Richard
Pinhas “Tranzition”
Eccolo di nuovo, Richard Pinhas. Gli anni gli piovono addosso
sembra senza lasciargli alcun segno sulla chitarra. Ci eravamo
incrociati che bazzicavo in una radio libera, metà
degli anni Settanta: io teenager inquieto e brufoloso assetato
di nuovi panorami musicali, lui solo di qualche anno più
vecchio ma già chitarrista degli Heldon, un gruppo
francese allora mitico che sperimentava miscele d’elettronica
rock e politica radicale (degli Heldon in radio, oltre a un
paio d’album portati chissà da chi, girava un
45 giri autoprodotto a sostegno della Rote Armee Fraktion).
Erano altri anni, è vero: descrivere Heldon con la
testa, gli occhi e le orecchie di adesso è cosa semplice.
Allora non era facile orientarsi nel mare delle suggestioni:
nel rock c’erano persone raggruppate in collettivi militanti
che prendevano il nome di Henry Cow, Amon Duul, Magma, Gong,
Tangerine Dream, Faust che in quel mare scatenavano tempeste.
Tempeste che si mescolavano ad altre tempeste ideologiche
dalle quali spesso non ci si salvava, specie chi faceva fatica
a distinguere i contorni della costa e si aggrappava a un
qualche salvagente chimico, ideologico o mistico, naufragando
disgraziatamente e comunque.
Nel 1973 i due visionari Robert Fripp e Brian Eno, deviando
dalle rispettive rotte di relativa tranquillità creativa
e commerciale, pubblicarono “No pussyfooting”,
gioco di specchi già dalla copertina, un sasso che
increspò quello stesso mare sonoro in un disegno di
cerchi che ha generato miliardi di onde alte e non ha ancora
trovato quiete.
Richard Pinhas non nasconde debiti d’ispirazione a Fripp
(nel corso degli anni, anzi, gli ha dedicato più d’una
partitura), ma ha senz’altro saputo costruire tutt’attorno
al suono della propria chitarra una personalità ed
una credibilità assai solide. Un lungo silenzio negli
anni Ottanta, dopo Heldon, per poi ricominciare col rumore,
coi dischi, con nuovi circuiti elettronici inventati apposta
per depistare e rendere irriconoscibile il suono della cara-vecchia-sei-corde.
“Tranzition”, l’ultimo arrivato, è
frutto di ossessione e di testardaggine. Un gioiello bollente
di sovrapposizioni di suoni, feedback e fantascienza sonica,
cerchi concentrici ipnotici realizzati accostando all’elettronica
ed al computer spettri di voce umana (in “Moumoune girl”
c’è un nastro originale donato a Pinhas da Philip
K. Dick), le ramificazioni deliranti del violino di Philippe
Simon e il rombo di tuono di Antoine Paganotti, batterista
dei Magma.
Da ascoltare e riascoltare stando ben attenti a non farsi
trascinare al largo: “Tranzition” è parte
di una suite in continuo divenire, lunga quanto la vita.
Quelli di Cuneiform, la stessa indie americana che si è
occupata di “Tranzition” (nonchè di molto
altro del backcatalog di Pinhas/Heldon), hanno esplicitamente
a cuore le alterne vicende di certa musica sperimentale, quella
che pur traboccando di intuizioni brillanti e scorie di geniale
radioattività rimane inspiegabilmente marginale.
Il loro catalogo mostra infatti alcuni chiodi fissi: l’innamoramento
per il “progressive” sia storico che contemporaneo
(dai Soft Machine a Robert Wyatt ai Guapo), la non-rassegnazione
allo sprofondamento delle rockavanguardie sonore (da Univers
Zero a Piero Milesi al Science Group), la conservazione della
memoria di opere non-solo-musicali intrise di temerarietà
politica (i jazz collective misti del Sudafrica razzista).
Tutte cose ahimè diversamente destinate alla sepoltura
sotto la polvere del revisionismo, o schiacciate dalla “popular
music” intesa nel senso deteriore ed edulcorato proprio
dell’appiattimento mediatico.
Se aggiungiamo a tutto questo il fatto che vende i suoi cd
a basso prezzo, insomma Cuneiform meriterebbe se non un monumento
almeno una nostra visita al website http://cuneiformrecords.com
dove, siete avvisati, è facile lasciarsi intrappolare
nella giungla brulicante di proposte (centinaia di cd, spesso
di ottima fattura e pregevole contenuto, a partire da soli
4 dollari: alla faccia di chi soffia sul fuoco dei prezzi).
Ne riparleremo presto.
Marco Pandin
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