Esistono
svariate forme di esercizio del potere, legate ad altrettante
pratiche di violenza necessarie all’imposizione del
potere stesso su insiemi più o meno estesi di individui.
Tra queste le più evidenti e più frequentemente
discusse sono quelle che comportano la sottomissione di grandi
masse al volere di pochi, come ad esempio le guerre o le scelte
economiche di un governo.
Ma esistono anche modi molto più subdoli attraverso
cui l’uomo può limitare la propria e l’altrui
libertà. Tra questi uno dei più radicati è
l’imposizione di definizioni, il costante tentativo
di collocare ogni individualità con la quale si viene
a contatto all’interno di gruppi identificati con modelli
di comportamento e linguaggi ben definiti, differenziati tra
loro attraverso caratteristiche specifiche.
La tendenza a dividere l’umanità in categorie
predefinite deriva direttamente dalla propensione umana verso
la sistematica. È il risultato della necessità
di trovare linguaggi semplificati per la comunicazione, per
la comprensione del diverso. Ma se da un lato una certa classificazione
è indispensabile per garantirsi la trasmissione della
conoscenza, dall’altro un eccesso di rigidità
all’interno degli schemi creati si rivela controproducente
rispetto allo scopo iniziale. Classificare, infatti, significa
anche semplificare: l’infinita complessità di
ogni persona va ridotta a pochi tratti ritenuti essenziali
per garantirne l’appartenenza al gruppo da questi caratterizzato.
E chiaramente semplificando si rischia di perdere l’essenza
stessa di ciò che si tenta di descrivere, la ricchezza
della complessità inclassificabile.
Inoltre da sempre alla necessità di identificare e
identificarsi in gruppi e categorie rigide consegue la repressione
di chi sovverte le aspettative altrui rispetto allo stereotipo
del gruppo assegnatogli o di chi semplicemente non si ritrova
nella definizione che gli altri trovano opportuno applicargli.
Ed è proprio in questo caso che la naturale ed umana
tendenza alla schematizzazione si trasforma in esercizio di
potere. Le categorie da forme di linguaggio si trasformano
in prigioni dove rinchiudere o rinchiudersi per paura dell’altrui
o della propria spesso contraddittoria essenza, o ancora per
garantire la sopravvivenza di un gruppo chiaramente definito
contro tutte le infinite variabili che rischiano di minarne
la rigidità dall’interno.
L’imposizione delle categorie è una forma particolarmente
subdola di potere, difficilmente identificabile poiché
acquisita automaticamente e riprodotta involontariamente da
ogni individuo. Sembra innocua perché legittimata dall’abitudine
e dall’apparente universalità di questo meccanismo.
Le stesse categorie sono delimitate e legittimate da fattori
quali la natura, l’origine antica di caratteristiche
o comportamenti, la tradizione o la cultura di un popolo.
Ma l’assunzione passiva di concetti, il rifiuto di un
approccio critico ad un dato acquisito come valido porta inevitabilmente
all’assolutizzazione dello stesso e alla repressione
di ogni forma di dissidenza.
Imposizione di genere
L’identità di ogni persona è nel suo
insieme oggetto di svariati tentativi da parte dell’intera
società ma anche dello stesso soggetto di definire,
collocare, semplificare ed etichettare in base a standard
socialmente accettati come validi e universali. Uno dei caratteri
dell’identità maggiormente esposti alle pressioni
normalizzanti è il genere sessuale.
Partendo dalle differenze biologiche che determinano la funzione
riproduttiva degli individui le varie culture hanno prodotto,
attraverso i secoli, infiniti codici di comportamento mirati
ad omogeneizzare e semplificare al massimo gli appartenenti
ai due soli generi individuati, femminile e maschile. Tali
codici però non sono la diretta conseguenza delle caratteristiche
fisiche di una persona. La mole di parametri culturali, filosofici
e psicologici implicati nella definizione comune di identità
di genere è stata ridotta e semplificata sulla base
di un banale dato genetico e morfologico: le caratteristiche
degli organi genitali. In sostanza, la binarietà sessuale
impone un rigido sistema di regole di condotta e limita l’espressione
soggettiva semplicemente a seconda che una persona possieda
genitali maschili o femminili.
Non ha senso negare che i meccanismi corporei influenzino
in un certo modo anche la psiche di un individuo. Ma non ha
senso nemmeno affermare che fattori organici abbiano in tutti
i casi la priorità nel determinare le caratteristiche
interiori, per qualcuno anche immateriali della gente.
Imporre a una persona di assumere modelli di comportamento
che non identifica istintivamente come propri è un
grave abuso di potere. Comporta la riduzione della ricchezza
interiore umana alla forma e alle funzioni del corpo, peraltro
ampiamente modulabili.
L’identità di genere viene imposta fin dalla
nascita sulla base delle sole caratteristiche fisiche. Se
un individuo sente di non appartenere al gruppo in cui è
stato inserito può identificarsi con il gruppo opposto
oppure restare “fuori dagli schemi” .
Il termine utilizzato per definire chi non si identifica con
il genere impostogli è “transgender”, distinto
dal termine “transessuale” in quanto comprensivo
di una maggiore varietà di sfumature : il transessuale
di solito è colui che transita completamente da un
sesso all’altro, rientrando alla fine del suo percorso
nello schema binario accettato dalla società. Il transgender
invece rifiuta questo schema a favore della valorizzazione
della sua complessità personale. La categoria transgender
quindi include chiunque si discosta in maniera più
o meno radicale dallo standard di genere, mentre la definizione
di “transessuale” è più specifica.
Le persone transgender dimostrano quanto le categorie “maschile”
e “femminile” non siano dati indiscutibili ma
piuttosto entità costruite, frutto di una semplificazione
arbitraria e ampiamente mutevole. Ma la società è
refrattaria ad ogni tentativo di discussione dei suoi assunti.
Le categorie sono irrigidite e assolutizzate per renderne
più forte l’identità, chiunque tenti di
sovvertirne gli stereotipi viene represso in modo più
o meno violento.
Diritti da conquistare
Il transgenderismo si inserisce perfettamente nel contesto
libertario dell’affermazione dell’individuo contro
le aspettative altrui, contro gli standard del potere costituito,
contro i limiti che l’individuo stesso per paura o insicurezza
può imporre a sé stesso. Chiaramente questo
non significa che chi è transgender sia automaticamente
orientato verso idee anarchiche. Però è evidente
la coerenza della battaglia per il rispetto dei diritti dei
transgender all’interno della lotta anarchica per l’autodeterminazione
dell’individuo.
Solo pochi decenni fa, in Italia, una persona transessuale
poteva essere arrestata e addirittura estromessa dalla sua
città. Negli USA, che ora si impongono come modello
di civiltà e democrazia, ci sono infinite testimonianze
di persone transgender vittime di violenze e umiliazioni inflittegli
per paura della carica rivoluzionaria insita nel loro linguaggio
espressivo.
Anche oggi, nonostante la situazione sia notevolmente migliorata
rispetto al passato, continuano a verificarsi episodi di violenze
contro persone transessuali e transgender. Soprattutto quando
alla non-conformità di genere si associano l’essere
straniero, magari senza permesso di soggiorno.
Inoltre la difformità tra i dati registrati sui documenti
e l’aspetto fisico assunto da una persona transgender
è all’origine di innumerevoli disagi nel mondo
del lavoro, della burocrazia, delle istituzioni e anche della
sanità. Per esempio una persona che sceglie di vivere
ed esprimersi secondo codici di comportamento ritenuti “maschili”
pur essendo classificata come “femmina” troverà
ostacoli enormi per inserirsi nel mondo del lavoro. Dovrà
inoltre sostenere l’umiliazione di una costante e morbosa
curiosità nei suoi confronti a causa della tanto diffusa
quanto infondata equazione transgender = “trasgressione
sessuale”, conseguenza di tanta falsa informazione diffusa
da talk-show e simili sottoprodotti di falsa cultura. Dovrà
soprattutto rassegnarsi a presentarsi con un nome proprio
che esprime inequivocabilmente l’appartenenza ad un
genere o un altro, senza possibilità intermedie ma
soprattutto senza la possibilità di cambiarlo scendendo
a un compromesso con il femminile o il maschile secondo quale
dei due estremi sente più vicino alla sua vera essenza.
L’unica speranza di modificare i propri documenti per
avvicinarli alle proprie caratteristiche reali, in Italia,
è sottoporsi ad un “iter” medico standardizzato
che permette attraverso vari passaggi di transizionare da
un sesso all’altro. Questa procedura implica per prima
cosa un percorso psicologico atto a diagnosticare la presenza
di una discutibilissima “disforia di genere”.
Tale definizione corrisponde al presunto disturbo che affligge
chi non si sente a suo agio nei ruoli di genere imposti e
in molti casi nelle caratteristiche morfologiche legate al
sesso del suo corpo. Chiaramente classificare come malati
o peggio “pazzi” coloro che si discostano dagli
standard è uno dei tanti metodi che un sistema conservatore
può adottare per reprimere le spinte al rinnovamento
che nascono al suo interno.
Una volta diagnosticata la disforia di genere, comunque, è
possibile ottenere l’autorizzazione per assumere ormoni
del sesso opposto a quello genetico, ottenendo così
vari cambiamenti nell’aspetto del proprio corpo, e successivamente
intervenire chirurgicamente asportando le gonadi. Solo così
è possibile ottenere la variazione dei propri dati
anagrafici: nome e sesso. Non esistono altri percorsi per
raggiungere questo obiettivo.
Violazione dei diritti umani
Molte persone transessuali seguono questo iter volontariamente.
Ma altrettante preferirebbero scegliere strade alternative,
evitando o modificando qualche passaggio. Soprattutto sono
molte le persone che rifiutano gli interventi chirurgici ma
che si sentono costrette a sottoporvisi per poter regolarizzare
i propri documenti. Questo può essere interpretato
come una grave violazione dei diritti umani: nessuno può
essere costretto a subire alcun tipo di intervento chirurgico
contro la sua volontà. Il meccanismo per pervenire
alla variazione dei dati anagrafici implica però una
subdola violazione di questo diritto, in quanto costringe
una persona ad operarsi per poter vivere serenamente in una
società dove è necessario essere ben catalogati.
L’unica alternativa per chi non se la sente di affrontare
un intervento chirurgico è vivere in uno stato di semi-illegalità,
con tutto ciò che comporta.
Per questo da un po’ di anni sono nati e si stanno rafforzando
movimenti di persone transessuali e transgender che lottano
per affermare i loro diritti e prima ancora per abbattere
i pregiudizi che da sempre ne contrastano la libera espressione.
Purtroppo sussistono una serie di divisioni interne tra gli
stessi soggetti discriminati, sia all’interno della
comunità transgender sia nel confronto con la realtà
omosessuale, con cui è opportuno instaurare un rapporto
di cooperazione per il raggiungimento dei molti obiettivi
comuni.
Nonostante questo negli ultimi anni la situazione sta cambiando,
c’è molta più apertura soprattutto nel
mondo giovanile. Continuando a lottare sulle tracce di chi
ci ha preceduto, denunciando la violenza subita e affermando
la propria identità con orgoglio, si potranno ottenere
risultati sempre più consistenti su questo ennesimo
fronte di battaglia contro l’imposizione dell’uomo
sull’uomo.