La Ruche
Con le riserve dettate dalla prudenza e rivolte alla
sicurezza e agli interessi del bambino, il sistema della libertà
non dà che risultati felici. Porta il bambino, giunto
all’età della ragione, all’esercizio delle
facoltà più nobili: l’abitua alla responsabilità,
rischiara il suo giudizio, nobilita il suo cuore, fortifica
la sua volontà, stimola in lui gli slanci più
fecondi e generosi, lo rende consapevole delle conseguenze
dei suoi atti, favorisce il suo spirito di iniziativa, lo
rende dinamico, sviluppa la sua personalità. Costruisce
in modo lento e sicuro un essere degno, privo di arroganza,
fiero, senza boria, intraprendente, rispettoso della libertà
altrui e geloso della propria e dei propri diritti, e pronto
a difenderli. (S. Faure)
Sébastien Faure (1858-1942) è stato uno dei
più importanti educatori e teorici della storia dell’educazione
libertaria, conosciuto soprattutto per la creazione e la conduzione
di quello straordinario laboratorio pedagogico libertario
che è stata La Ruche. Nato da una famiglia altoborghese
filobonapartista e cattolica, ebbe un’educazione confessionale,
e notato fin da giovane per le sue notevoli qualità
intellettuali, entrò nel noviziato gesuita, da secoli
l’esercito spirituale al servizio della Chiesa. Lì
imparò quella retorica che poi utilizzò ampiamente
nella sua fortunata attività di conferenziere libertario
per tutta la vita.
Dal 1904 al 1917, Sébastien Faure affittò presso
Rambouillet un terreno di 25 ettari che comprendeva una grande
casa, diversi edifici, orti, boschi e prati.
Lo chiamò “La Ruche”, l’alveare,
e lì creò il suo laboratorio di educazione libertaria:
un esperimento che ebbe successo a giudicare dalle migliaia
di domande di iscrizione negli anni successivi.
L’ispirazione gli venne dall’opera e dal lavoro
di Paul Robin che a Cempuis aveva fondato un orfanotrofio
modello per l’educazione libertaria alla fine del XIX
secolo.
A La Ruche vivevano una sessantina di persone: quaranta tra
bambini e ragazzi dei due sessi, figli di proletari o orfani,
e una ventina di adulti che avevano scelto di dedicarsi a
tempo pieno a quell’attività.
I bambini per essere ammessi dovevano essere in buona salute,
avere tra i 6 e i 10 anni e dovevano restare fino ai sedici
anni compiuti a La Ruche. Non dovevano pagare alcuna pensione.
Talvolta all’alveare soggiornavano militanti di passaggio,
o esiliati o desiderosi di partecipare a quell’esperimento
rivoluzionario concreto.
Principi ispiratori dell’esperimento di Faure erano
alcuni concetti tipici della tradizione libertaria:
- l’educazione
era considerata uno strumento rivoluzionario fondamentale
per il cambiamento sociale: educare gli individui alla libertà
avrebbe preparato una società più libera;
- in
vista di un’educazione integrale, lo scopo perseguito
era quello di sviluppare al massimo grado tutte le facoltà
del bambino, fisiche, intellettuali e morali: dunque varietà
di occupazioni;
- ai
fini di un’educazione razionale si dovevano bandire
storielle, indottrinamenti vari, e invece portare gradualmente
il bambino a scoprire da sé le verità fondamentali
attraverso l’aiuto degli educatori;
- era
dunque una comunità educativa in cui sperimentare
quotidianamente in ogni attività i principi pedagogici
libertari.
Faure riuscì a far vivere per più di dieci
anni un’impresa del tutto autosufficiente, che si manteneva
attraverso le numerose conferenze da lui tenute in giro per
la Francia, attraverso il lavoro degli atelier interni, soprattutto
la tipografia, e infine grazie a donazioni.
Inoltre ogni anno La Ruche organizzava un viaggio che costituiva
nello stesso tempo una vacanza e un’occasione per altri
introiti: in ogni città che attraversava il gruppo dava
un concerto a pagamento e nell’intermezzo c’era
una conferenza di Faure durante la quale i bambini vendevano
i suoi libri e le cartoline della loro comunità. Fu la
lunga e logorante Grande Guerra a fermare l’esperimento
di La Ruche.
LeSébastien Faure, Ecrits
pedagogiques, Editions du Monde libertarie, Paris 1992.
LeUn bello studio su Faure e
sull’esperienza della Ruche è quello di Roland
Lewin, Sébastien Faure et la Ruche, Édition
Ivan Davy, La Botelerie Vauchrétien 1989.
Sébastien
Faure, fondatore de “La Ruche”
Summerhill
Summerhill è sorta come scuola sperimentale. Ora
non lo è più; ora è una scuola dimostrativa
e dimostra che la libertà funziona. (A. Neill)
È la scuola creata da Alexander Neill (1883-1973)
in Inghilterra (Suffolk) nel 1924, e tuttora attiva sotto
la guida della figlia Zoe Readhead, diventata celebre negli
anni Sessanta sull’onda del movimento antiautoritario
e soprattutto grazie ad alcuni libri dello stesso Neill, che
si è impegnato tutta la vita per far conoscere questa
esperienza straordinaria di scuola comunitaria basata su principi
antiautoritari.
Contestata e idealizzata, Summerhill è stata per anni
un punto di riferimento per quanti nel mondo hanno progettato
e sperato di realizzare una scuola fondata sulla libertà
del bambino.
Neill è stato influenzato da Homer Lane, dalla psicoanalisi
e in particolare dalle idee dell’eretico Wilhelm Reich
sulla sessualità e sulla formazione della personalità.
Soprattutto da quest’ultimo, con cui ha collaborato,
Neill ha assunto l’idea che l’infelicità,
il dolore, l’aggressività, la cattiveria del
bambino sono un risultato dell’educazione autoritaria
e repressiva cui è sottoposto. Con Reich, Neill concorda
su due punti fondamentali: il ruolo della tradizionale famiglia
patriarcale nella formazione del carattere autoritario e la
necessità di superare la repressione sessuale che la
civiltà impone.
Si tratta dunque di modellare una società-comunità
diversa con regole diverse, basata sul principio dell’autodeterminazione
perché i bambini e i ragazzi imparino a comportarsi
in modo diverso.
I principi su cui si basa Summerhill sono teoricamente abbastanza
semplici:
- far
sperimentare al bambino la libertà all’interno
di una comunità protetta: libertà di giocare,
di seguire oppure no i consigli degli adulti, libertà
dal senso di colpa, libertà di seguire oppure no
il programma di studi proposto dalla scuola;
- far
comprendere al bambino l’importanza della responsabilità
all’interno della comunità, attraverso l’autodeterminazione
del gruppo, senza interventi censori e punizioni degli adulti.
A Summerhill ogni settimana c’è una riunione
dell’Assemblea generale e del Tribunale che hanno il
compito fondamentale di regolamentare la comunità,
all’interno della quale gli adulti non hanno privilegi
speciali, se non quelli dati loro dall’esperienza. Molta
importanza viene data alla ricerca individuale, ma senza alcuna
costrizione.
C’è nell’esperimento Summerhill anche una
radice roussoviana. Che cosa accade se i ragazzi, abituati
da sempre a rispettare regole e divieti imposti dagli adulti,
vengono lasciati liberi? Neill nutre una profonda fiducia
nella natura del bambino che nasce buono e viene corrotto
dalla società. Non si può imporre nulla al bambino,
semplicemente perché gli adulti pensano che sia giusto
farlo.
A Summerhill si realizza qualcosa che nella società
mercantile è aborrito: l’improduttività.
Non è obbligatorio frequentare alcuna lezione, non
ci sono lavori e attività cui si deve prendere parte.
Si può giocare tutto il giorno, senza rendere conto
a nessun altro della propria libertà, della propria
capacità di autoregolarsi.
La maggior parte dei bambini e ragazzi che arrivano in questo
mondo nuovo sono del tutto disorientati: devono lentamente
superare l’ansia iniziale per la mancanza di struttura,
di direttive, per l’improvviso vuoto di quel potere
che fin dalla nascita li aveva costretti a determinati comportamenti.
Devono imparare che lì non si è giudicati, si
viene trattati con rispetto, non si è considerati diversi
dagli adulti e si può cercare di seguire liberamente
una propria strada, imparando dagli altri sì, ma partendo
da se stessi. In qualche modo i bambini hanno il lusso di
dedicarsi pienamente a se stessi.
Summerhill è uno straordinario e prezioso laboratorio
di libertà in un luogo chiuso. È un “modello”
di educazione libertaria? No, nel senso che è nata dall’impronta
di Neill e giustamente cerca di conservare la propria diversità;
sì, nel senso che induce a confrontarsi con un modo di
pensare l’educazione che ha come centro la dignità,
il rispetto e la libertà del bambino.
LeAlexander Neill, I ragazzi
felici di Summerhill, Red, Como 2004.
LeAA.VV. (a cura di Egle Becchi),
Summerhill in discussione, Franco Angeli, Milano
1975.
LeIl sito ufficiale di Summerhill
è http://www.summerhillschool.co.uk.
Jasnaja Polyana
L’unico metodo di istruzione è nell’esperimento
e l’unico criterio pedagogico è la libertà.
(L. Tolstoj)
“Un signorotto russo, molto istruito”: così
Proudhon definisce Lev Tolstoj (1828-1910), uno dei più
grandi scrittori di tutti i tempi che, in viaggio per l’Europa,
nel 1861 si reca a trovarlo a Londra. Fervido ammiratore di
Proudhon, deriva il titolo del suo capolavoro dal proudhoniano
La guerre et la paix. Tolstoj, anarchico cristiano,
come si definisce lui stesso, vuole incontrare i grandi punti
di riferimento della cultura europea, ma è anche interessato
a esaminare la situazione dell’educazione e delle scuole
in Europa. Nel 1859 ha infatti dato vita a Jasnaja Polyana
(che significa “prato, radura chiara e serena”),
nella tenuta che ha ereditato dalla madre e a cui sarà
legato per tutta la vita, a una scuola di campagna per i figli
dei contadini. Sono gli anni in cui si discute in Russia sull’abolizione
della servitù della gleba e sulla necessità
e i pericoli dell’educazione del popolo.
Tolstoj assume una posizione per certi versi rivoluzionaria,
per altri reazionaria: si sente investito della missione dell’educazione
del popolo, e continuerà a farlo attraverso i suoi
saggi e i suoi interventi per tutta la vita, ma non vuole
che l’educazione si trasformi in una nuova forma di
servitù per il contadino che finalmente ne sta uscendo
dopo secoli.
Dall’osservazione delle scuole in Russia, ma anche in
Europa, della tristezza quotidiana degli alunni, trae la conclusione
che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel
metodo impiegato e nella struttura. La scuola in qualche modo
uccide la vita ed è proprio dalla vita che nascono
le domande essenziali che suscitano il bisogno dell’educazione.
Tolstoj, osservatore profetico, afferma che è in atto
il tentativo di “meccanizzare l’istruzione”,
in modo che le persone siano sostituibili, sia gli insegnanti
sia gli alunni, e che il metodo resti lo stesso.
Descrive in modo impareggiabile lo “stato scolastico
dell’anima” come uno stato psicologico in cui
le facoltà più elevate lasciano il posto a facoltà
semianimalesche; in realtà si cerca di reprimere tutte
le facoltà più elevate per sviluppare solo quelle
che coincidono con l’ordine scolastico, il terrore,
lo sforzo della memoria e l’attenzione. E finché
non si arriva a questo stadio semianimalesco, ogni alunno
costituisce un’anomalia, appunto non è scolarizzato.
Ogni
studio deve rappresentare solo una risposta alle domande
suscitate dalla vita. La scuola però non solo non
stimola le domande, ma non risponde neppure a quelle sollevate
spontaneamente. La scuola risponde continuamente alle stesse
domande, poste alcuni secoli fa all’umanità
e con le quali il fanciullo non ha niente a che fare.
Tolstoj si cimenta in prima persona non solo come teorico
dell’educazione, ma come maestro. Tiene dei diari, pubblica
dei resoconti sulla rivista che esce con lo stesso nome della
scuola.
La scuola è gratuita e i figli dei contadini arrivano
al mattino dalle loro case, intabarrati, per frequentarla.
Appena entrati si trovano evidentemente in un altro mondo:
un mondo in cui non solo i bambini e i ragazzi hanno dei diritti,
sono ascoltati, trovano stimoli culturali vivaci, ma sono
alla pari con l’insegnante che per scelta non usa alcuna
coercizione su di loro. Nel saggio Caratteri generali
della scuola descrive minuziosamente una lezione.
Tolstoj cerca di demolire tutti i pilastri dell’organizzazione
scolastica: i programmi, gli orari, gli esami, l’età
scolastica, i metodi di insegnamento, l’obbligo scolastico.
Tuttavia il ruolo dell’insegnante resta fondamentale:
in primo luogo perché è centrale il rapporto
diretto che si instaura tra insegnante e allievo; in secondo
luogo perché con la sua attività l’insegnante
può diventare un facilitatore e un catalizzatore dei
processi di apprendimento, che però in ogni caso devono
rispondere ai bisogni dell’allievo e alle sue motivazioni.
A patto però che l’educatore voglia veramente
occuparsi dell’altro che ha di fronte.
L’educazione come normalmente la si intende è
per Tolstoj una forma d’oppressione, la negazione della
libertà dell’altro e l’imposizione di modelli,
concezioni, modi di vivere che indirizzano il bambino verso
un cammino, una strada da noi decisa preventivamente. In più
l’educazione viene intesa per lo più in modo
intellettualistico, come se solo le conoscenze e le nozioni
apprese, il programma in breve, avessero importanza.
L’educatore
è la prima persona vicina su cui fanno le loro osservazioni
e le loro conclusioni, che poi estendono all’intera
umanità. E quanto più quest’uomo è
dotato di passioni umane, tanto più ricche e fruttuose
sono queste osservazioni.
È dall’osservazione della relazione di potere
tra maestro e scolaro, tra genitore e bambino, che nasce l’attenzione
estrema a forme di relazione che salvino l’altro nella
sua individualità e nella sua libertà. Non possiamo
sottrarre del tutto il bambino all’influenza dell’adulto,
facciamo almeno in modo che l’adulto interpreti il proprio
ruolo facendo un passo indietro, ponendo in primo piano le
esperienze e non il proprio narcisismo.
È quella che viene chiamata “educazione negativa”,
una concezione derivata da Rousseau: l’uomo nasce libero
e lo troviamo ovunque in catene. Il giovane contadino viene
un po’ romanticamente visto come un rappresentante dell’umanità
primigenia, capace di incarnare l’unione armoniosa di
verità, bellezza e bene. Se adesso tale atteggiamento
può apparirci mero sentimentalismo, la strada intrapresa
da Tolstoj, anche per l’enorme fama raggiunta da lui
come scrittore, moralista e anarchico, diventerà punto
di riferimento essenziale per tutte le esperienze di scuole
libertarie del XIX e XX secolo.
Ecco, per concludere, una sorta di breve catechismo per i
maestri, una volta tanto:
- È necessaria per insegnare l’adesione
volontaria dell’allievo? Sì e per far questo
è necessario suscitare l’interesse vivo dell’allievo,
guadagnarlo cioè a ciò che si ha da dire.
- Come e che cosa si deve insegnare? Tutto
può essere insegnato, ma al centro dell’insegnamento
sta l’allievo con i suoi bisogni, i suoi ritmi e le
sue capacità.
- Maestro non è colui che sa, ma colui
che ama ciò che fa con i suoi allievi.
LeLev Tolstoj,
Quale scuola?,
Emme edizioni, Milano 1975.
LeLev Tolstoj,
La scuola di
Jasnaja Polyana in novembre e dicembre, in
La scuola
di Jasnaja Polyana e altri scritti pedagogici, a cura di
Ugo Zandrino, Minerva Italica, Bergamo 1965.
Marcello Bernardi
Le limitazioni alla libertà di un bambino sono
giustificate solo quando sono indispensabili per la difesa
della sua persona. Altrimenti sono dei veri e propri attentati
alla sua persona. (Marcello Bernardi)
Marcello Bernardi (1922-2001) in un’intervista del
1987 diceva:
Io non uso il vocabolo pedagogia e per la
verità non uso neanche il termine libertario. Bisogna
però riconoscere che libertario è oggi un termine
indispensabile per indicare un rispetto per la libertà
[del bambino] che altri non hanno.
Pediatra, docente di puericultura e di auxologia all’università,
Bernardi era noto al pubblico italiano soprattutto come l’autore
di libri di grande successo come Il Nuovo Bambino
e Imperfetti genitori rivolti agli adulti, ma scritti
stando dalla parte dei bambini.
Era provocatorio, scontroso, burbero verso quegli adulti che
accusava di distruggere la libertà e la dignità
dei bambini, quei presunti educatori che diseducavano sistematicamente
all’umanità.
I bambini non sono una nostra proprietà privata, sono
piuttosto ospiti che dovremmo trattare con rispetto e con
cura. Invece le cosiddette istituzioni educative, la Famiglia
e la Scuola, in primo luogo, fanno di tutto per impadronirsene,
per controllarli, manipolarli, trasformarli in quei cittadini-modello
amorfi, incapaci di critica, di libero pensiero, di ribellione,
formati a inchinarsi e obbedire, e chiamano tutto questo educazione.
In effetti c’è bisogno di una profonda distorsione
della personalità per accettare la normalità
di questo mondo ingiusto, sempre più inumano, dominato
dalla schiavitù e dalla religione del nostro tempo,
il profitto. Questo adattamento al sistema, questa rinuncia
a sé che chiamiamo educazione produce violenza distruttiva
rivolta contro se stessi e gli altri. È un tema , questo
della distruttività causato da un’educazione
violenta, sviluppato da Erich Fromm , da Arno Gruen e Alice
Miller, tra gli altri.
Per rovesciare tutto questo, bisogna aver ben chiaro prima
di tutto che cosa non è l’educazione:
- Non è condizionamento, nel senso
di un addestramento che produce risposte automatiche; come
già diceva Sébastien Faure dovete scegliere
se educare bambini o addestrare animali; in positivo si
potrebbe dire che l’educazione è la capacità
di comprendere e di sfuggire ai condizionamenti;
- Non è adattamento alle norme che
la società ci propone; adattamento significa un adeguamento
acritico, la rinuncia al cambiamento, rassegnazione di fronte
al mondo e alla società così com’è
e rinuncia alla propria individualità.
- Non è persuasione; si vuol convincere
il bambino ad adottare certi comportamenti;
- Non è formazione: c’è
nell’idea del formare , un modello, uno stampo in
cui si finirà per rinchiudere la personalità
del bambino.
Tutti questi aspetti insieme, condizionamento, adattamento,
persuasione e formazione, costituiscono insieme le operazioni
fondamentali della diseducazione.
In questo senso Bernardi riprendendo il modello dell’educazione
negativa, si pone in contrapposizione alle correnti dell’educazione
libertaria che adottano dei criteri educativi positivi, cioè
che tendono a formare in positivo certi tratti caratteriali,
fisici e morali del bambino.
L’educazione, se proprio si vuol definirla in positivo
è “aiutare qualcuno a evolvere”, senza
dominarlo, né manipolarlo. È prima di ogni cosa
un rapporto umano tra eguali, un rapporto orizzontale, perché
anche quando l’altro è in condizione di debolezza,
ha dignità e diritti pari ai miei e non va dominato,
approfittando della mia posizione di superiorità. L’educatore
dovrebbe mettere a disposizione del bambino gli strumenti
che progressivamente gli servono all’evoluzione, ossia
creare un ambiente favorevole alla sua evoluzione, in primo
luogo dal punto di vista relazionale: affetto, un clima di
fiducia, sicurezza, l’esperienza.
Bernardi pensa in vista di una rivoluzione culturale che non
può che partire da noi qui e ora e che rovesci il mondo
di ingiustizie e di orrori in cui viviamo, e nello stesso
tempo il modello educativo prevalente. Anche per questo conduce
battaglie contro l’educazione sessuale mistificante,
a favore della contraccezione; tiene rubriche sui periodici
in cui discute di più diversi argomenti, proponendo
punti di vista controcorrente, come la difesa dei fumetti
intelligenti (“Si pensi al discorso ecologico e demografico
di Mafalda, che forse è più lucido e incisivo
di quanto non siano i rapporti del MIT”) (Educazione
e libertà), oppure il rifiuto della censura (“ci
sarebbe da stupirsi del fatto che non sia criminale vendere
la Bibbia, la quale contiene parecchio materiale idoneo alla
iniziazione sessuale”).
Nonostante lo sguardo lucido e disincantato sul mondo, che poteva
anche essere molto amaro, Bernardi manteneva sempre accesa la
fiaccola dell’utopia che per un rivoluzionario è
una fede che coincide con la vita stessa.
LeMarcello Bernardi, Educazione
e libertà, De Vecchi, Milano 1980.
LeMarcello Bernardi, Gli
imperfetti genitori, Rizzoli, Milano 1988.
LeRoberto Denti, Conversazioni
con Marcello Bernardi, Elèuthera, Milano 1986.
Il
pedagogista Marcello Bernardi
Infanzia
“Wendy – dice Peter Pan – sono scappato
il giorno in cui sono nato”.
“Scappato? Perché?”
“Perché ho sentito mamma e papà parlare
di quello che sarei dovuto diventare quando fossi stato uomo”.
(William Barrie)
Mai come nel secolo appena trascorso si è dedicata
tanta attenzione all’infanzia. La femminista Ellen Key
intitolava nel 1905 il secolo XX appena iniziato Il secolo
dei fanciulli, un’epoca progressiva in cui l’età
infantile, prima dimenticata o trascurata, sarebbe stata sempre
più al centro dell’attenzione degli adulti, al
centro di teorizzazioni, ricerche, cure, interessi educativi,
sanitari e sociali. Già nel titolo del libro di Key
traspare una fiducia totale nel progresso, nell’evoluzione,
nell’educazione. L’autrice introduceva il suo
saggio con una frase di Nietzsche: “Amate la patria
dei vostri figli, sia questo amore la vera nobiltà,
terra inesplorata nei mari lontani!” (Così
parlò Zarathustra). Così Nietzsche e di
conseguenza la stessa Key mostravano di sapere bene quanto
lontana dalla nostra fosse la “patria dei bambini”.
Allo stesso tempo con fiducioso ottimismo nel progresso, Key
vedeva nella liberazione della donna la premessa fondamentale
per la liberazione dell’infanzia. La maternità
, la puericultura, l’educazione devono avvenire alla
luce rinnovata dell’istruzione superiore femminile,
del suo accesso alla cultura e alla politica, del suo diritto
al lavoro, della sua maternità responsabile. Perché
cambi la condizione dei bambini, deve cambiare il mondo degli
adulti. Maria Montessori sosteneva che si può impostare
in modo nuovo l’educazione dei bambini solo a partire
da una “rieducazione dell’adulto”.
Oggi forse non siamo più così ottimisti come
Ellen Key. Abbiamo imparato a dire che non tutti i bambini
sono uguali, che non tutte le infanzie si equivalgono. Sappiamo
che in altre parti del mondo milioni di bambini continuano
a morire per la guerra, le malattie, la fame, ad essere sfruttati
come accadeva ai piccoli inglesi nelle fabbriche di Manchester
a metà del XIX secolo. Il secolo XX, appena concluso,
è stato il secolo in cui i bambini del Primo mondo
sono stati più studiati e curati, il secolo della Dichiarazione
dei diritti dell’infanzia, il secolo della pediatria
e della puericultura, della psicologia infantile, della scolarizzazione
di massa. Sono immensamente più curati di un tempo,
meglio nutriti, sopravvivono nella quasi totalità.
Ma sono per questo scomparse la violenza, la colonizzazione
e l’oppressione dei bambini?
Non è difficile vedere che non solo la violenza diretta
non è affatto cessata; penso agli abusi, ma anche a
quell’area ben più ampia di comportamenti stigmatizzati
da Alice Miller come violenze sul bambino che, a dispetto
dell’allarme diffuso, avvengono nella grandissima maggioranza
dei casi tra le quattro mura di casa. Si considera di meno
la cosiddetta violenza strutturale sui bambini, cioè
quella dovuta alla forma della nostra struttura socio-economica.
Un solo esempio: la violenza della città sui bambini,
il fatto che un mondo fatto di cemento, di macchine segreghi
progressivamente i bambini in spazi chiusi, in attività
organizzate, sottragga loro la modalità esperienziale
dell’avventura e depauperi progressivamente la loro
autonomia, invece di arricchirla.
Infine un altro livello della violenza sul bambino è
quella che si potrebbe definire violenza culturale: la colonizzazione
dell’infanzia. Il bambino, anche l’adolescente
(che però è, si dice di solito, né carne
né pesce) vivono in mondi diversi, altri da quelli
dell’adulto. Non solo abitano mondi alieni, ma sono
in un certo senso alieni al nostro mondo adulto e razionale,
tanto che stentiamo a capirli, a inserirli nelle nostre categorie
e regole, cosicché spesso li definiamo per opposizione:
irrazionali, istintuali, dipendenti, presi in un mondo magico
e fantastico, guidati da un desiderio di onnipotenza inestinguibile.
La razionalità adulta proietta sul suo passato un’ombra
di cui è inconsapevole e che è il fondo della
sua infanzia, indicibile, irrazionale, un mondo capovolto
e oscuro, il mondo mitico e magico che è nello stesso
tempo il paradiso perduto e l’inferno.
Proprio per questo l’infanzia è terreno di proiezioni
delle fantasie e dei desideri degli adulti: è un mondo
perduto e che si cerca di ricostruire. Il pedagogista francese
Georges Snyders ha proposto alcuni accostamenti che ci aiutano
a vedere in che modo è costruita la nostra immagine
del bambino: nel corso del tempo l’immagine del bambino
è stata accostata a quella di schiavi, negri, domestici,
popolo, e donne.
Finché
nelle società ci sono categorie sottovalutate, il bambino
è assimilato ad esse, è come trascinato, risucchiato
da esse; gli elementi svalutanti si accumulano nell’immagine
che ci costruiamo del bambino, mentre i suoi aspetti positivi,
ricchi di valore, hanno difficoltà a farsi riconoscere
– e dunque l’amore che si ha per lui non sfugge
a un certo disprezzo.
In realtà, a dispetto di un’apparente concentrazione
di interessi (e non sfugga il doppio senso) sul bambino, è
in atto in realtà una vera e propria “scomparsa
dell’infanzia”, per usare il titolo di un libro
di Neil Postman. In che senso? L’infanzia, o almeno
una certa immagine dell’infanzia di cui ancora si nutre
la nostra cultura è un simulacro; è in corso
un processo di infantilizzazione degli adulti e di adultizzazione
dei bambini.
“I bambini hanno molto più bisogno di una rivoluzione
che i proletari” (William Morris)
LeMarcello Bernardi, L’infanzia
tra due mondi, Fabbri editori, Milano 2000.
LeSi veda il numero 191-192 del
1982 della rivista “Aut Aut” dedicato alle “metafore
d’infanzia”, in particolare il saggio e la nota
bibliografica di Egle Becchi.
LeNeil Postman, La scomparsa
dell’infanzia, tr. it. Armando, Milano 1982.
LeRéné Schérer-Guy
Hocquenghem, Coire. Album sistematico per l’infanzia,
tr.it. Feltrinelli, Milano1979.
Francisco Ferrer y Guardia
La scuola imprigiona i bambini fisicamente, intellettualmente
e moralmente, per dirigere lo sviluppo delle loro facoltà
in una direzione prefissata. Essa li priva del contatto con
la natura per poterli meglio modellare a suo piacimento (...).
L’educazione attualmente non è altro che un addestramento.
(F. Ferrer)
Francisco Ferrer y Guardia (1859-1909), anarchico catalano
definito “missionario dell’educazione”,
è stato il promotore della Escuela moderna (Scuola
moderna), un’esperienza di scuola libertaria realizzata
a Barcellona che nel giro di pochi anni avrebbe prodotto in
Europa il movimento delle scuole Ferrer, ispirando anche altre
esperienze educative come le case dei bambini montessoriane,
la scuola rinnovata di Pizzigoni, Freinet e il movimento delle
scuole cooperative. Cresciuto in una scuola autoritaria e
clericale in cui alla religione veniva dedicato gran parte
del tempo, Ferrer dirà in seguito che per tracciare
la sua linea pedagogica gli sarebbe bastato fare il contrario
di ciò che aveva vissuto e subito ai tempi della scuola
di base. È appunto da qui che derivano i caratteri
essenziali della sua scuola moderna, laica e razionalista:
laica in contrapposizione alla scuola clericale nella quale,
come si diceva, si spendono più soldi per ceri e incenso
che per l’educazione; razionalista e scientifica, perché
la scienza, in contrapposizione alle superstizioni anche religiose,
rende liberi. Anche se a noi oggi può sembrare troppo
insistente questo continuo riferimento ai principi scientifici,
in Ferrer, come già in Bakunin, esso funziona invece
come principio di libertà in contrapposizione a quello
di autorità. In questo senso la scienza è l’unica
autorità che serve a distruggere il principio di autorità
e a favorire lo sviluppo dell’umanità verso la
libertà.
Divenuto militante, Ferrer è più volte arrestato
con vari pretesti e costretto all’esilio. In Francia
conosce diversi personaggi di rilievo che hanno un ruolo di
primo piano nella formulazione delle sue idee: soprattutto
Paul Robin, il creatore di Cempuis, Sébastien Faure,
che darà vita a La Ruche, il geografo Elisée
Reclus, Jean Grave, Anatole France, che diventerà il
presidente della Lega internazionale per l’educazione
dell’infanzia, fondata da Ferrer stesso. All’interno
del movimento anarchico e socialista è allora vivo
il dibattito sul rapporto tra educazione e rivoluzione; Ferrer
vi partecipa cercando di mostrare come proprio l’educazione
emancipatrice possa servire a promuovere un progetto di emancipazione
sociale: “L’azione rivoluzionaria più giusta
– scrive – consiste nel dare agli oppressi, ai
diseredati e a coloro che sentono impulsi di giustizia, quella
verità che è stata loro truffata e che determina
le energie sufficienti e necessarie per la grande opera della
rigenerazione della società”.
Grazie a Mademoiselle Meunier, una sua allieva benestante
convertita alla causa, Ferrer eredita una forte somma che
gli consente di aprire nel 1901 a Barcellona la scuola che
sogna. Ironia della sorte, affitta un ex convento e lo ristruttura,
ma il compito più difficile, superati gli ostacoli
burocratici, è quello di mettere insieme un gruppo
di educatori valido, convinto degli ideali libertari, e del
materiale di insegnamento adatto. Anche per questo da subito
nascerà, strettamente legata alla scuola, una casa
editrice, La Editorial, e una tipografia che stamperà
non solo i libri per la scuola, ma anche il Bollettino di
informazione mensile, la rivista “La Escuela renovada”
e libri destinati ai genitori e più in generale all’educazione
permanente degli adulti.
Gli inizi non sono facili per una scuola che deliberatamente
cerca di prendere le distanze tanto dalla scuola statale che
da quella clericale: I’Escuela moderna è una
scuola a pagamento che non ha alcuna sovvenzione e si regge
sulle entrate che i genitori versano nelle sue casse, sotto
forma di tasse scolastiche stabilite in base alle loro possibilità
economiche. Così nella scuola possono entrare figli
di borghesi illuminati come pure figli di proletari.
Con l’aiuto di amici si inizia a delineare il piano
generale della scuola. Qui il bambino gode di un’ampia
libertà di movimento: va alla lavagna, esce dalla classe,
consulta un libro, si abbandona alle fantasticherie, discute
con i compagni e con l’insegnante. Non c’è
una sola strada che possa valere per tutti. In questo contesto
diventa assai più duro il compito dell’educatore,
che è costretto a catturare l’interesse del bambino,
rispettando i suoi desideri e la sua personalità e
avendo sempre in mente che il fine perseguito deve essere
quello della sua liberazione e felicità. Il gioco,
dice Ferrer, è il lavoro del bambino; non bisogna dunque
impedirgli di giocare, ma gradualmente passare a giochi diversi,
più complessi, che richiedono più sforzo e studio.
Spontaneamente il bambino impara manipolando, costruendo,
facendo, osservando le trasformazioni che avvengono intorno
a lui. Sarà dunque compito dei laboratori stimolare
la curiosità del bambino per le varie discipline, realizzando
un apprendimento attivo. La guida teorica generale per la
scuola e per gli insegnanti è il metodo razionale,
derivato dalla scienza. Secondo la tradizione dell’educazione
integrale, si concepisce inoltre l’educazione come strumento
non solo per la formazione dell’intelligenza, ma anche
per “lo sviluppo del carattere, la coltivazione della
volontà, per la preparazione di un essere moralmente
e fisicamente ben equilibrato, le cui facoltà siano
associate armoniosamente e portate al massimo grado possibile
di sviluppo”.
Ferrer dà molta importanza anche all’igiene all’educazione
fisica, agli sport, allora assai poco diffusi. Insomma i principi
pedagogici delle scuole Ferrer cercano nell’insieme
di sintetizzare alcuni tratti importanti della pedagogia libertaria
ottocentesca. Di fatto il successo della scuola è enorme:
nel 1908 solo a Barcellona ci sono già dieci Escuelas
modernas e più di centoquaranta in provincia. Ferrer
è ben consapevole che molto ancora resta da fare e
da sperimentare per migliorare la scuola e i metodi di un’educazione
emancipatrice, ma gliene manca il tempo. Accusato di essere
l’istigatore dell’insurrezione del 1909 a Barcellona
contro l’invio dell’esercito in Marocco, dopo
un processo infame, con torture, senza sentire testimoni,
viene fucilato. Il suo assassinio provoca manifestazioni e
rivolte in tutta Europa. La revisione del processo, due anni
dopo, lo scagionerà.
LeFrancisco Ferrer y Guardia,
La scuola moderna, M&B Publishing, Milano 1996.
LeFrancisco Ferrer y Guardia,
La scuola moderna e lo sciopero generale, con la
prefazione di Mario Lodi, La Baronata, Lugano 1980.
LeSul movimento delle scuole
moderne negli USA, si veda il classico di Paul Avrich, The
Modern School Movement, Princeton University Press, Princeton
N. J. 1980.
La
fucilazione di Francisco Ferrer in un'opera del pittore Flavio
Costantini
Libertà
Siamo di fronte al più ampio concetto di libertà
sinora conosciuto: la libertà dell’individuo
autonomo di modellare la vita materiale in una forma che non
sia né ascetica né edonistica, ma una miscela
del meglio di entrambe le cose, una forma ecologica, razionale
e artistica. (M. Bookchin)
La questione della libertà è evidentemente
centrale per la tradizione libertaria perché rappresenta
il cuore della riflessione etica.
I libertari la considerano un aspetto cruciale per la definizione
dell’umanità dell’uomo, per l’espressione
delle sue potenzialità per la sua fioritura in molteplici
direzioni, infine perché rappresenta la potenza che
si oppone a quel dominio che costringe gli uomini e le donne
entro griglie prefissate, che ne cattura l’essenza entro
tratti definiti per subordinarli a un ordine non scelto che
perpetua ineguaglianze e ingiustizie.
È importante riuscire a cogliere dialetticamente la
libertà, che si amplia e si modifica storicamente,
non senza conflitti, per evitare di restare prigionieri di
un concetto puramente astratto e inefficace di libertà.
Il processo di liberazione dai vincoli autoritativi e comunitari
prende avvio in Europa a partire dalla fine del Medioevo e
porta alla formazione dell’individualismo proprietario
moderno. Esso si intreccia con la diffusione del sistema capitalistico
che sostiene la libertà di iniziativa, di
scelta, di movimento, per rendere più agevole l’accumulazione
e per favorire lo sviluppo individuale. Il capitalismo ha
ampliato per certi versi il concetto stesso di libertà,
ma l’ha sussunto sotto il dominio dell’economico.
“La struttura della società moderna – afferma
Fromm – influisce sull’individuo contemporaneamente
in due modi: egli diventa più indipendente, autosufficiente
e critico e nello stesso tempo più isolato, solo e
impaurito”.
Nel capitalismo monopolistico contemporaneo questa tendenza
all’atomizzazione va accentuandosi, insieme all’ansia
per la solitudine, al timore verso una società sempre
più complessa e inafferrabile nella quale ci si sente
impotenti, alla difficoltà di mantenere un’identità
di fronte ai cambiamenti sempre più rapidi, pur avendo
perso i riferimenti comunitari. L’io individuale si
indebolisce, cresce il narcisismo come copertura, ma complessivamente
la struttura della personalità si fa più debole
e dipendente.
A causa di questa maggiore incertezza e paura, l’individuo
mette in atto dei meccanismi di fuga che Fromm descrive come
autoritarismo, distruttività e conformismo da automi.
Si tratta di vie di fuga illusorie che lo sottraggono a quella
libertà da che è sentita come sradicamento,
minaccia e causa dell’incertezza. Per ridurre questa
incertezza, questa ansietà, si cerca di mettersi al
sicuro sotto l’ala di qualcuno o qualcosa di più
potente che scelga per noi, che offra una serie di significati
precostituiti con cui interpretare il mondo, insomma che in
qualche modo alleggerisca la fatica e il rischio di vivere
liberi.
C’è però un’altra via, rispetto
alla fuga dalla libertà, ed è una libertà
positiva, più piena, che ci permette di vivere più
felicemente, una libertà non solo intesa come possibilità
di intraprendere, come rischio, come calcolo razionale individuale,
ma anche sentita, emotivamente e fisicamente, come pienezza
del vivere. È un altro nome dell’energia vitale
che fluisce dentro di noi, che non dipende da alcuna autorità
esteriore, che sfugge alle fissazioni soggettive e oggettive,
intensificando la nostra presenza nel mondo, la nostra apertura
al mondo.
Non è la libertà astratta dei diritti, codificata
e non vissuta; è la libertà sperimentata come
possibilità e non come dominio.
Il fatto è che questo ideale di libertà come
spontaneità non è mai stato pienamente realizzato,
e noi abbiamo davanti agli occhi solo le rovine fumanti prodotte
da millenni di guerre e di massacri. In realtà noi
consideriamo questa come la normalità e la pace come
stato di eccezione. È una sorta di dimostrazione a
posteriori, data l’imponenza delle prove storiche sulla
crudeltà umana. Solitamente tralasciamo del tutto di
notare come lo sviluppo dell’umanità abbia compreso
anche e soprattutto la collaborazione pacifica, l’amore,
l’amicizia e la cultura.
Date queste premesse, è chiaro perché nell’educazione
libertaria sono centrali gli aspetti che rendono possibile
una libertà positiva, all’interno di relazioni
comunitarie.
Dall’ampliamento degli spazi di libertà nelle
istituzioni all’educazione razionale per difendersi
da ogni autorità imposta, dalla comprensione della
rete di relazioni che rendono possibile la vita naturale e
sociale attraverso l’educazione estetica alla cooperazione
solidale per lo sviluppo di un’organizzazione orizzontale
autogestita: sono questi, insieme a tanti altri che la tradizione
libertaria ha elaborato e continua a elaborare, gli elementi
che sostanziano l’idea di libertà, che se mantenuta
nella sua astrazione serve soltanto a fare il gioco del dominio.
E infatti, come ricorda Adorno, “l’idea di libertà
perse il suo potere sugli uomini non da ultimo perché
fu concepita dapprima in modo così astratto-soggettivo
che la tendenza oggettiva della società poté
senza fatica sotterrarla sotto di sé”.
LeMurray Bookchin, Ecologia
della libertà, Elèuthera, Milano 1998.
LeErich Fromm, Fuga dalla
libertà, Edizioni di Comunità, Milano 1980.
LeFernando Savater, Invito
all’etica, Sellerio, Palermo 1993.
LeI due volti della libertà,
«Volontà», n. 4, 1995.