riflessioni
Fuori
Premessa
L’attuale modello culturale, sociale, economico è
sostenuto dai comportamenti, nella maggior parte “volontari”,
degli individui. Esso si irrobustisce sulla base delle seppur
piccole azioni quotidiane anche quando esse siano praticate
senza la consapevolezza dei negativi effetti ambientali sociali
comportati.
Appare, quindi, imprescindibile, per chi non voglia sostenere
i processi in corso, non divenire involontario strumento di
sostegno, non solo non aderendo in linea di principio, ma anche
non praticando soluzioni “proposte” per quanto minime
ed apparentemente innocue esse siano.
In sintesi è necessario “chiamarsi fuori”.
Fuori dal mercato
Ogni individuo ha un valore all’interno del mercato globale
ed ogni individuo alla nascita è da esso valutato. Ciò,
per quanto appaia esagerato, afferisce a quelle valutazioni
di potenzialità della domanda che viene compiuta costantemente
da ogni singola azienda e che perviene ad una valutazione unica
in quanto la quasi totalità di tutte le merci e gran
parte degli scambi è promossa e gestita soltanto da duecento
soggetti.
Un bimbo occidentale ricco ha una speranza di vita di ottanta
anni; ottanta anni di acquisti, di merci comprate. Almeno sei
generazioni di computer di telefonini, di televisioni, almeno
otto autoveicoli ed una montagna di alimenti inutili (e nocivi).
Un bimbo africano (asiatico, sud americano, etc..) ha una speranza
di vita di meno di quaranta anni e nessuna possibilità
di diventare un grande consumatore; ma deve comunque mangiare
e quindi rappresenta quaranta anni di semi comprati, quaranta
anni di bisogni primari o negati o fatti pagare.
Per tutti l’imperativo è comprare e vendere, poco
o tanto, comunque sempre sopra dalle proprie disponibilità.
È questo fondamentale per il mercato; vendere di più
di quello che serve, vendere più di quello che si può
comprare; per realizzare tale politica è necessario eliminare
i beni comuni, limitare gli scambi gestiti direttamente dagli
individui, riportare qualunque necessità a merce gestita
nel e dal mercato.
Fuori dal progresso
L’attuale interpretazione del progresso è fondata
sulle merci. Al progresso si perviene, o il progresso si pratica,
se si aderisce al modello unico come ad una fede cedendo alle
lusinghe della finta tecnologia, della borsa che sostiene i
profitti, delle banche, del consumo come passatempo, dell’industrializzazione.
Tutti i caratteri che sostengono i profitti ed il continuo ed
indispensabile incremento del mercato.
Crescita non è sinonimo di progresso; progresso non è
sinonimo di benessere. Anzi, oggi crescita e progresso appaiono
due condizioni portatrici di inutili fatiche e sofferenze.
Fuori dalla velocità
Le scelte condivise hanno tempi di definizione lenti: si deve
spiegare, modificare, convincere e farsi convincere, verificare
la necessità, l’opportunità, i rischi di
danneggiare la comunità e l’ambiente.
Nella società condivisa la velocità delle decisioni
e delle trasformazioni non è un carattere qualificante.
Nella società delle merci la velocità è
indispensabile; essa permette di aumentare i consumi, la produzione
e la commercializzazione delle merci. Ma è anche dato
saliente di un processo decisionale attuato da individui indipendentemente
dai desideri e dalle aspirazioni della comunità.
Fuori dalla rete
L’unificazione dei sistemi di comunicazione e la possibilità
di trattare in tempo reale una enorme quantità di dati
ha aumentato il livello di potenziale controllo di pochi su
molti.
Gran parte delle merci “tecnologicamente innovative”
tende ad aumentare la dipendenza dal supporto informatico ed
a ricomporre l’insieme delle funzioni degli strumenti
utilizzati all’interno di un sistema caratterizzato da
un linguaggio unico.
Dal legame sempre maggiore tra televisione, computer, telefonia,
gestioni immagini, musica, agli allarmi, alla gestione del personale
e degli spostamenti degli autoveicoli si continuano ad omogeneizzare
i sistemi di trattamento dei dati e quindi a facilitare la gestione
delle informazioni.
Tutto ciò avviene per adesione volontaria, tipica dell’affannosa
corsa dei consumatori verso le merci nuove e verso l’immagine
dell’”immateriale” contemporaneità
che le sostiene.
Ma tutto ciò è mosso da un interesse preciso nei
confronti dell’unica funzione non palesata dalla pubblicità,
la funzione che ha originato le merci: controllare.
Un interesse centralizzato che non dovrebbe essere molto lontano
da quell’ambiente militare statunitense dal quale sono
partite tutte le ideazioni e le sperimentazioni di queste strumentazioni
prima di farle divenire merci.
Fuori dalla pubblicità
Nessun artigiano potrà mai fare la pubblicità
alla sua produzione in modo concorrenziale alle grandi imprese
industriali.
La pubblicità, come attualmente interpretata, è
il più sensazionale strumento per accentrare le produzioni
ed i profitti, promuovere la chiusura delle attività
artigianali, ridurre l’autonomia economica delle comunità,
imporre soluzioni tecniche ed economiche.
Fuori dalle informazioni
La società globale è caratterizzata da una quantità
enorme di relazioni, di informazioni, di comunicazioni.
Ogni persona è oggetto di una quantità insostenibile
di stimoli: una ridondanza di informazioni subissate da una
marea di dati inutili, di comunicazioni commerciali e, al tempo
stesso, ogni persona produce informazioni, a partire dalla rituale
domanda “dove sei come stai cosa fai” ripetuta nel
cellulare ogni giorno, per ogni anno, ad ogni ora.
Stimoli continui, puntuali, piccoli o grandi che riducono la
capacità di elaborare, di riflettere, di stare con se
stessi.
Fuori dal riconoscimento globale
In una comunità di dimensioni limitate gli individui
si conoscono tra loro, sono noti gli uni agli altri, e si riconoscono
per quello che sono e che fanno.
Nella società globale il riconoscimento tra gli individui
non è diretto, ma avviene attraverso i media che in questo
svolgono un ruolo attivo di interpretazione delle attività
e degli individui.
Anche in questo caso si tratta di un accentramento delle scelte,
di una mediazione che sottrae alla comunità la possibilità
di scegliere e di riconoscere coloro che per essa ed in essa
sono e fanno.
Fuori dall’anglo americano
L’angloamericano “imprenditoriale” è
il linguaggio usato nel modello globale, ma è anche la
struttura logica a cui afferiscono le regole di comunicazione,
le procedure, i processi logici, che trovano fondamento nella
società globale di cui è linguaggio.
L’adozione (imposizione) della lingua unica, motivata
dalla necessità di ridurre il tempo degli scambi, per
ampliare il mercato, richiede all’intera popolazione planetaria
uno sforzo di adeguamento e la pone in una situazione di disuguaglianza
rispetto a coloro, scarsi trecento milioni, che la praticano
come lingua madre.
Capire ed interessarsi alle diversità, anche linguistiche,
richiede il medesimo sforzo da parte degli interlocutori; l’adeguamento
ad una lingua unica riconosce al contrario una universalità
che favorisce alcuni e penalizza altri.
E ciò è ancor più grave quando le scelte
linguistiche sono favorite, se non imposte, da governi, organizzazioni,
comunità ed individui troppo deferenti nei confronti
di una cultura che è modello né condiviso, né
condivisibile.
Fuori dal futuro
Il futuro è il luogo dove maggiormente ha vinto il modello
praticato.
Non vi è in questo momento alcun progetto sul futuro
che non debba fare i conti con il modello attualmente imperante.
Si potrebbe sostenere che il futuro è il luogo dove trova
migliore e completa attuazione il modello contemporaneo.
Forse perché la sua immagine è prodotta e veicolata
dal mercato, il futuro viene presentato pieno di merci e di
soluzioni tecnologiche, quasi a conferma che la più grande
vittoria del modello è aver conquistato le aspirazioni
degli individui e di averne fatto mercato.
Conclusioni
Il modello praticato non è stato discusso, criticato,
adeguato alle esigenze di ciascuno, ma è stato imposto
dall’incredibile alleanza tra i grandi interessi imprenditoriali
e una minima parte della popolazione dei paesi più ricchi
e potenti dell’occidente.
È un modello economico, militare e culturale imposto
da cui è opportuno, anche nel quotidiano, prendere le
distanze.
testimonianze
Monumenti e ambiente
Rapa Nui è il nome polinesiano di quella che gli occidentali
chiamarono l’Isola di Pasqua. Situata a oltre duemila
miglia dalle coste del Cile, lontana dalla Polinesia, è
stata una delle aree maggiormente studiate da parte di archeologi
per la presenza delle grandi sculture e dai naturalisti per
essere un sistema naturalisticamente molto chiuso.
Nel 1722 i primi esploratori europei così la descrivevano:
“Inizialmente, da una distanza maggiore, la detta Isola
di Pasqua ci era apparsa sabbiosa; il motivo è che avevamo
preso per sabbia l’erba secca, il fieno e la vegetazione
riarsa e bruciata, perché il suo aspetto desolato non
poteva dare altra impressione che di straordinaria povertà
e sterilità”. Sull’isola non vi era un albero
e nessun arbusto superava i tre metri di altezza.
Come illustra, F.J. Broswinner nel suo libro “Ecocidio.
Come e perché l’uomo sta distruggendo la natura”
edito nel 2003 da Carrocci, i botanici moderni hanno identificato
solo 47 specie di piante indigene, quasi tutti graminacee, falaschi
e felci e tra gli animali indigeni non ve n’è uno
che sia più grande di un insetto.
Eppure non è stato sempre così. Gli scavi effettuati
dimostrano che l’isola era ricoperta completamente da
una foresta subtropicale in cui crescevano alberi alti, arbusti,
cespugli, erbe odorose e che essi erano utilizzati per alimentarsi
e per costruire strumenti ed in essa vi era un elevatissimo
numero di specie animali, tra cui uccelli marini, la cui presenza
era tale da poter essere considerato il luogo di riproduzione
più ricco della Polinesia.
Quando sbarcarono i primi Polinesiani circa 1600 fa, quindi,
Rapa Nui era un sistema equilibrato ed ecologicamente molto
ricco; gli abitanti facilmente trovavano quanto gli necessitava
per vivere, e la produzione era direttamente collegata alle
necessità.
La ricostruzione degli eventi, sulla quale concorda la quasi
totalità delle interpretazioni, è che con il tempo
la popolazione aumentò, si iniziarono ad accumulare i
prodotti, a stratificare gerarchicamente la società ed
a dividersi in interessi conflittuali; si dette avvio alla costruzione
delle note statue per propiziare i raccolti e quando, nel XVI
secolo, la popolazione arrivò a 20.000 unità iniziò
una spirale di violenza, guerre, spoliazioni delle risorse non
più sufficienti che portarono al collasso ecologico e
sociale l’isola. Questo deserto trovarono gli olandesi
nel 1722 e, dopo centinaia di anni di schiavitù nelle
miniere cilene, la popolazione era ridotta a 111 individui.
Qui si ferma la cronaca e qui le riflessioni del citato libro.
A noi appare evidente come in quest’isola vi sia una connessione
stretta tra distruzione delle risorse e costruzione dei monumenti.
È questo uno dei pochi casi in cui, in un sistema di
dimensioni ridotte ed a risorse limitate, la popolazione non
abbia trovato forme di limitazione delle nascite e di equilibrio,
seppure artificiale (sfruttamento agricolo), con l’ambiente,
e proprio questo è anche l’unico caso della Polinesia
in cui vi siano dei monumenti che per struttura abbiano necessitato
dell’utilizzazione di una quantità di persone elevata.
Il desiderio di permanenza, la dimensione, il rapporto con il
sito del monumento sono rappresentazione di una società
autoritaria, dogmatica ed autoreferenziata e per questo molto
lontana dalla considerazione degli elementi naturali e dalla
ricerca di un equilibrio.
Il deserto e i monumenti sono due rappresentazioni dello stesso
modello sociale.
osservazioni
sulla contemporaneità
Coltivatori
di riso nel delta del Nilo
Inganni
Nell’immagine dei coltivatori di riso nel delta del Nilo.
Bisogna stare attenti a non farsi ingannare da ciò che
si vede. La non meccanizzazione degli strumenti e il lavoro
manuale non è di per sé un indicatore di malessere;
anzi spesso può nascondere una autonomia culturale e
sociale potenzialmente alternativa al modello globale.
La proprietà dei terreni, l’autonomia produttiva,
la gestione della vendita, la equa distribuzione delle risorse
e degli strumenti sono fattori che non appaiono dalle immagini
ma che, se esistenti, qualificano la vita degli individui e
della comunità.
Da
anni nelle maggiori città cinesi è in corso una
azione di abbattimento degli edifici tradizionali e di ricostruzione
con maggiore densità
Distruggere
per costruire
Da anni una delle aree del pianeta a maggiore sviluppo economico
è la Cina. Da anni nelle maggiori città cinesi
è in corso una azione di abbattimento degli edifici tradizionali
e di ricostruzione con maggiore densità.
L’azione è violenta, rapida, inevitabile. Espropri
delle piccole abitazioni a uno due piani, diffusamente povere,
e sostituzione con grattacieli. È evidente che gli interessi
immobiliari sono enormi: gli appartamenti nelle aree centrali,
in un economia di mercato, hanno valori elevati e fanno recuperare
facilmente consistenti profitti.
A quanto sta avvenendo in Cina gli uomini di cultura occidentale
non sono estranei; essi partecipano direttamente con progetti
di edifici e indirettamente osservando questo sostituzione senza
esprimere giudizi critici, essi sono in realtà il modello
di riferimento.
La gravità di quanto accade non è solo nello spazio
dato alla speculazione ma nei caratteri culturali e sociali
propri della sostituzione.
Si distrugge un modo di esistere gestito, entro i limiti normativi
di uno stato fortemente autoritario, direttamente dalla popolazione
e si costruisce alienando alla comunità la gestione dei
luoghi e destrutturandone le consolidate relazioni esistenti.
La
tendenza è definire spazi perimetrati, al cui interno
viga la proprietà privata
I
giardini privati
La gestione dello spazio esteso è una questione collettiva:
un paesaggio, un prato, un bosco sono la risultante dell’attività
di numerose persone, di interessi, di relazioni.
Nella contemporaneità lo spazio è determinato
dalla sommatoria di parti private tra esse disorganiche, incongrue,
non relazionate.
La tendenza è definire spazi perimetrati, al cui interno
viga la proprietà privata. Come i giardini rinascimentali
indicavano la propria differenza mostrando una natura “domata”
così oggi all’interno di confini si definiscono
spazialità astratte in cui la natura è materiale
di composizione di una realtà che si vuole sottrarre
alle relazioni ambientali e sociali per conformarsi esclusivamente
alla creatività dell’individuo.
Alla proprietà privata corrisponde una cultura privata,
privata anche del senso di appartenenza ad una comunità
e ad un ecosistema.
La
memoria del futuro
Chi transitasse dalle parti dello Stretto di Messina non potrebbe
fare a meno di notare i due piloni addetti al sostegno dei cavi
elettrici che dal continente portavano energia sull’isola.
Portavano perché a ben guardare i cavi non ci sono. Sono
infatti anni che i cavi passano in una condotta sottomarina,
ma i piloni sono rimasti.
Come è mai che degli oggetti che sono alti più
di centocinquanta metri, che sono localizzati con tanta ostentazione
da alterare negativamente la percezione di un paesaggio unico,
nonostante non svolgano più alcuna funzione non sono
stati smontati?
Conservati a memoria di una trasformazione che ha profondamente
alterato la qualità dell’area nonostante, come
dimostrato dai cavi sottomarini, la stessa funzione poteva essere
attuata in maniera più appropriata? o a ricordare gli
effetti che produrrebbe il futuro ponte sullo stretto, a dimostrare
con la loro presenza che il paesaggio è già cambiato,
che una parte dell’impatto è già avvenuto
e quindi a fare abituare alla presenza dei tralicci?
Sembra impossibile ma una cattiva interpretazione del valore
testimoniale dell’opera umana ha supportato il loro mantenimento,
e mentre gran parte dei castelli, dei centri storici, delle
masserie, dei frantoi, delle tonnare, calabresi e siciliane
versa in un totale abbandono le regioni hanno finanziato per
diversi miliardi di lire l’illuminazione notturna dei
due piloni.
Ma c’è anche di più. Nel 2000 sono stati
pubblicati gli esiti del Concorso bandito dal Comune di Messina
“Concorso europeo di idee per la riqualificazione ambientale
e funzionale dell’area di “Capo Peloro”“
(area su cui insiste uno dei due tralicci); al di là
del titolo “ambientale” tutti i progetti vincitori
mantenevano il traliccio, anzi lo ponevano al centro della riqualificazione.
Ed in questo si palesa come il progetto spesso divenga lo strumento
per concretizzare un futuro basato sui limiti e gli interessi
del presente.
Adriano Paolella
antiglo@mclink.it
La prima puntata di questa rubrica, dedicata
a “Energia e comunità”,
è stata pubblicata sul n. 295 di “A” (dicembre
2003-04). La seconda, dedicata a “Governi,
comunità, mutamenti climatici”, è stata
pubblicata nel n. 296 (febbraio 2004). La terza, “Deindustrializzarsi”,
è stata pubblicata nel n. 298 (aprile 2004).
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