alle opportunità di regolarizzazione
offerte dalla nuova Legge sullImmigrazione e alla disponibilità
volontaria di alcuni avvocati presso il Naga. Approfittando
delle conoscenze in materia di legislazione sullimmigrazione
che mi derivano dai dieci mesi di servizio civile appena ultimati,
scambio alcune battute con alcuni di loro. Ragazzi e ragazze
dai 24 ai 30 anni, ucraini, tutti di recente arrivo (il più
«italiano» lo è da soli 5 mesi). Molti di
loro non sono nemmeno arrivati clandestinamente: sono venuti
con un normale visto turistico (che dura 2 mesi e non può
in alcun modo essere rinnovato) senza poi aver abbandonato lItalia
alla sua scadenza; molti hanno studiato e due sono laureati,
e, quelli che sono riusciti a trovare un lavoro, sono oggi manovali
e operai generici in cantieri dove lavorano in nero. «Ma
il mio capo non mi vuole regolarizzare! Glie lho già
chiesto molte volte» dice uno di loro quando gli spiego
che per rientrare nei flussi di ingresso (le quote di ingressi
regolari annualmente stabilite con Decreto Legge del Ministero
degli Interni) per il 2001 è necessario che tornino al
paese dorigine con una richiesta di assunzione regolare
da parte di un datore di lavoro italiano. Senza un lavoro regolare
niente permesso, senza permesso niente lavoro regolare è
la solita assurda contraddizione di questa Legge che mi trovo
sempre in imbarazzo a dover spiegare. Dicono che in questo posto,
in questo rifugio, li ha portati un loro connazionale incontrato
in Stazione Centrale, dove ogni domenica si ritrova la comunità
ucraina e dove sono facili ad attivarsi questi meccanismi di
solidarietà reciproca e di mutuo appoggio.
Nel giro di unora le visite sono ultimate: chi necessitava
di cure leggere ha avuto i medicinali necessari e chi invece
aveva bisogno di una visita specialistica o di qualche intervento
ha ricevuto un appuntamento allambulatorio. Ci salutiamo.
I ragazzi guardandosi intorno e controllando bene di non essere
osservati fanno entrare prima le ragazze e successivamente scivolano
anche loro attraverso il buco dingresso a quella specie
di città deserta che è la loro «casa»,
in quelloscuro labirinto dove, una volta dentro, trovarli
non è facile.
Paolo Cottino
Paolo
Cottino è dottorando di ricerca in Pianificazione
e Politiche Pubbliche del Territorio presso lIstituto
Universitario di Architettura di Venezia. A Milano, dove vive,
collabora con lIstituto per la Ricerca Sociale e il Politecnico
sui temi della riqualificazione urbana. Da anni partecipa attivamente
allesperienza collettiva della Cascina Autogestita Torchiera
Senzacqua.
NAGA
Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria e per
i Diritti di Stranieri e Nomadi ONLUS
Viale
Bligny, 22 - 20151Milano
tel. 02 58 30 14 20
fax 02 58 30 00 89
e-mail:info@naga.it
sito: www.naga.it
Tre
storie di frontiera tra le molte che ogni giorno hanno
luogo nelle nostre città: lautorganizzazione
della sopravvivenza in edifici abbandonati delle comunità
immigrate; la spontaneità sociale e la mescolanza
culturale di un mercato di strada informale; lappassionata
battaglia di un gruppo di anziani a difesa di un ritaglio
di terreno trasformato in orto. Spazi trascurati e anonimi
ridefiniti da soggetti collettivi attraverso una sospensione
della «norma» che garantisce una nuova fruibilità
dello spazio. Dal viaggio allinterno di questi
tre mondi il libro trae lo spunto per una riflessione
di carattere più generale sul significato di
questo tipo di comportamenti urbani, che il più
delle volte scaturiscono dalla sinergia tra una condizione
di privazione e lattivazione di una originale
capacità immaginativa e realizzativa di soluzioni
alternative a quelle tradizionalmente previste.
Elèuthera
- 152 pagine, € 12,00, prefazione di Antonio Tosi.
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