Nel
manicomio e nei bordelli
Mia nonna era un
bel tipo di donna. Si chiamava Flora Tristan. Proudhon diceva
che era geniale. Dato che non ci capisco niente, mi fido di
Proudhon. Inventò un sacco di storie socialiste, fra
cui l’Unione Operaia. Gli operai riconoscenti le fecero
un monumento nel cimitero di Bordeaux.
Paul Gauguin, Avant et après [1903] [trad.
it. in Id., Noa-Noa e altri scritti (1891-1903),
a cura di Duilio Morosini, Bompiani, Milano 1941]
Per alcune settimane,
nel 1839, Flora Tristan si aggira per Londra, si avventura
nei vicoli dei quartieri più poveri e dentro le fabbriche,
nel manicomio di Bedlam e nei bordelli. Dappertutto osserva
con attenzione, riflette, annota.
A differenza del ventiquattrenne Engels che pochi anni dopo,
nel 1844, scriverà La situazione della classe operaia
in Inghilterra, Flora non media le sensazioni che prova
con informazioni di tipo statistico o con letture pregresse.
Semplicemente, prova a entrare “nella stretta e buia
stradina di Bainbridge” e viene colta dalla “sensazione
di paura” e quasi respinta dall’“odore mefitico”;
ma poi prosegue, sospinta dalle sue idee, fino a vedere e
descrivere ciò che la società ufficiale ignora,
o magari nasconde.
Entra anche nelle carceri, Flora, quando finalmente riesce
a ottenere il permesso per farlo, dopo le consuete “innumerevoli
pratiche e reiterate richieste”. Entra anche in quel
Newgate che era stato un fiore all’occhiello
della fase di riforme degli ultimi decenni del Settecento.
Verso la fine del XVIII secolo, lo scrittore francese Louis-Sébastien
Mercier, comparandolo alle terribili prigioni francesi, lo
aveva addirittura descritto come “un capolavoro nel
suo genere” (L.-S. Mercier, Parallèle de
Paris et de Londres, Didier, Paris 1982, p. 160), per
l’equilibrio raggiunto tra sicurezza, differenziazione
dei detenuti e umanità del trattamento.
Flora, come Marx ne Il Manifesto, non è in
genere insensibile al fascino del progresso, non manca di
sottolineare le novità portate dal capitalismo industriale,
anche quando esse si coniugano con lo sfruttamento più
duro. In alcuni brani delle sue Passeggiate a Londra
descrive la “potenza delle macchine”, la loro
“forza iperbolica”, commentando sull’ “immenso
miglioramento che sarebbe potuto derivare un giorno da quelle
scoperte della scienza”. Ma Newgate resta solo
un “grande edificio quadrato” corrispondente a
come “la fantasia si rappresenta la prigione delle epoche
barbare”; un luogo in cui i prigionieri vivono in condizioni
drammatiche e dove regna l’inaudita promiscuità
di “vizio e sventura”, “fame” e “furto”.
Dietro le carceri, insomma, non si cela alcuna potenzialità,
non c’è nulla di positivo da consegnare al futuro.
Flora osserva con distacco i movimenti superficiali della
politica, che è – scrive nell’introduzione
– “solo un potere fittizio”. Compresa la
politica riformatrice. Resta dunque lontana anche da quella
che Foucault ha definito la “critica monotona della
prigione” (M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita
della prigione, Einaudi, Torino 1976), rimane estranea
a quella continua denuncia, nata assieme al carcere, della
sempre incompiuta riforma del carcere. La sua è una
critica più profonda, mira alla base dell’edificio,
ossia all’ordine sociale, e il suo obiettivo è
spingere i lavoratori a prendere coscienza della loro condizione
affinché trasformino alla radice la società
tutta intera.
Rispetto alle prigioni, quindi, il dato centrale non è
nella loro presunta riformabilità come istituzioni,
ma nel ruolo da esse svolto nella criminalizzazione dei bisogni
delle classi lavoratrici, legata all’essenza di un sistema
sociale ed economico che, non potendo rispondere a essi, li
reprime. Tornano alla mente le parole che Emma Goldman avrebbe
scritto diversi decenni dopo nella sua autobiografia: “le
tre settimane trascorse nel carcere giudiziario mi avevano
dimostrato che l’idea rivoluzionaria, secondo la quale
il carcere è un prodotto della povertà, era
una verità inconfutabile e oggettiva” (E. Goldman,
Vivendo la mia vita, la salamandra, Milano 1980,
I, p. 129).
Anche per Flora il carcere rimanda direttamente alla questione
sociale. Eccola dunque riconoscere nel quartiere degli Irlandesi
“il tipo di visi, il genere di espressioni che avevo
osservato nelle prigioni”; eccola tracciare
il percorso che porta le bambine verso la prostituzione, i
vecchi alla mendicità e i bambini ad “avventurarsi
sulla città come uccelli da preda”, “sicuri
di sfuggire all’inseguimento della polizia”.
Non c’è qui alcuna frattura tra “classi
lavoratrici” e “classi pericolose”, tra
forza lavoro sfruttata legalmente e forza lavoro criminale:
una distinzione che si farà strada solo nella seconda
metà dell’Ottocento a livello della retorica
politica.
“Il furto è la logica conseguenza della miseria
attivata al limite estremo” – esclama Flora. Anzi,
il “reato” stesso è segno di reazione e
ribellione contro una situazione intollerabile. Per Flora
la “resistenza all’oppressione” è
un “diritto naturale dell’uomo”
e l’insurrezione, “quando il popolo venga oppresso”,
è un “sacro dovere”. Una ribellione
giusta non perché sia giusto il reato in sé,
ma perché in esso si esprime la rabbia e il rifiuto
spontaneo per un intero universo di sfruttamento. Non è
infatti preferibile una ribellione anche scomposta e individuale
rispetto allo stato di alienazione di quell’operaio
addetto alle fornaci in una delle fabbriche visitate da Flora,
“immobile, con gli occhi fissi a terra, senza neanche
la forza di tergersi il sudore che gli scorreva addosso da
ogni lato”?
Christian G. De Vito
Prigioni*
di Flora Tristan
Avevo sentito versioni contraddittorie sulle prigioni inglesi:
l’interesse che provo per la questione sociale era ulteriormente
accresciuto dal desiderio di chiarirmi i dubbi sulle condizioni
a cui essa era giunta in Inghilterra; tuttavia, poiché
a Londra lo straniero – se non ha il vantaggio di essere
duca, marchese o barone, e di alloggiare in uno dei primi alberghi
della città – incontra estreme difficoltà
a visitare anche le cose più banali, fu solo dopo innumerevoli
pratiche e reiterate richieste che ottenni un permesso per Newgate,
Coldbath Fields e Penitantiary. Indipendentemente
da quelle tre prigioni, ne esistono altre otto, in cui però
la vanità nazionale non lascia penetrare nessun’occhio
straniero, a motivo, a quanto mi hanno assicurato, della loro
apparenza miseranda, della pessima distribuzione degli spazi
interni e, per finire, a causa degli abusi di ogni tipo e della
confusione che regnano in quelle cloache della civiltà.
Newgate presenta un aspetto dei più rozzi. Ah
sì, è proprio così che la fantasia si rappresenta
la prigione delle epoche barbare! Si tratta di un grande edificio
quadrato che chiude un angolo della piazza; è fatto di
pietre di dimensioni enormi, di un nero grigiastro, lavorate
in modo da far l’effetto di una pelle di tigre; esse conferiscono
all’edificio un colore più cupo rispetto a qualsiasi
altro monumento di Londra, e producono un’impressione
terribile. Qualche finestra munita di grosse sbarre di ferro
si distingue a malapena, perché si perde nello spessore
del muro. La porta d’ingresso può essere citata
come un capolavoro di arte carceraria; la quantità di
migliaia di pezzi di ferro inserita nella sua costruzione ha
un che di prodigioso; vorrei poterne dare l’idea al lettore,
per farlo partecipe dello stupore sbalordito in cui la vista
della porta è arrivata a gettarmi! Se la sola vista basta
a sprofondare l’animo del visitatore nello spavento, cosa
deve mai provare l’infelice portato dai suoi crimini in
quella prigione, una volta che l’ammasso di ferro si sia
richiuso dietro di lui e si ritrovi nell’anticamera di
quel carcere pauroso!
[…]
Stavo chiusa a Newgate da più di un’ora,
e lo spasmo da cui ero stata colta fin dall’ingresso nell’arsenale
degli strumenti di tortura era andato aumentando a mano a mano
che penetravo in quell’antro spaventoso, dove vizio e
sventura vivono confusi, dove la fame è assimilata al
furto, e la fierezza d’animo, nobile voce di una coscienza
pura, all’assassinio; lo spasmo da cui ero oppressa era
arrivato a un tale grado di intensità che riuscivo a
malapena a respirare. Eppure, mi restava ancora da visitare
la cappella, il cortile in cui viene eseguita l’ultima
toilette dei condannati, e infine la portafinestra attraverso
la quale essi lasciano la prigione per il patibolo, che mette
fine a quelle esistenze tristi e lugubri, a quelle vite fatte
di ansie, vizi e crimini, di miserie e sventure. In quanto all’infamia
del supplizio, gli esseri avviliti vi sono insensibili e gli
animi grandi la dominano.
La cappella è suddivisa in modo accettabile: circa a
metà altezza, c’è una galleria destinata
solo alle donne; gli uomini stanno nella parte inferiore. Lungo
tutto il giro della galleria sono sistemate delle tende, cosicché
i due sessi non possano vedersi.
Il pew del condannato si trova in basso, addossato
al muro, all’incirca a metà della cappella. Ah,
che cerimonia oltremodo inumana per la chiesa anglicana, che
assurda imitazione del cattolicesimo! A quale scopo torturare
così un disgraziato, fargli rimuginare la morte per la
durata di un giorno e una notte? Che utilità morale ne
deriva alla società?
Alle tre di pomeriggio, alla vigilia del giorno fissato per
l’esecuzione, il condannato viene portato nella cappella
dove deve subire la scena del pew. Il pew
ha una forma rotonda e assomiglia a un pulpito di dimensioni
ridotte; contiene un banco e un inginocchiatoio; per la cerimonia
viene ricoperto da un drappo nero, e il paziente vi entra a
sua volta avviluppato da un sudario nero; è seduto sul
banco e davanti a lui, sull’inginocchiatoio, sta un libro
aperto; la cappella è avvolta nell’oscurità,
rischiarata soltanto da una lampada sepolcrale; tutti i prigionieri
sono presenti e devono seguire a voce bassa l’elemosiniere
che recita le preghiere dei defunti.
Il condannato sta nel pew come in una tomba la cui
pietra sepolcrale resti semiaperta; in mezzo a quegli addobbi
neri, spunta fuori solo la testa. Oh, è uno spettacolo
orribile quella testa, che dà l’impressione di
essere già separata dal corpo! Che spavento esprimono
il pallore, i lineamenti contratti, gli occhi smarriti, i capelli
dritti e il tremito convulso che agita gli addobbi funebri!
Sono terribili a vedersi! È l’agonia di una creatura
umana sepolta viva; sono i rantoli che escono dalla tomba. Quella
lugubre solennità infernale impressiona a tal punto chi
assiste, che molti prigionieri, incapaci di sopportare la scena,
svengono e la cappella risuona di grida terrorizzate. Succede
molto di rado che il condannato resista alla prova fino alla
fine: spesso si è costretti a sorreggerlo e a portarlo
via dal pew in uno stato di completo deliquio. Quando
torna alla vita gli viene annunciato, come fosse un ultimo favore,
che per quella notte avrà a disposizione una lampada
per poter leggere la Bibbia. Che assurdità, che crudele
derisione! Come se, in un simile momento, lo sventurato potesse
leggere o capire il significato di quel che legge. Non sono
forse rarissimi gli esseri superiori, che vedono senza turbarsi
la fine dei propri giorni, in qualsiasi modo essa giunga? Come
sperare quindi che il condannato conservi sufficiente libertà
di spirito per meditare sugli elevati pensieri della Bibbia,
quando ogni quarto d’ora l’orologio di Saint-Paul
gli fa misurare il tempo e contare i minuti che gli restano
da vivere, mentre il suo cervello alterato gli fa balenare tutti
i preparativi dell’esecuzione! Se, all’alba, l’infelice,
soccombendo alla stanchezza e alla sofferenza, è abbastanza
fortunato da chiudere gli occhi, alle cinque viene risvegliato
dal frastuono degli zoccoli dei cavalli e dalle ruote della
pesante e fatale macchina che viene portata fuori dal cortile
vicino per il suo supplizio! Oh, che risveglio tremendo! Da
quel momento, non un solo rumore che non gli annunci l’avvicinarsi
del momento supremo. Alle sei, vengono a prenderlo per portarlo
nel cortile detto degli ultimi istanti: là si
svolge la sua toilette.
Viene spogliato di tutti gli indumenti, poi rivestito con pantaloni
e una lunga blusa di tela grigia, infine gli rasano i capelli.
Durante tutta l’operazione, ha vicino un ministro della
chiesa che lo esorta alla rassegnazione e gli parla delle gioie
di un’altra vita. Una volta terminata la toilette, lo
portano dallo sherif, che lega personalmente le braccia
del condannato. Finiti tutti i preparativi, lo sherif,
il suo aiutante, l’elemosiniere e il condannato si mettono
in cammino e la lugubre processione arriva sulla piattaforma
dell’enorme macchina che domina al centro: là il
boia e gli aiutanti afferrano il condannato, lo mettono sulla
botola, gli passano la corda attorno al collo, gli abbassano
un cappuccio fino al mento e gli mettono un fazzoletto in mano.
Al segnale del condannato, che lascia cadere il fazzoletto,
gli si spalanca sotto i piedi la botola e allora, secondo l’espressione
inglese, viene lanciato nell’eternità.
Flora Tristan
Parrocchia di Saint-Gilles
(quartiere degli Irlandesi)*
di Flora Tristan
La parte iniziale della bella e lunga Oxford Street –
percorsa da una folla di carrozze, via di larghi marciapiedi
e di ricchi negozi – è tagliata quasi perpendicolarmente
da Tottenham Court Road: all’ingresso di quest’ultima
via, proprio di fronte a Oxford Street, troviamo una stradina
quasi sempre ostruita da un’enorme carretta carica di
carbon fossile: essa lascia appena lo spazio sufficiente a far
passare una sola persona, che stia incollata al muro. Quella
stradina, chiamata Bainbridge, è l’accesso al quartiere
degli Irlandesi.
Nessun visitatore penetra nella stretta e buia stradina di Bainbridge
senza provare una sensazione di paura. Non ha fatto dieci passi
e già resta soffocato da un odore mefitico. La stradina,
interamente occupata dal grande magazzino del carbone, risulta
impraticabile. A destra, entrammo in un’altra viuzza non
lastricata, fangosa e piena di pozzanghere dove ristagna l’acqua
nauseabonda di sapone, risciacquatura di piatti e rifiuti anche
più fetidi… Allora fui costretta a superare la
mia ripugnanza e a riunire tutto il mio coraggio per osare continuare
a camminare attraverso quella cloaca e tutto quel fango! A Saint-Gilles,
si resta asfissiati dalle esalazioni: manca l’aria per
respirare, la luce per orientarsi. La misera popolazione lava
personalmente i suoi stracci e li fa asciugare su pertiche,
messe di traverso nelle viuzze, di modo che l’aria e i
raggi del sole sono completamente intercettati. Il fango vi
esala miasmi sotto i piedi, mentre i cenci della miseria vi
sgocciolano sporcizia sulla testa. I sogni di una fantasia delirante
non giungono a uguagliare l’orrore di quella spaventosa
realtà. Arrivata alla fine della via, che non era molto
lunga, sentii la mia decisione vacillare, perché ho forze
fisiche ben inferiori al coraggio; mi si rovesciava lo stomaco
e avevo un forte mal di testa. Esitai se continuare a inoltrarmi
nel quartiere degli Irlandesi, quando di colpo mi ricordai che
mi trovavo in mezzo a esseri umani, in mezzo ai miei
fratelli, fratelli che sopportavano da secoli, e in silenzio,
l’agonia di cui era preda la mia debolezza da neanche
dieci minuti! Superai il disagio; mi vennero in aiuto le idee
che mi ispiravano e mi sentii un’energia pari al compito
che mi ero imposta, ossia di esaminare una a una tutte quelle
miserie. Allora mi dilatò il cuore un’indefinibile
compassione, ma, al tempo stesso, mi sentivo in preda a un oscuro
terrore.
[…]
Immaginatevi uomini, donne, bambini a piedi nudi, che sguazzano
nel fango infetto di quella cloaca; alcuni appoggiati al muro,
in mancanza di sedie su cui stare, altri accovacciati a terra;
bimbi sdraiati in mezzo al fango, come maiali. No, se non la
si è vista, è impossibile figurarsi una
così spaventosa povertà! Un avvilimento tanto
profondo! Una degradazione più totale dell’essere
umano! Laggiù, vidi bimbi completamente nudi,
ragazze e donne che allattavano a piedi nudi, con addosso
solo una camicia tanto lacera da lasciar vedere sotto il corpo,
quasi completamente nudo… vecchi rannicchiati su un po’
di paglia diventata strame, uomini giovani coperti di cenci.
L’esterno e l’interno delle vecchie catapecchie
sono in armonia con gli stracci della popolazione che le abita.
Niente chiude la maggior parte delle porte e delle finestre
di quelle abitazioni: molto raramente sono pavimentate. Dentro,
ci sono vecchi tavoli di quercia fatti in modo rudimentale,
uno sgabello, una panca di legno, qualche scodella di stagno,
una sorta di canile dove giacciono ammucchiati padre,
madre, ragazze e amici: ecco le comodità del quartiere
irlandese! È uno spettacolo spaventoso. Eppure questo
è niente, paragonato all’espressione dei volti!
Sono tutti di una magrezza spaventosa; deperiti, sofferenti,
e pieni di malattie sulla faccia, sul collo e sulle mani; con
una pelle tanto sporca, coi capelli tanto sudici e scarmigliati,
che sembrano crespi come i negri; gli occhi incavati
esprimono un brutale torpore, ma, se vi mettete a fissare
coraggiosamente negli occhi quegli infelici, allora assumono
un’aria meschina da accattoni. Riconobbi il tipo di visi,
il genere di espressioni che avevo osservato nelle prigioni.
Ah, per loro, entrare a Coldbath dev’essere una festa;
almeno, in quella prigione, hanno lenzuola bianche, vestiti
decorosi, letti puliti e aria pura. Come vive quella popolazione?
Di furto e prostituzione. A partire dall’età di
otto o nove anni, i ragazzi vanno a rubare. A undici o dodici
anni, le ragazze sono vendute a case di tolleranza. Tutti, uomini
e donne, fanno del furto una professione. I vecchi si danno
alla mendicità. Se avessi visto il quartiere prima di
visitare Newgate, non mi sarei meravigliata nel venire a sapere
che la prigione riceve da cinquanta a sessanta bambini al mese
e altrettante giovani prostitute. Il furto è la logica
conseguenza della miseria arrivata al limite estremo.
Flora Tristan
* Flora Tristan, Passeggiate a Londra ovvero L’aristocrazia
e i proletari inglesi [1840], ora in Flora Tristan, Scusate
lo stile scucito. Lettere, scritti e diari (1835-1844),
Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2004 (pp. 205, €
10,00).
Collana
“Il risveglio”
Laura
De Marco, Il soldato che disse no alla guerra. Storia
dell’anarchico Augusto Masetti (1888-1966),
prefazione di Fiorenza Tarozzi
Mark
Twain, Alla persona che siede nelle tenebre. Scritti
sull’imperialismo, a cura e con introduzione
di Alessandro Portelli
Errico
Malatesta, Autobiografia mai scritta. Ricordi (1853-1932),
a cura di Piero Brunello e Pietro Di Paola
Ignazio
Silone, Le cose per cui mi batto. Scritti su cultura
e politica, a cura di Alessandro Bresolin
Marie
Louise Berneri e Vera Brittain, Il seme del caos.
Scritti sui bombardamenti di massa (1939-1945), a
cura e con introduzione di Claudia Baldoli
Matteo
Melchiorre, Requiem per un albero. Resoconto dal Nord
Est, prefazione di Francesco Vallerani
Jane
Addams, Donne, immigrati, governo della città.
Scritti sull’etica sociale, a cura e con introduzione
di Bruna Bianchi
Mark
Twain, Paradisi. Istruzioni per l’uso,
a cura e con introduzione di Maria Turchetto
Flora
Tristan, Scusate lo stile scucito. Lettere, scritti
e diari (1835-1844), introduzione, cura e traduzione
di Lina Zecchi
Edizioni Spartaco
corso Ugo De Carolis 18, 81055 Santa Maria Capua Vetere
(CE)
tel/fax 0823-797063, www.edizionispartaco.it,
infowol@edizionispartaco.it
|
|