Un ponte. Un ponte
fatto di gente che si incontra, discute, collabora, agisce
insieme. Questa l’intuizione semplice e radicale degli
anarchici israeliani riuniti nella rete “Anarchici contro
il muro”. La maggior parte di loro sono giovani e giovanissimi,
cresciuti in un paese sempre più dominato dalla paura,
dall’odio, sempre più separato da quei territori
occupati durante la guerra dei 6 giorni nell’ormai lontano
’67. A me pare ieri ma sono ormai 37 anni… Almeno
due generazioni di palestinesi sono nate e vissute nella Cisgiordania
occupata, dove il filo spinato, i posti di blocco, la presenza
costante dei militari hanno fatto parte del panorama quotidiano
ben prima che l’inevitabile fallimento della cosiddetta
“pace” di Oslo portasse alla rivolta, all’intifada.
Il muro di separazione che taglia come un mostruoso serpente
la Cisgiordania non fa che rendere visibile la frattura tra
due società che la geografia vorrebbe vicine ma la
politica statuale divide.
Contro il muro di diffidenza e odio
I giovani anarchici israeliani lottano contro il muro di
cemento, la fitta selva di filo spinato, i fossati che materialmente
creano una serie di Bantustan nei quali è relegata
la popolazione palestinese, ma anche contro il muro di diffidenza
e odio che separa le persone tanto quanto la struttura fisica,
rendendola ancor più invalicabile.
Il percorso che li ha portati a costituirsi in gruppo parte
dalla volontà di conoscere la realtà al di là
della rappresentazione mediatica, recandosi nei territori,
costruendo relazioni dirette, conoscendo e facendosi conoscere.
In un’intervista rilasciata nell’ottobre del 2003
(1), uno di loro, Jonathan, sosteneva:
“La gente in Europa si deve rendere conto che non usiamo
la parola ‘apartheid’ solo come uno slogan. C’è
una separazione assoluta tra le due società. Anche
al di là della green line non vi è nessuna occasione
in cui le due società possono venire in contatto. Allacciare
relazioni personali e costruire la fiducia, che sono la base
dell’azione politica, è l’elemento più
difficile e contemporaneamente più importante.”
Un’occasione preziosa è stata il campo contro
la costruzione del muro svoltosi tra la primavera e l’estate
del 2003 a Mash’ha. “Il campo di Mas’ha
è stato un’esperienza di reale coesistenza. La
gente lavorava assieme su una base di parità. Si discuteva
assieme, si cercavano assieme strategie, linee di azione.
Naturalmente era difficile, ed era necessario riconoscere
le differenze tra di noi. Tutto quanto si basava sul principio
della democrazia diretta, la gente partecipava alle discussioni
in cui si prendevano le decisioni, quasi sempre sulla base
del consenso.” (2)
Durante il campo di Mas’ha – ha dichiarato in
una recente intervista Yossi – siamo diventati realmente
un gruppo. A Mash’a c’erano anarchici, palestinesi,
internazionali. Per la prima volta israeliani e palestinesi
si univano per costruire relazioni, conoscenze e per elaborare
progetti: siamo riusciti a costruire un rapporto continuativo.
Per noi anarchici il muro è stato l’elemento
catalizzatore della nostra stessa coscienza: noi siamo contro
tutti i muri, contro tutti i confini e gli stati. (…).
Noi veniamo qui uniti per combattere qualcosa che viene costruito
per dividere.” (3)
Azioni dirette
non-violente
Sulla base delle relazioni dirette pazientemente costruite
con la popolazione locale, di gran lunga preferite a quelle
con strutture gerarchiche, violente e spesso intrise di fanatismo
religioso, come l’Olp o Hamas, i compagni hanno intrapreso
una serie di azioni dirette non-violente che mettevano insieme
anarchici israeliani, gruppi di internazionali e popolazione
dei villaggi direttamente colpiti dalla costruzione del muro.
La scelta della non-violenza come metodo d’azione serve,
secondo i compagni, a tentare di ridurre l’enorme violenza
che negli ultimi anni ha segnato il conflitto asimmetrico
nella regione. La loro presenza durante le azioni contro il
muro ha rappresentato di fatto una tutela per i palestinesi,
contro i quali è diminuita la violenza dell’esercito.
Una violenza che si è comunque mantenuta forte: l’esercito
ha fatto uso di gas lacrimogeni, di proiettili di gomma, di
manganelli durante tutte le iniziative di protesta. Finché,
il 26 dicembre del 2003, durante un’azione diretta,
l’esercito ha aperto il fuoco, colpendo ad entrambe
le gambe il compagno Gil Naa’mati. Era la prima volta
che i soldati usavano armi “vere” contro un cittadino
israeliano ebreo. Un cittadino israeliano ebreo che propugnava
con la sua stessa presenza fisica contro il muro le ragioni
dell’internazionalismo contro quelle, sempre feroci,
spesso razziste, degli stati.
Ogni volta che si traccia un confine si finisce con il costruire
un muro. E dove c’è il muro spunta una garitta,
del filo spinato, uomini armati pronti a sparare. Ogni volta
che si getta la campata per un ponte, sia questo simbolico
o reale, vengono meno le ragioni della guerra.
Non è un caso che la distruzione a Mostar del suo celebre
ponte sia ancor oggi ricordata come il simbolo di un conflitto
feroce.
Gli anarchici israeliani ci stanno provando a tirare su un
ponte, un ponte che è possibile edificare solo dal
basso, mettendo insieme le persone, e lasciando fuori le follie
nazionaliste.
Quelle in nome delle quali uomini e donne uccidono e vengono
uccisi.
Maria Matteo
Il
muro
Barrier, Fence, Wall: con questi tre termini inglesi vengono
definiti i 650 km di costruzione di blocchi di cemento,
filo spinato, palificazione elettrica, dissuasori elettronici,
videosorveglianza e polizia di frontiera (con uno spazio
di sicurezza che va dai 60 ai 100 metri di larghezza) che
dovrebbe garantire la tranquillità degli israeliani
dalle infiltrazioni dei terroristi e dei kamikaze palestinesi.
I termini non sono casuali ed hanno un peso specifico politico
molto elevato. La propaganda governativa mira ad evocare
l’immagine di una sorta di porta blindata destinata
ad impedire l’accesso di malintenzionati e quindi
preferisce il termine barriera. Una barriera serve a fermare,
mentre un muro rinchiude. In un caso è sottolineata
la funzione difensiva, nell’altro quella disciplinare.
Ma cos’è in realtà il muro?
Il muro si insinua nei territori della Cisgiordania, il
suo percorso non segue quello della vecchia linea di frontiera
tra Israele e Giordania ma obbedisce alla necessità
di garantire l’annessione delle colonie israeliane
in Cisgiordania. Esso disegna veri e propri bantustan, nei
quali la popolazione palestinese viene di fatto reclusa.
Tristemente famosa è la cittadina di Qualqilya che
è completamente circondata dal muro, una sorta di
prigione di cielo aperto, per uscire dalla quale gli abitanti
debbono sottostare alla volontà degli uomini armati
piazzati alle porte. Ma in realtà è l’intera
Cisgiordania ad essere una prigione: il muro espropria terre,
distrugge coltivazioni e pozzi, separa la popolazione dalle
proprie fonti di sussistenza, rende i movimenti interni
estremamente difficile e annette, di fatto, una larga percentuale
di territorio, soprattutto intorno alle zone degli insediamenti
israeliani e a quelle strategicamente ed economicamente
più interessanti.
Al di del muro le colonie israeliane sono collegate da una
moderna strada carrozzabile, mentre in Cisgiordania, i collegamenti
sono difficili, spesso resi impossibili da blocchi di cemento
piazzati dall’esercito israeliano in mezzo alle strade.
Mentre la costruzione del muro va avanti gli attentati suicidi
non sono affatto cessati. D’altra parte, come sottolineano
i compagni di “Anarchici contro il muro”, la
funzione di questa mostruosa struttura è politica
e non difensiva: la questione “sicurezza” viene
usata come alibi efficace perché fa leva sul terrore
suscitato in Israele dagli attentati suicidi. Il controllo
del territorio, delle sue risorse, della sua popolazione,
nonché la sua frantumazione in una miriade di microentità
non collegate è lo scopo vero del muro, che non ferma
terroristi e kamikaze ma incarcera un intero popolo. |
Video
Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre la
Federazione Anarchica ha organizzato un giro di conferenze
con Liad di “Anarchici contro il muro”. Durante
le conferenze svoltesi in numerose località è
stato proiettato un video – All lies (Tutte
bugie) – sul ferimento del compagno Gil Naa’mati
nel corso di un’azione diretta contro il muro nel
dicembre del 2003. Il compagno Gil è stato colpito
da un soldato ad entrambe le gambe. Quest’episodio
ha avuto un’enorme eco tra l’opinione pubblica
israeliana e ha occupato a lungo il dibattito sui media
mainstream. Il video, ed altri documenti su “Anarchici
contro il muro”, è liberamente scaricabile
dal sito della FAI www.federazioneanarchica.org
oppure se ne può far richiesta a latipo@bicnet.it. |
I
processi
I compagni di “Anarchici contro il muro” sono
stati più volte denunciati per le loro iniziative
politiche sia in Israele sia in Cisgiordania.
Il 18 ottobre, di fronte alla Corte di giustizia di Tel
Aviv si è svolta la prima udienza di un processo
contro undici di loro. Dovevano rispondere di “manifestazione
non autorizzata”, “assalto alla polizia”
e “danneggiamento della proprietà privata”
(ossia aver fatto scritte sui muri).
Tutte le accuse si riferivano ad un singolo episodio dello
scorso 25 febbraio: in tutto non più di dieci minuti
di azione.
Quel giorno all’Aja la Corte Internazionale dava inizio
al procedimento relativo al muro che il governo di Sharon
sta costruendo attraverso le città ed i villaggi
palestinesi.
Gli anarchici avevano deciso fare una manifestazione congiunta
con gli abitanti di un villaggio che aveva perso gran parte
della propria terra a causa del muro. Ma la polizia e l’esercito
mandarono a monte i piani dei compagni, intercettandoli
al confine con la Cisgiordania e obbligandoli a tornare
indietro. Il gruppo di diresse subito al Ministero dell’Interno
a Tel Aviv, si sedette sulla strada di fronte ai cancelli
di ingresso e venne immediatamente attaccato dalla polizia.
Un compagno venne picchiato al punto da perdere conoscenza,
un altro dovette ricorrere a cure ospedaliere e 13 trascorsero
la notte in guardina. La mattina successiva la polizia chiese
al giudice incaricato del caso di trattenerli in arresto
finché la corte dell’Aja avesse terminato i
propri lavori, ma il giudice respinse la richiesta e li
mise in libertà. A quel punto la polizia decise di
accusarli dei reati per i quali il 18 ottobre ha preso avvio
il processo (4). Per sostenere
le spese processuali, durante il giro di conferenze italiano
della compagna Liad è stata effettuata una sottoscrizione,
durante la quale sono state raccolte diverse centinaia di
euro. |
Note
1.
Cfr. “Germinal” n. 94 del gennaio/maggio 2004 Israele/Palestina.Anarchist
against the wall. Un’intervista.
2. Cfr. in “Umanità Nova” n. 40 del novembre
2003 A colloquio con due anarchici israeliani. Ramallah:
Jonathan e Liad all’ombra del muro.
3. Cfr. “Umanità Nova” n. 33 dell’ottobre
2004 pag. 4 Gay, refusnik, anarchico. A colloquio con Yossi
di Anarchici contro il muro.
4. Cfr. “Umanità Nova” n. 33 dell’ottobre
2004 pag. 5 Israele: processo agli anarchici. Ribellarsi
è giusto.
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