popolo in cucina
Sapori resistenti
di Marco Rossi
Dal fascismo alla Resistenza.
Che cosa mangiavano (e non mangiavano) gli italiani. E i partigiani.
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I sogni dei partigiani sono rari e corti, sogni nati
dalle notti di fame, legati alla storia del cibo sempre poco
e da dividere in tanti: sogni di pezzi di pane morsicati e
poi chiusi in un cassetto. I cani randagi devono fare sogni
simili, d’ossa rosicchiate e nascoste sottoterra
(1). (Italo Calvino)
L’alimentazione
degli italiani sotto il fascismo iniziò ad essere scarsa
ben prima delle, peraltro limitate, sanzioni economiche votate
dalla Società delle Nazioni alla fine del ’35
in seguito all’aggressione italiana all’Etiopia.
I problemi alimentari cominciarono dal pane, elemento base
della dieta nazionale. Appena salito al potere, Mussolini
dovette registrare un allarmante calo della produzione di
frumento e nonostante la cosiddetta “battaglia del grano”
l’incremento della produttività agricola risultò
insufficiente e circoscritto soprattutto al Nord: nel 1933
la farina prodotta ammontava a 380 grammi quotidiani a testa.
Specialmente al Sud, si ricorreva a surrogati della farina
di frumento; il pane era prodotto con una miscela di farina
di lenticchie, d’orzo e di cicerchie.
Ma anche nel resto dell’Italia, il pane bianco era privilegio
di pochi e la propaganda si affrettò a screditarlo.
Nero e scarso, il pane del Ventennio era per giunta salato,
nel senso che era caro in rapporto ai salari (nel ’26
costava 2,50 lire al Kg); tanto che diventò uno dei
principali argomenti agitati dall’opposizione antifascista.
Il giornale «La vie prolétarienne» del
12 maggio ’29 informava su come si viveva in Veneto:
“Le notizie da questa regione sono fra le più
tristi. Nessuno o quasi ha lavorato quest’inverno. Vi
è gente che da anni non ha una occupazione regolare.
Vi sono famiglie che per intere settimane si sono nutrite
alla meglio con un po’ di patate lesse. Durante i mesi
del gran freddo, erano installate a Venezia, Padova e Rovigo
delle cucine ambulanti per distribuire la zuppa alla popolazione
affamata” (2).
Nel febbraio 1931 usciva un numero unico clandestino del PCdI
intitolato, emblematicamente: “Pane e Lavoro o la testa
di Mussolini”.
Anche la pasta era insufficiente e, per limitare le importazioni
di frumento, venne incoraggiato il consumo di riso che, invece,
era in sovrabbondanza. A tal fine la propaganda fascista condusse
una violenta quanto assurda campagna denigratoria contro spaghetti
e maccheroni che vide scendere in campo il futurista Filippo
Tommaso Martinetti ormai in guerra contro la pastasciutta,
incurante dei cortei popolari di protesta che si svolsero
a Napoli e del dissenso del giornalista Paolo Monelli che
ebbe a definire la pasta “l’ideale vivanda dei
combattenti”.
Autarchia in cucina
In risposta alle sanzioni, l’autarchia entrò
in cucina, inventando surrogati ed eliminando pietanze ormai
introvabili. Secondo un’inchiesta del Bureau International
du Travail del ’37 il vitto di una famiglia piccolo
borghese e operaia era costituito da: “pane e poco companatico
a colazione; minestra abbastanza lunga a mezzogiorno; pane
e polenta la sera, con companatico il meno costoso come baccalà,
saracche o simili”.
Con l’entrata in guerra fu introdotto il razionamento
e la religione del risparmio raggiunse il suo apice; nelle
riviste femminili le donne italiane trovarono ricette per
riciclare bucce e torsoli di mele, gambi di prezzemolo e di
cavolfiore.
Nulla andava buttato via, tutto poteva trasformarsi in surrogati;
si trovò persino la maniera per fare la crema senza
uova, la marmellata senza zucchero, l’insalata senz’olio
e le costolette senza carne, mentre la farina di castagne
suppliva il colore del cioccolato.
Il caffè venne bandito, ma comunque dopo il ’40
era divenuto praticamente introvabile persino per i benestanti.
Circolava solo qualche piccola quantità di caffè
non tostato, forse proveniente dalla Svizzera. Esauriti anche
il cosiddetto Caffè Harrar e il tè etiopico.
Dopo l’annessione della provincia di Lubiana fu lanciato
il tè sloveno Alpakay.
Se, fin dal ’40, anche le banane “imperiali”
importate dalla ex colonia somala non erano più giunte
in Italia, dal ’43 venne a mancare anche la frutta meridionale.
La frutta di produzione locale non era commercializzata oppure
aveva prezzi elevati.
Fece la sua comparsa un manifesto murale in cui si vedeva
un soldato con casco coloniale che, battendo una mano sulla
spalla di un borghese seduto ad un tavola ben fornita, ammoniva:
“Se tu mangi troppo derubi la patria!”.
Nei ristoranti e nelle trattorie, che lo stato di guerra aveva
declassato a mense popolari, per chi disponeva di soldi il
“rancio unico” (minestra, verdura, frutta) poteva
riservare succulente sorprese: la “verdura” dello
spartano pasto tesserato poteva diventare tacchino o pollo
nascosto da una montagna di fagioli o piselli.
Ma a partire dal ’41, secondo anno di belligeranza italiana,
la situazione andò progressivamente aggravandosi e
nelle città bombardate cominciò ad aggirarsi
lo spettro della fame.
“A Parma, il 16 ottobre 1941, scoppiò una violenta
rivolta in seguito alla diminuzione giornaliera della razione
individuale di pane, ulteriormente ridotta a 150 grammi, sebbene
Mussolini, che aveva visitato la città pochi giorni
prima, avesse promesso di non abbassare le razioni alimentari:
le donne assaltarono un furgone della Barilla che trasportava
un carico di pane.
Appena sparsa la notizia, altre donne uscirono dalle fabbriche
e formarono dei cortei spontanei in molte vie della città;
furono le più politicizzate ad organizzare le operaie
e le massaie. Le donne manifestarono numerosissime e molte
di loro furono arrestate (…). La protesta venne chiamata
“sciopero del pane” e rappresentò un momento
importante nella cronologia di sviluppo del movimento clandestino
di liberazione” (3).
Incubo quotidiano
Nel ’43, dopo l’armistizio e l’8 settembre,
nelle regioni del centro-nord sotto la Repubblica di Salò
e l’occupazione nazista, il problema dell’alimentazione
sarebbe divenuto praticamente l’incubo quotidiano di
tutta la popolazione civile, ma persino per i militari, come
dimostra un notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana:
Circa cento reclute che viaggiavano da Sassuolo
a Reggio Emilia, risultavano essere fuggite dalla caserma
di Sassuolo perché il trattamento loro usato era cattivo
e demoralizzante: mancata distribuzione del rancio, gavette
sporche, mancata distribuzione di coperte, ecc. Perciò
rientravano alle proprie case col proposito di non ripresentarsi
alle armi prima che l’andamento della caserma venisse
modificato.
Per questo motivo, la radio, il cinegiornale e la stampa
di Salò vennero mobilitati per convincere i giovani
a presentarsi ai Distretti, rassicurando che i nuovi arruolati
avrebbero trovato da mangiare. Indicative soprattutto alcune
foto e alcune pellicole in cui si vedevano mense fornite e
tavolate con volti sorridenti per il rancio del giorno.
Gravissima la situazione nelle grandi città, mentre
nelle cittadine di provincia e nelle campagne, grazie alle
produzioni locali, era ancora possibile un minimo di nutrizione
degna di tale nome.
I contingenti di merci razionate assegnati alle province erano
sovente insufficienti, quasi sempre in ritardo, molte volte
non arrivavano affatto. Ad esempio, “a Padova si rileva
continuamente, da parte tedesca come anche da parte della
prefettura, scarsità (…) di sale (…). Per
quanto riguarda i generi alimentari, le carenze più
gravi riguardano i grassi vegetali e animali” mentre
“i contingenti quindicinali di farina di mais e di frumento,
di pasta e di riso arrivano con discreta regolarità
all’Ufficio distribuzione generi razionati” (4).
Diverso invece il caso di una cittadina come Arezzo, come
riferisce un’interessante testimonianza.
“Nell’inverno i più degli sfollati, nell’agro
e nelle colline, si salvarono con le rape e poco pane. Le
rape dette “purezze”, mostrando puntine bruciate
dal gelo (delizia dei buongustai) oppure foglie comuni, erano
una delle poche cose che si trovavano, con larghezza; erano
ricercate, da mangiare lessate e, possibilmente, con un po’
di sale; l’olio era un tesoro, i grassi suini un’eccezione.
Il pane era la cosa che mancava di più; si era ancora
in un mondo segnato dalla sua sacralità, nel quale
costituiva anche la spina dorsale dell’alimentazione.
Era, invece, razionato per tutti, esclusi agricoltori (proprietari),
coltivatori (diretti), mezzadri ed “avvittati”,
i quali trattenevano grano sulle cessioni agli ammassi; questa
in un certo senso logica divisione generava due non logiche
conseguenze: in Arezzo e nei paesi i più mangiavano
pane cattivo, umido, mozzo, fatto con miscele di farina di
grano mischiato a semole, a granturco, a ghiande (si diceva)
(…) Invece nelle case delle campagne c’era, di
regola, e salve quelle degli operai-pigionali non agricoli,
pane fatto in casa, nei forni privati, buono, ed un po’
più abbondante che in città.
Dopo il duro inverno a rape e pane pessimo e raro, accadde
un fenomeno strano: la disorganizzazione totale comportò
che ai panificatori non sempre pervenivano le farine miscelate
con granturco, talché, ferma restando la quantità
troppo esigua, il livello quantitativo del pane distribuito
dagli alimentaristi migliorò.
In
cucina le rezdore preparano i dolci
Sale: merce preziosa
Questo generò, a sua volta, la possibilità
di far incontrare un po’ di pane secco con le verdure
e l’acqua fresca, sale, olio ed aceto e di disporre
di «panzanella» (5).
Significativa un’altra testimonianza, sempre riguardante
l’aretino, su un pranzo pasquale del ’44.
La
mamma Maria aveva preparato la solita “brodaglia”
di minestra, lunga, lunga, fatta con i dadi Arrigoni, e sul
tavolo il pane di granturco, giallo come lo zafferano, delle
cipolline “porraie” e un pochino di mortadella
di Bologna (6).
Oltre a quella del pane un’altra carenza fondamentale
riguardava, come già accennato, il sale ormai divenuto
una merce preziosa quanto rara, dato che quasi tutte le saline
che rifornivano il mercato italiano si trovavano al Sud.
Ormai introvabile anche il pepe, come tutte le spezie orientali,
vanamente sostituito dalla “pepina”, un improbabile
miscuglio senza sapore, e da qualche ormai vecchia scorta
senza più fragranza.
“La crisi combinata di sale/pepe mise in difficoltà
l’allora molto circoscritta e quantitativamente modesta
attività dei macellai/insaccatori e generò la
rarefazione di salumi e salsiccia, e dei mitici prosciutti,
sogno di tutti” (7).
Per far comprendere il valore assunto dal sale, va segnalato
il fatto che divenne persino premio offerto come taglia dai
comandi nazisti per la delazione o la consegna di partigiani,
dato che i tedeschi non soffrivano di carenza di sale avendo
la possibilità d’estrarlo dalle miniere di salgemma
in Austria.
Secondo un famoso manifesto a firma Il Comandante delle truppe
germaniche, venivano promessi i seguenti premi: fino a
Lire 5.000 e chili 5 di sale per ogni segnalazione che renda
possibile il sequestro di un deposito o di un rifornimento
aereo di armi o di esplosivi oppure la cattura di un ribelle;
fino a Lire 10.000 e chili 10 di sale per la segnalazione
di un importante deposito o rifornimento aereo di armi e di
esplosivi oppure di un capobanda, e in altri casi particolari;
fino a lire 1.000 e chili 1 di sale per ogni altra utile segnalazione
di ribelli, armi nascoste, rifornimenti aerei ecc. (8).
L’alimentazione partigiana
Se questo era, seppur sommariamente, il quadro generale per
tutta la popolazione, si può facilmente immaginare
che quanti scelsero di andare sui monti a condurre l’aspra
guerra partigiana e quanti rimasero nelle città a condurre
nella clandestinità la lotta armata, dovettero innanzi
tutto far fronte al problema delle loro necessità alimentari.
Sull’argomento è possibile raccogliere numerose
testimonianze che indicano, come è ovvio, una molteplicità
di condizioni e di contesti.
Al Nord, nelle Langhe, una prima fonte di approvvigionamento
furono i magazzini dell’ormai disciolto regio esercito
italiano, o quanto restava di essi, come racconta Nuto Revelli:
13 dicembre 1943. Ieri notte puntata a Trinità,
per raccogliere almeno le briciole dei magazzini della 4ª
armata (…) Conosciamo di fama un tale (…) assai
noto nella zona per aver imboscato quantitativi industriali
di viveri e perfino di foraggi. Lo troviamo a colpo sicuro.
Io e Piero ci presentiamo così: «Siamo
partigiani, abbiamo un camion da riempire, e presto anche.
Fuori i viveri che lei ha arraffato all’8 settembre.
Sono roba nostra».
(…) Bussiamo a molte porte (…)
senza terrorizzare, anzi, quasi scusandoci per l’improvvisata,
chiediamo che ci restituiscano le provviste dell’8 settembre.
(…) Mollano i viveri, senza tante storie
(…) quando abbiamo compiuto una metà del giro,
il Taurus è ormai quasi al completo. Sacchi di zucchero,
sale, riso, farina, casse di surrogato, fusti di cognac e
di olio: queste le briciole dell’8 settembre, queste
le piccole scorte familiari, dopo che gli avvoltoi (…)
hanno ormai smistato verso la borsa nera le migliaia di quintali
dei magazzini militari svuotati.
(…) L’asilo è proprio
lì a quattro passi (…) viene ad aprirci una suorina
giovane, spaventata. «Siamo partigiani, – le dico,
– vorremmo soltanto prelevare il sale della 4ª
armata».
Si
rischiara in viso (…) Arriva la madre superiora, con
due o tre suore che la scortano da lontano. Il carico ha inizio.
Non lo vogliamo tutto il sale, due sacchi li regaliamo alla
mensa dell’asilo (9).
Successivamente il problema dei viveri venne risolto in vario
modo, dall’acquisto presso i contadini alla requisizione
più o meno forzata nei confronti dei proprietari più
ricchi, dall’esproprio a spese dei possidenti fascisti
al prelievo di beni con rilascio di buoni del Comitato di
Liberazione Nazionale.
Inutile negare veri e propri casi di furto, seppur rari e
generalmente causato da emergenze, ma è altresì
da segnalare il fatto che spessissimo la popolazione divise
spontaneamente il poco che aveva con quanti erano alla macchia.
In altri casi, nonostante i gravi rischi di ritorsioni fasciste,
i contadini preferirono spontaneamente offrire bestiame e
grano ai partigiani piuttosto che consegnarli all’ammasso
imposto dai “repubblichini”.
Fu comunque una “guerra dei poveri”, tanto che
nella memorialistica resistenziale ricorre sempre il riferimento
alla fame patita, soprattutto durante le azioni di guerriglia
e i ripiegamenti per sfuggire ai rastrellamenti nazifascisti,
come si apprende da alcuni passi del diario partigiano di
Aldo Ferrero:
…si
è consumato il primo pasto, e per di più caldo,
dopo giorni di mirtilli e acqua. Molti hanno la dissenteria,
altri il vomito (…) Quelli che si fanno sentire sono
i morsi della fame (10).
Cose analoghe le descrive Giorgio Bocca, anch’egli
partigiano in Piemonte:
…il riso stracotto che spesso era tutto
il pasto…
Molti reparti rimasero per alcuni giorni senza pane e senza
carne, mangiando patate bollite, ma continuando a lavorare
e combattere.
Il
cuoco stana le pentole dai cespugli in cui le ha nascoste
e dal campo di avena esce il sacco del pane (…) Le squadre
rientrano nei fienili e posano le armi. Tra poco mangeranno
un po’ di castagne e di patate bollite (11).
Così come confermato da Nuto Revelli:
Il
problema del vettovagliamento è grave. Lo risolviamo
alla meglio: un pezzo di pane nero per ogni uomo (12).
Ma anche da altri tre partigiani, operanti in zone diverse.
Da
nove giorni il rancio di duecento partigiani era così
composto: cinque pere la mattina, dieci a mezzogiorno, dieci
la sera. Niente carne. Una squadra inviata a trovare farina
era tornata senza farina e con due uomini in meno (13).
Ricordo
che il mugnaio Giovanni Madrina faceva il possibile per darci
qualche chilo di farina da polenta. Il vitto era a volte molto
scarso: non di rado una fetta di polenta e mezzo uovo a persona
furono il cibo di un’intera giornata (14).
Nostre
basi diventarono allora le baite, dormimmo in montagna nei
ricoveri per animali (…), il vitto era scarso, insufficiente
(mangiammo tutte le capre della zona e per parecchi giorni
dovemmo nutrirci solo con castagne) (15).
La fame era tale da divenire persino argomento di canzoni,
come quella che segue.
Stringiamo la cinghia (16)
La fame e il piombo
paura non ci fa,
oi cara mamma, oi cara sposa,
stringiamo la cinghia
se fame ci assal,
che ci rinfresca
la neve ci sarà.
…
Tale condizione era talmente condivisa e sofferta all’interno
delle comunità partigiane, da rendere importanti anche
piccoli gesti che, in simili contingenze, assumevano valori
e significati del tutto particolari.
Abbiamo
appena terminato l’azione che arriva una donnetta con
pane, uova e latte: sa che dal mattino stiamo combattendo,
e nel vederci così inzuppati dal temporale ha pietà
di noi. La nostra postazione è a pochi metri dalla
sua casa (17).
Si distribuiscono i viveri, un pezzo di pane
raffermo e cioccolato autarchico.
La razione a me non basta. Chiedo a Nini l’unica scatola
di marmellata, la riserva intangibile della banda: l’apro
e a cucchiate incomincio a farla fuori.
Nessuno parla, tutti mi guardano: contano le cucchiate, le
gustano.
Tiro avanti senza pietà. Mi sento addosso lo sguardo
di tutti, alzo gli occhi a tratti e li vedo come ipnotizzati.
Sto compiendo una cosa orribile. Anche Livio mi guarda, ma
non parla. Tiro giù, un cucchiaio dopo l’altro,
con impegno, come se infilassi delle pallottole in un caricatore.
Domani avrò una giornata dura. Se questa forza mi darà
un po’ di forza, viva le leggi partigiane frantumate
(18).
Io
non sapevo da mesi cosa fosse un uovo. Lui me lo aveva mostrato
tutto trionfante. Poi lo aveva fatto cuocere nell’unico
modo possibile, in acqua bollente, lo aveva diviso in due
e me ne aveva offerto la metà (19).
La mancanza di viveri emerge con insistenza anche nei messaggi
scambiati tra i diversi reparti partigiani: la reciproca richiesta
di generi alimentari non ha minore rilevanza dello scambio
di informazioni e della carenza di armi e munizioni, e il
tono non è meno drammatico.
Si rileggano, a titolo d’esempio, questi dispacci:
…Compra quanti più viveri puoi
(formaggio, pane, burro, uova).
…Secondo invio annonario consistente in sette dozzine
e mezza di uova, bidone pieno di latte e mezza forma di formaggio
(…) Aggiungo in extremis mezza dozzina di uova.
…Mi spiace di non aver trovato le pagnotte e anche il
burro. Per trovare quelle pagnotte ho passato tutte le case.
Formaggio ce n’è, ma vogliono 100 lire il kg.
Se ne avete bisogno fatemelo sapere.
L’approvvigionamento viveri, con l’aumento continuo
della banda, diventa problematico. Non sono mai arrivati così
pochi viveri (…) come in questo periodo!
(…) necessitiamo di farina, pasta e riso. Per il trasporto
pensate un po’ anche voi, requisite muli finché
basta. Preleva tutti i viveri delle tessere. Non parlavi di
quattro quintali di farina arretrata dal panettiere? Prelevali
e mandane due quintali a Nino, e tutto il resto qui.
Ma tutto ciò al più presto. Ti ripeto: pasta,
riso e condimenti, sono i più urgenti (…) Vorrei,
se possibile, un po’ di fondi per comperare un po’
di pappatoria (…) Vi mando tutti i viveri che mi è
stato possibile riunire: 2 zainetti zucchero, 2 pezzi di lardo,
burro, 13 pacchetti surrogato, qualche chilo di formaggio.
Pane non ne è giunto e non so se arriverà. Se
dovesse arrivare ve lo spedirò al più presto.
È necessario fare la massima economia di viveri: razioni
minime, perché non sappiamo se e quando potremo averne
altri (20).
Il cibo era essenziale per continuare a resistere, anche
più delle munizioni. A riprova di ciò basti
quanto riporta ancora Revelli:
Rientro con la banda a Torre. Spariti parte
dei nostri materiali e viveri. Raduno la popolazione di Torre,
sette montanari in tutto. Discorso chiaro, spietato. Salta
fuori il materiale: mancano ancora una rivoltella e l’unica
scatola di conserva.
I montanari accusano un certo S., ma S. nega finché
lo minacciano di morte. Tutto ritrovato, rancio con pastasciutta
condita al pomodoro (21).
Il mangiare come rito collettivo
Quando la lotta partigiana consentiva delle pause o la cattiva
stagione imponeva dei rallentamenti delle operazioni militari,
il momento del ritrovarsi per mangiare era quello in cui la
comunità partigiana cercava di ricreare una parvenza
di vita libera dalla guerra.
L’aspetto della socializzazione tra eguali nell’atto
di dividersi anche il cibo, appare in modo assai evidente
in tutti i ricordi di chi visse quell’esperienza.
La
«mensa» e la «sala riunioni» di Paralup
sono nello stesso locale, nella stalla più grande.
In una grangia accanto, la cucina e il magazzino viveri; nelle
altre baite, cinque o sei, i dormitori (…) Qui, nella
«sala riunioni», ogni sera si raccolgono a conversare,
a ridere, a cantare.
I più sono giovani, quasi ragazzi, contadini, operai,
studenti. Gli ex soldati della 4ª armata e gli ufficiali
del disciolto esercito sono pochi (22).
…Altri
alimentano un fuoco che fascia divampando un enorme pentolone
nero. È la marmitta che il cuoco si è portata
dietro combattendo e camminando. Questa sera la banda avrà
di nuovo la sua minestra calda (23).
Torre
è il nostro convalescenziario. Attività limitata
ai collegamenti e alle corvées viveri e materiali.
Riposo e supernutrimento.
Acquisto di viveri senza economia, a borsa nera, anche se
i fondi di assegnazione se ne vanno… Zabaglione per
tutti, ogni giorno: chi sbatte di qua, chi di là,
ne esce un concerto piacevolissimo. Villeggiatura. Primavera
incantevole che riconcilia con la vita (24).
C’è
aria di festa, non so per quale ragione. Tutti la sentono,
anche il cuoco, certo, che ha preparato oggi una torta di
mele (25).
18 febbraio
(’45). Il solito brodo viene eccezionalmente sostituito
con tagliatelle, per festeggiare la giornata del partigiano
(così almeno ci è stato comunicato dai giornali)
(26).
Ma se sulle montagne, quando era possibile, si rinnovava
tra i partigiani questo rito collettivo, nelle città
i combattenti dei GAP e delle SAP, conducevano una vita diversa,
ben più grama, stretta dalle regole della clandestinità
e dell’organizzazione in piccoli nuclei.
Uno dei protagonisti di quella guerra, nelle sue memorie,
ha dedicato al cibo solo poche righe.
Compro un etto di mortadella e un po’
di formaggio, poi sorseggio un caffè in un bar…
Sarebbe
piuttosto preoccupante se, nell’attesa dell’agguato
qualcuno si fosse recato a fare provviste in locali pubblici
(27).
Il vino
Il vino, come è noto, ha sempre avuto un posto importante
nella storia proletaria e non fa certo eccezione il capitolo
della lotta partigiana.
Il vino buono per far tacere la fame, per riscaldare, per
dare coraggio e anche per cantare.
Come attesta questa canzone, originaria di una zona della
Toscana dove sicuramente la mancanza di vino doveva essere
vissuta quasi come un dramma.
La polenta gialla (28)
C’è un gruppo partigiano
nel garfagnin
che da parecchi mesi
non beve il vin.
Sempre polenta gialla
c’è da mangiar
e guardia sempre guardia
a volontà.
…
Sul vino bevuto dai partigiani si trovano molti accenni,
tra queste qui ne offriamo due.
La prima riguarda un’insolita azione partigiana ed è
confermata persino da un rapporto, datato 1.5.1944, del Comando
della Guardia Nazionale Repubblicana di Arezzo:
Giunge solo ora la notizia che il 18 aprile
u.s., in frazione Pieve del comune di Talla, circa 10 ribelli
abbatterono la porta del dopolavoro (fascista) con scariche
di fucile mitragliatore, e che, entrati nei locali, consumarono
due bottiglie di liquori, lasciando sul tavolo alcuni biglietti
da dieci lire per pagare le consumazioni.
Indi si allontanarono in direzione di Pontenano (29).
La seconda, narrata da Bocca, sarebbe degna di un film:
Non
ho mai visto una guerra così strana, dice Alberto,
la battaglia del vino. Per sette giorni di seguito, non abbiamo
fatto che sparare e bere. I valligiani piuttosto di lasciare
il loro vino ai tedeschi preferivano finirlo. Ogni paese in
cui ci ritiravamo combattendo traeva dalle cantine le bottiglie
più preziose. Ricordo Ponte Marmora. Avevamo piazzato
il mortaio in un prato. Vicino alla bocca da fuoco e sparse
tra le munizioni c’erano una trentina di bottiglie vuote,
ma altre ancora piene sul carrettino col quale le avevano
trasportate da Prazzo (…) Arrivò la reazione
nemica, granate scoppiarono poco lontano e pallottole sibilarono
nell’aria. Allora, senza scomporsi, caricarono il mortaio
sul carrettino, vicino alle ceste delle bottiglie e, cantando,
presero la strada per Prazzo (30).
Marco Rossi
Note
- Italo
Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori,
Milano 1993, pag. 83.
- Umberto
Dinelli, La guerra partigiana nel Veneto, Marsilio
editori, Venezia 1976, pag. 14.
- A
cura di Hélène Zago, Le donne nella resistenza,
www.dspadova.it/donne_resistenza.htm.
- A
cura di Lino Scalco, Tra liberazione e ricostruzione,
Editoriale Programma, Padova 1996, pagg. 35-37.
- Enzo
Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, Calosci Editore,
pag. 93.
- A
cura di Ezio Raspanti, Ribelli per un ideale, ANPI,
Foiano della Chiana 1994, pag. 144.
- Enzo
Droandi, op. cit., pag. 94.
- Fondazione
Kuliscioff, Credere, obbedire, convincere. Propaganda
e comunicazione 1943/1945, MB publishing, Milano 2003,
pag. 62.
- Nuto
Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi, Torino 1993,
pagg. 142-143.
-
Aldo Ferrero, «Terroristen» La Brigata Valle
Stura la più decorata al Valor militare, Mursia,
Milano 1996, pagg. 29 e 49.
- Giorgio
Bocca, Partigiani della montagna. Vita delle divisioni
“Giustizia e Libertà” del Cuneese,
Feltrinelli (seconda ed.), Milano 2004, pagg. 35, 112, 115-116.
- N.
Revelli, op.cit., pag. 272
- “Fumo”,
in 11 agosto, Firenze, ANPI.
-
Testimonianza di Alfredo Barbujani in Gianni Sparapan, Adria
partigiana, Minelliana, Rovigo 1994, pag. 83.
- Argante
Bocchio – Annibale Giachetti, Le formazioni di Gemisto,
in «L’impegno», dicembre 1986, Istituto
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- A.Virgilio
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italiana, Rizzoli, Milano 1985, pagg.425-426, Canto
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Pesce, Senza tregua. La guerra dei GAP, Feltrinelli,
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Virgilio Savona - Michele L. Straniero, op. cit.,
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- A
cura di Ezio Raspanti, op. cit., pag. 179.
- G.
Bocca, op. cit., pag. 111.
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