Sorridono spavaldi,
in posa di fronte all’obiettivo. In altri scatti compaiono
in atteggiamenti scherzosi, talora irridenti, talaltra seriosi
come qualche volta si conviene persino in vacanza. Le foto dei
torturatori di Abu Ghraib colpiscono per la loro terrificante
banalità. I media ci informano che nel mazzo ce ne sono
di "normali", in cui i protagonisti vengono ritratti
in scene da depliant turistico esotico, in groppa a quel cammello
su sui salgono tutti gli occidentali in oriente. Decine di amici
sono tornati da questi viaggi "tutto compreso" con
i propri volti sorridenti/impacciati mentre stanno in groppa
ad un annoiato quadrupede. Magari qualcuno di loro si sarà
anche vergognato in quel momento ma, poi, la prospettiva della
foto ricordo ha fatto superare timidezze e titubanze.
In troppi nei giorni dello scandalo sulle torture ai prigionieri
iracheni si sono affrettati a gridare alto il proprio orrore,
la propria indignazione, per fatti indegni delle democrazie
occidentali, per gesti che ne macchiano la dignità, ne
mettono in discussione l’onore. Il "falco" Donald
Rumsfeld, l’anima nera di George Bush, è stato
obbligato a domandare scusa in diretta TV, promettendo esemplari
punizioni per le mele marce.
Già, le mele marce: i sadici solitari, i mostri da espellere
dal mondo civile, da additare alla pubblica riprovazione, da
allontanare dai propri ranghi. Quelle persone infami che, negli
stessi luoghi in cui il feroce Saddam straziava orrendamente
i propri oppositori, si sono dilettati a umiliare e torturare
altri esseri umani. Esseri umani che una propaganda razzista
induce a considerare alla stregua di sottouomini, inferiori
e cattivi, da trattare come bestie schifose e ridicole, la cui
sofferenza e la cui umiliazione non ci toccano perché
manca la compassione, il comune sentire e sentirsi umani che
ci avvicina agli altri, divenuti simili, carne umana come la
nostra è carne umana.
Presunta superiorità
Non possiamo oggi sapere come si concluderà lo scontro
di poteri che all’interno dell’establishment statunitense
ha reso possibile che le foto delle vacanze irachene di un paio
di secondini abbiano fatto il giro del mondo. Non sappiamo quindi
se George Bush e la sua amministrazione riusciranno a convincere
l’opinione pubblica che le "mele marce" rappresentano
un’eccezione limitata oppure passerà la
tesi che i neoconservatori al governo non sono in grado di controllare
la situazione, al punto di violare le regole del gioco democratico.
Siamo di fronte ad una faida di vertice che, comunque vada,
non metterà in discussione la legittimità dell’intervento
in Iraq, l’opportunità della guerra infinita al
terrorismo. La tesi di fondo rimane in ogni caso la stessa:
quello che si vede nelle foto di Abu Ghraib, che le "mele
marce" siano poche decine di sadici o il fango arrivi a
lambire il trono di George II, non rappresenta la regola
ma è sempre l’eccezione. Quello che viene
discusso in questi giorni è la portata dell’eccezione,
non la sua natura. La democrazia, e qui starebbe la
sua presunta superiorità, è in grado di correggere
i propri errori, perché sa sviluppare gli anticorpi contro
gli attacchi virali che possono aggredirla. La linea di confine
che rende possibile il permanere dello scontro di civiltà
è sottile ma solida: la democrazia riconosce i propri
errori ed è, quindi, il migliore dei sistemi possibili,
l’unico in grado di garantire libertà e giustizia.
Gli orrori di Abu Ghraib sotto Saddam rappresentavano la norma,
sotto Bush sono un’anomalia correggibile.
Sia che il piccolo George debba a novembre cedere il passo a
Kerry, sia che riesca a rimanere in sella al suo destriero da
cow boy, la democrazia, l’occidente, la civiltà
saranno salvi. Anzi. Risulteranno rafforzati dal superamento
di questa prova. Sino alla prossima eccezione, ovviamente.
Che, perdonate l’ovvia malignità, potrebbe essere
resa pubblica in occasione di qualche altra tornata elettorale.
Come diceva un uomo di potere di buona razza come il Divo Giulio:
"a pensar male si fa peccato ma spesso si indovina".
Ma, allora altra acqua sarà passata sotto i ponti, ed
il sangue lava il sangue. Basta prendere esempio dal buon vecchio
Karol, specialista nel chiedere perdono per le malefatte –
guerre, roghi, torture, persecuzioni – di ieri per poter
meglio accingersi a quelle odierne. Ma qui parliamo di un campione
di equilibrismo, di uomo cresciuto nell’alveo di un’istituzione
millenaria, capace di cavarsela sotto tutti i cieli e in tutte
le stagioni.
Arendt, riferendosi alla spaventosa "normalità"
degli aguzzini nazisti coniò la celebre espressione la
"banalità del male", chiarendo in tal modo
che trattando da "mostri", da "eccezioni terribili",
i torturatori, gli assassini, i genocidi non si faceva altro
che esorcizzare la più terrificante delle verità:
il male non è lontano, estraneo, non è l’orrore
casuale, l’improvviso irrompere della follia che spezza
l’ordine sociale: il male ha il volto del funzionario
che ama i fiori ed i bambini, il volto di una ragazza di vent’anni
che voleva vedere il mondo.
La negazione dell’altro
Il male lo incontriamo ogni volta che qualcuno indossa una
divisa, sia quella dei Marine o la cintura dei kamikaze dello
sceicco saudita più famoso del mondo. Il male lo incontriamo
ogni volta che l’obbedienza e la gerarchia ci impongono
la loro norma. Il male lo incontriamo ogni volta che la compassione
cede il passo alla negazione dell’altro. Il male non è
l’eccezione che rompe l’ordine sociale, ma, nelle
società gerarchiche, è il cardine di quest’ordine,
il perno intorno al quale si avvinghia per esistere.
È questa una verità banale, meno banali sono i
meccanismi che la occultano, frantumandola in una miriade di
narrazioni sulle quale affondano le radici le catene che ci
avvinghiano, qui nell’Occidente democratico, come "là",
dove regnano il fondamentalismo e la tirannide.
La narrazione fondamentalista pur apparendo più lineare,
perché ispirata ad una "verità" trascendente,
tuttavia si nutre dei mille risentimenti che alimentano il suo
crescere come erba reattiva, che costruisce identità
forti nella negazione dell’altro. E, soprattutto, dell’altra.
La guerra all’Occidente non si gioca tanto sul terreno
dei modelli economici o sul piano delle relazioni sociali, ma
nella negazione della libertà femminile, quella libertà
il cui emergere rompe un ordine gerarchico che solo nelle relazioni
tra i sessi trova possibilità di esistere. L’iconoclastia
talebana contro televisori, computer e istruzione scolastica
appare residuale e destinata alla sconfitta di fronte ai telefoni
satellitari della nomenklatura in turbante, mentre la ferocia
contro le donne mantiene una sanguinaria materialità.
L’Occidente appare invece in bilico tra le tentazioni
neofondamentaliste della destra più becera ed irosa ed
il permanere del mito delle libertà democratiche.
Su "La Stampa" del 9 maggio Barbara Spinelli, pur
denunciando la "banalità del male" che abbiamo
di fronte, si abbarbica alla narrazione fondante dell’Occidente,
quella che vuole la democrazia capace di far fronte all’orrore
perché capace di nominarlo, perché vi è
una stampa che lo sa denunciare. È un’affermazione
che si svuota nel momento stesso della sua enunciazione, quando
la stessa Spinelli elenca una lunga teoria di mostruosità
che non hanno quasi trovato eco politica e mediatica: dai massacri
di Mazar-i-Sharif, ai non luoghi della detenzione democratica
come Bagram e Guantanamo, sino agli inascoltati rapporti di
Human Rights Watch sulle "normali" violazioni dei
diritti umani nelle zone di guerra. Chi avesse il coraggio di
guardare in faccia la realtà vedrebbe che le foto di
Abu Ghraib, tolte dagli album personali dei torturatori e pubblicate
sui giornali, non sono altro che campagna elettorale. Pura e
semplice.
Il volto feroce del potere
Forse non è male tornare a quelle foto, a quell’album
dell’orrore. Quelle foto, se osservate con attenzione,
ci mostrano meglio di tante altre il volto feroce del potere.
Sono foto familiari, foto scattate per essere mostrate agli
amici, per documentare una vacanza un po’ speciale. Sono
le foto di secondini per i quali l’abuso è la norma,
come testimonia Mumia abu Jamal, che nel volto di uno dei torturatori
ha riconosciuto uno dei tanti "normali" carcerieri
del braccio della morte dove vive da molti anni. È il
volto di una ragazza di vent’anni che sorride soddisfatta
nell’obiettivo, una ragazza il cui padre porta sull’auto
la scritta "padre orgoglioso di un soldato americano".
È probabile che il secondino e la soldata pagheranno
per quelle foto. D’altra parte le imprudenze si pagano,
specie se sopra di noi c’è qualcuno dannatamente
importante cui bruciano il culo e la poltrona. Forse cadranno
anche altre teste ed in tal modo si porrà fine allo "scandalo".
Uno scandalo che finisce con il coprire, seppellendola, una
realtà ben più terrificante. Fuori dalle mura
di Abu Ghraib soldati americani, inglesi, italiani sparano sulle
ambulanze piene di feriti, mentre cecchini prendono alla testa
due fratellini di 5 o 6 anni. È accaduto a Falluja. Sta
accadendo probabilmente anche adesso mentre scrivo e accadrà
ancora mentre voi leggerete che case vengano rase al suolo da
bombe a frammentazione, che i feriti muoiano di setticemia,
che una donna partorisca da sola al buio perché ai medici
è impedito raggiungerla. È accaduto, sta accadendo,
accadrà. È la guerra. La guerra senza aggettivi.
Senza i belletti di cui la ammantano i professionisti della
penna, gli argonauti della comunicazione di massa, i cicisbei
delle corti dell’Occidente libero e democratico.
Di fronte a questo non si grida allo scandalo, non si invocano
le convenzioni violate, ma, al più, si parla di inevitabili
conseguenze, di effetti collaterali. Guardateli bene: i cecchini
di Falluja, i bombardieri che spianano le case e chi ci abita,
la polizia militare che fa irruzione nell’intimità
delle abitazioni seminando il terrore indossano le stesse divise,
hanno gli stessi sguardi dei "mostri" ritratti nelle
foto di Abu Ghraib.
Se l’Occidente ha ancora una coscienza questa non va ricercata
nelle pieghe e nelle contraddizioni della democrazia reale,
ma tra i tanti che sanno che il male non è l’eccezione
ma la regola. Per frantumare questa regola feroce, la regola
di ogni stato, di ogni fondamentalismo, di ogni esercito, occorre
guardare negli occhi i veri mostri che annientano l’uomo,
che distruggono la dignità, che sottopongono a tortura
i corpi e umiliano le menti. Occorre vedere che lo sguardo di
Lynddie England è lo sguardo di ogni uomo e di ogni donna
che indossi una divisa, che accetti l’obbedienza, che
si pieghi alla gerarchia. Uno sguardo normale, terribilmente
normale in questo mondo mostruoso in cui siamo forzati a vivere.
Maria Matteo
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