Certo, «resistenze»
– al Plurale – può restituire al nostro presente
la complessità di un movimento che l’agiografia
ufficiale ha oggettivamente appiattito e impoverito negli ultimi
decenni ma, più obiettivamente, è per me, portavoce
del Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute, l’occasione
per spiegare che cosa il nostro Comitato si è proposto
sin dalla sua nascita nell’82. In questa ricostruzione
ritroviamo tutte le categorie del pensiero politico occidentale
e le luci e le ombre di una pratica politica che per molti versi
è stata ed è di resistenza. A viverla, qualche
volta a promuoverla, è quella moltitudine di donne prostitute
alle quali ci sentiamo vicine.
Realtà prostituzionale composita
Noi prostitute dobbiamo ogni giorno misurarci con lo Stato,
meglio con i suoi apparati ideologici e di repressione: leggi,
circolari che interpretano le leggi, codici e codicilli e poi
prefetti, sindaci, assessori, poliziotti, preti, giornalisti,
pubblica opinione. Un politico di destra chiama questo mondo
il teatrino della politica salvo poi candidarsi a suo regista
e burattinaio. Più correttamente e più seriamente
il filosofo Debord ha parlato in tempi non sospetti di «società
dello spettacolo», metafora viva per dire il pieno dispiegarsi
della società borghese, il suo pervenire a maturità
sul piano simbolico, economico e politico.
Questo stato, è utile ribadirlo, è liberaldemocratico,
rappresentativo e di diritto ed è nato dall’unità
d’azione fra tutte le forze antifasciste, indipendentemente
dalla loro base di classe.
È stata una peculiarità della nostra resistenza,
infatti, l’aver messo in secondo piano l’aspetto
di classe della lotta contro il nazifascismo per esaltare invece
l’aspetto nazionale.
Questa osservazione ci spinge a definire la qualità del
soggetto in cui ci riconosciamo. È l’unico modo
per evitare i tanti luoghi comuni sulla prostituzione, soprattutto
la sua riduzione entro lo spazio della marginalizzazione e della
devianza.
Qui da noi in Italia la realtà prostituzionale è
composita: ci sono le prostitute autoctone il cui profilo di
sex worker le avvicina alle nuove figure del lavoro postfordista
e ci sono le prostitute immigrate, tendenzialmente in calo le
prime (coprono a stento il 5% della prostituzione di strada),
in costante aumento le seconde (25.000). Immigrate e migranti,
sempre clandestine, giovani e giovanissime, per queste ultime
l’Europa e l’Italia si presentano come una fortezza
inespugnabile con le sue frontiere di ferro e di cristallo e
la sua legislazione speciale (il sistema Schengen e la legge
40) che abolisce di fatto il diritto d’asilo.
Per costoro la categoria di sex worker è riduttiva perché
altre variabili entrano in gioco, in primis la questione dei
diritti.
Quando la prostituta è la donna migrante, non è
sufficiente l’analisi del contenuto del suo lavoro, del
suo spazio, del suo tempo, della forma della sua retribuzione,
della sua identità professionale, del mercato entro cui
viene a collocarsi.
Sono anni che il nostro Comitato tenta di proporre un diverso
paradigma concettuale per dislocare l’analisi sul terreno
minato del rapporto con lo Stato. Le osservazioni che seguono
sono punti irrinunciabili della nostra riflessione.
Fitta rete di controllo
La prostituta migrante non trova rappresentazione alcuna nello
Stato: bollata come clandestina, per lo Stato e la sua amministrazione
non esiste. Questa condizione non contraddice la sua realtà
lavorativa: è sulla strada, esposta e visibile e contata
come tale. L’appartenenza alla società –
appartenenza che non è inclusione – deriva alla
prostituta immigrante dalla sua esposizione. La sua appartenenza
suscita inquietudine e preoccupazione. È questo il motivo
per cui viene ricondotta entro una fitta rete di controllo e
di repressione. È la stessa situazione in cui sono immersi
i profughi, gli apolidi, tutti gli immigrati extraeuropei ai
quali non vengono riconosciuti i diritti degli autoctoni e per
i quali vale una sola legge: essere fuori legge.
• Extra legem: questa condizione è prodotta e voluta
dal potere sovrano. È lo Stato a decidere la messa al
bando di questa figura di migrante per la quale solo la categoria
di “nuda vita” è adeguata. Infatti la vita
senza diritti è nuda perché solamente il godimento
dei diritti e in – primo luogo quello di cittadinanza
– offre la garanzia di inclusione in una qualche comunità
entro cui la vita prende forma. Parlandoci dello schiavo, Aristotele
sottolinea che un suo tratto peculiare è il difetto di
parola, la sua incapacità o impossibilità a dire
e a comunicare. Nell’agorà non ci sono schiavi
ma solo cittadini ai quali il potere sovrano riconosce intelletto
e logos. Lo schiavo invece è muto, irrapresentabile ed
invisibile: semplice corpo. Il corpo, cui la nuda vita è
consegnata è così sottratto alla presa del diritto
e reso disponibile ad ogni forma di violenza, di manipolazione,
di mutilazione, di segregazione, di negazione. Corpo sacro,
dunque, nel significato che Agamben assegna a questo aggettivo.
L’insignificanza della nuda vita procede dalla sanzione
legale dell’esclusione.
• Paradossalmente nella situazione di solitudine e di
abiezione in cui versa, la prostituta migrante finisce per consegnarsi
al potere sovrano alla sua convocazione, alla sua sentenza;
si tratta di una disponibilità senza contropartita: denuncia
il tuo sfruttatore, abbandona la strada, redimiti e si vedrà.
• È possibile sciogliere diversamente questo nodo
gordiano di nuda vita e sovranità? È pensabile
liberare la prostituta migrante aprendole una qualche via al
di là del suo abbandono alla legge? A quale pensiero
politico fare appello per cercare ed eventualmente trovare una
risposta che sia all’altezza della situazione? La grande
costellazione concettuale che da Aristotele arriva fino a Marx
non è granché utile al nostro scopo perché
finalizzata a teorizzare un potere sovrano che decide del bando,
dell’esclusione come dell’inclusione. Per questo
motivo le teorie politiche classiche sono teorie della relazione:
suddito-Stato; società civile-Stato; classe-Stato. Noi
invece avvertiamo l’urgenza di un pensiero impolitico
che pensi ad una politica sciolta da ogni bando e di una pratica
politica di rottura della relazione. All’abbandono alla
legge che, come chiarisce il racconto di Kafka, è sempre
un esporsi impotente davanti ad essa, vorremo opporre un diverso
e più salutare contegno: la defezione, l’esodo.
• Negli anni ’70 l’Italia è stato il
laboratorio eccezionale di pratiche politiche sovversive spesso
incomunicabili tra loro. Da una parte la galassia variegata
dei gruppi di estrema sinistra che ha cercato il rapporto con
lo Stato in un’ottica neoleninista e neoresitenziale di
confronto-scontro diretto fino al suo esito terroristico; dall’altra
parte il movimento delle donne, decentrato privo di leaders
e di autorità centrali. Non ammaliato dal fascino del
potere sovrano né afflitto dal risentimento e dall’odio
nei suoi confronti, il movimento delle donne è stato
capace di strappargli divorzio e aborto assistito nonché
un generale avanzamento sul terreno della legislazione sul lavoro.
La sua pratica ha evitato il furore giacobino della P38 come
l’opportunismo parlamentare, ossia la tentazione a costituirsi
in rappresentanza politica di interessi sociali. La nostra tesi
è che in quegli anni difficili e fecondi solo il movimento
delle donne ha riproposto in termini nuovi la questione della
democrazia: come far sì che lo Stato si limiti
a sanzionare l’universalità di ciò che un’esperienza
propriamente politica (nella fattispecie quella delle donne)
rende possibile, senza che questa esperienza miri a sostituirsi
allo Stato. La distanza tra questa pratica politica
e lo Stato è comunque incolmabile: la democrazia misura
tale distanza.
Carattere di universalità
Il nostro Comitato si batte, dobbiamo ricordarlo, per i diritti
civili delle donne che si prostituiscono, immigrate ed autoctone.
Pensiamo di restare fedeli alla lotta delle donne restituendo
alla categoria di legge l’imprescindibile carattere di
universalità che le spetta. Non crediamo che una legge
sia tale solo perché chi la promulga o la convalida ha
una forza più o meno costituzionalmente legittimata per
renderla cogente. La legge sul divorzio, quella sull’aborto,
lo statuto dei lavoratori e delle lavoratrici hanno avuto un
carattere di universalità tale da trascendere l’autorità
di questo o quell’esecutivo. La stessa valutazione diamo
della legge Merlin che ha cancellato la vergogna di Stato delle
case chiuse. Oggi grazie a questa legge le autoctone che scelgono
di prostituirsi possono farlo, almeno formalmente. Il nostro
Comitato difende questo spazio di libertà contro i tentativi
ricorrenti di azzerare i diritti acquisiti. Ma bisogna andare
oltre: la depenalizzazione deve essere autentica, tale da garantire
il libero scambio di sesso con denaro quando i soggetti sono
consenzienti. E poi tutti devono essere uguali di fronte la
legge e la legge deve essere uguale per tutti. Le donne migranti
che scelgono di prostituirsi e scelgono di lavorare nel nostro
paese devono poterlo fare con gli stessi diritti delle italiane.
Pia Covre
Bibliografia
Debord
Guy, Commentari sulla società dello spettacolo,
Sugarco Edizioni, 1990
Agamben Giorgio, Homo Sacer, Einaudi, Torino
1995
Aristotele, Politica, editori Laterza, 1996
Ravera C., Breve storia del movimento femminile in
Italia, Editori Riuniti, Roma 1978
Braidotti Rosy, Dissonanze. Le donne e la filosofa
contemporanea, La Tartaruga, Milano 1994
Derive Approdi, Settantasette, Castelvecchi,
Roma 1997
Kafka F., Il Processo, Thema Edizioni, 1992
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Giungla
del sesso in Parlamento
Le più recenti proposte di legge sulla prostituzione
Non
ci si muove facilmente nell’intricata selva di proposte
per la regolamentazione dell’esercizio della prostituzione
in Italia. Si parte da una situazione di fatto: l’applicazione
della cosiddetta legge Merlin (20 febbraio 1958, n.75)
che ha chiuso le case di tolleranza vietando l’esercizio
della prostituzione in luoghi chiusi, e che penalizza
le prostitute che lavorano all’aperto ritenendo
illegale l’adescamento; la legge Merlin ha comunque
impedito l’introduzione di misure come la schedatura
obbligatoria e il trattamento sanitario obbligatorio,
che invece rispuntano fuori in recenti proposte di legge.
Tralasciamo la descrizione della famosa proposta Pittelli
(Forza Italia), approvata dal Consiglio dei ministri (dic.
2002) e quindi giunta alla discussione alla Camera (Commissione
giustizia) come A/C 3826 a firma Fini, Bossi, Prestigiacomo,
Castelli, Pisanu, Tremonti, della quale parla Pia Covre
nel suo articolo.
Consideriamo invece le proposte precedenti, fonte di informazioni
sulla mentalità dei “nostri” parlamentari.
La protezione della salute del cliente, soggetto principe,
è uno dei punti centrali di molte proposte di legge:
la prostituta viene presentata come portatrice di pericolosità
sociale in quanto possibile veicolo di infezione per clienti
forse inesperti, frettolosi, o cretini. Inutile dire quindi
che sono le proposte del centrodestra italiano che insistono
maggiormente su questo punto: la proposta C.2359 (Lega
Nord) prevedeva la schedatura sanitaria obbligatoria per
le persone sulle quali esistesse “il fondato motivo
che esercitino la prostituzione”. Il trattamento
sanitario qui si prevede obbligatorio anche per il cliente
ma solo se colto “sulla strada”.
La clausola del TSO è comune a molte proposte di
legge, come questa, che prevedono la liceità dell’esercizio
della prostituzione ma solo in luoghi chiusi e “non
esposti al pubblico”. Così la proposta Mussolini
C.407 prevede l’esercizio della prostituzione in
luoghi privati, e con schedatura obbligatoria. Anche la
proposta Buontempo (AN) C.1136 prevedeva che le persone
esercitanti la prostituzione tenessero con diligenza una
scheda sanitaria, esigibile dal cliente, ove fossero annotati
tutti gli accertamenti previsti a scadenza regolare dalle
autorità sanitarie. Non solo, la pena prevista
per chi non accetti il TSO, cioè nel caso gli venisse
riconosciuta una malattia sessuale trasmissibile, è
altissima: sino a sei anni! Più di quella prevista
per chi non regolarizza il “mestiere”. Segno
che il ...diritto alla salute del cliente viene considerata
da AN un bene tra i più preziosi da preservare,
al contrario di altri diritti. Non è previsto ad
esempio che i soggetti possano pubblicizzare la propria
attività, e che possano esercitare in luoghi neanche
“visibili”. La prostituzione deve essere:
invisibile, pulita, numerata...e deve pagare le tasse
(come “lavoratori autonomi”).
Quanto alla libertà di lavorare di questi “lavoratori
autonomi”, al chiuso e nella invisibilità
di case (“condomini d’accordo”, come
anche previsto nell’ultimo DDL), molti progetti
prevedono comunque che vengano pagate le tasse sul reddito....
La proposta Buontempo prevedeva il divieto di qualsiasi
forma di pubblicità, la proposta Mussolini prevedeva
la pubblicità solo a mezzo stampa (?). Riguardo
alla proibizione del “passeggio”, segnaliamo
la verbosità del progetto Foti, C.1355 (AN), che
vietava “qualsiasi atto di libertinaggio prodromico
alla prostituzione”. Anche la proposta Valpiana
vieta nella sua proposta forme di pubblicità “contrarie
alla pubblica decenza” (?).
I politici nostrani insomma vogliono che un soggetto paghi
le tasse ma viva recluso. Una specie di via di mezzo ipocrita
con altre leggi più permissive che hanno introdotto
la figura di “sex worker”, in Olanda e Germania.
Insomma, comunque la si rigiri, la storia di quest’ultimo
disegno di legge sulla prostituzione è affiancata
da progetti di legge innumerevoli e fatti a misura dei
clienti di varia appartenenza politica. Tra questi clienti
anche le associazioni del terzo settore che, secondo vari
progetti, avrebbero dovuto occuparsi di recuperare i soggetti
in questione: si fa dal “settore no profit”
della proposta C.386 Volontè-Buttiglione (UDC),
alle associazioni del volontariato sociale del progetto
Belillo C.2385. È ovvio che anche il “recupero”
va gestito come un mercato possibile fonte di guadagno.
In un caso, il parlamentare si spinge sino a chiedere
che vengano rimosse la “cause di carattere psicologico”
che inducono le persone a prostituirsi (C.1614, Soda,
DS).
Solo in alcuni casi i progetti citano, come lecitamente
presente nei momenti in cui le comunità locali
dovranno decidere ad esempio dei luoghi della prostituzione,
le prostitute: il C.222 presentato da L. Zanella, la proposta
Turco-Finocchiaro C.2150, la proposta K. Belillo C.2385,
proposte quindi le cui relatrici sono donne.
Per quel che riguarda la definizione di “prostituzione”,
abbiamo in questo caso anche una interessante “nuance”
da segnalare tra le proposte C.2358 (relatrice la Valpiana)
e C.2150 (Turco-Finocchiaro): la prima definisce: “fornire
prestazioni sessuali dietro pagamento di un corrispettivo
in denaro”, la seconda “mettere a disposizione
di terze persone ed a fine di lucro il proprio corpo per
il compimento di atti sessuali”. A voi un parere.
F.P.A.
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