Adesso che Luigi Veronelli
è morto, cremato e sepolto, adesso che siamo bombardati
via etere e stampa da una manica di gente che parla di cibo
e di vino sapendone poco o nulla, adesso è il momento
buono per capire vita e opere di Sua Nasità. E parto
dall’ultimo periodo, quello che i parrucconi della parrocchietta
enogastronomica giudicavano accigliati. Veronelli e i centri
sociali, Veronelli e gli anarchici a braccetto, ma s’è
visto mai? Degustazioni di vini pregiati al Leoncavallo: inaudito,
il vecchio maestro dev’essersi bevuto il cervello. No.
Il vecchio maestro, ormai quasi cieco, ci vedeva benissimo e
il cervello ce l’aveva perfettamente funzionante. Il movimento
Terra e Libertà, che insieme ad altri aveva fondato,
pensava criticamente alla terra come pianeta e alla terra come
suolo. E di grazia, con chi avrebbe dovuto schierarsi Veronelli,
da sempre cavaliere solitario? Con le multinazionali che ovunque
fissano il costo del caffè, del cacao, dei pomodori,
delle olive? Coerente con tutta la sua vita, s’era scelto
compagni di strada (e di lotta) legati dagli stessi sentimenti
e dalla stessa visione di una terra divisa più equamente
tra ricchi e poveri, di uno sviluppo sostenibile, di una trasparenza
della filiera produttiva, di costi più accessibili per
le tante cose buone (vino compreso) che passano per troppe mani
ingorde prima di arrivare al consumatore. Contro la globalizzazione
e gli OGM Veronelli era in prima fila.
Contro la Coca Cola
In Italia purtroppo manca un Josè Bové, sospirava.
E adesso manca pure Veronelli, uno che non ha mai avuto paura
d’alzare la testa e di partire alla carica: anche contro
la Coca Cola, per dire (tre processi). Oppure contro Gianfranco
Vissani, famosissimo chef da lui definito “cuoco di merda”
perché si faceva un punto d’onore di friggere usando
l’olio di semi e non quello extravergine d’oliva.
Insomma, di questa scelta di campo poteva stupirsi solo chi
immaginava Veronelli come un aristocratico signore che passava
il tempo degustando da grandi bicchieri di cristallo e trovando
di volta in volta sentori di ginestra, di pietra focaia, di
ribes nero.
Era così, ma solo in parte. Ed era bello sedere allo
stesso tavolo per il cerimoniale e sentirlo vivere il vino,
prima di giudicarlo e raccontarlo. La lentezza dei gesti, il
rispetto profondo del vino (il canto della terra verso il cielo,
diceva), il linguaggio tutto suo (in questo, nei neologismi,
ricordava l’amicone Gianni Brera). Stava ben lontano dal
gergo tecnico di molti ragionieretti del grappolo (i tannini,
gli antociani, la malolattica, il cappello sommerso: ma chi
se ne strafotte, veramente) e ricorreva spesso a paragoni con
un verso, una sinfonia, un quadro, una canzone. Un approccio
amoroso, spiegava. “Ogni vino è come una bella
donna, non va aggredito con la volontà d’imporsi,
bisogna ascoltarlo, capirlo”. Della sua casa, a Bergamo
alta, impressionava la cantina (più di 70mila bottiglie,
e sì che ne regalava parecchie) ma anche la biblioteca
(più di 10mila libri, un centinaio scritto da lui).
Milanese dell’Isola, classe 1926, nonno panettiere in
piazzetta della Rosa, oggi piazza Pio XI, Veronelli fu iniziato
al vino da suo padre, il giorno della prima comunione. “Doveva
essere Barbera dell’Oltrepò. Io e Gianni, mio fratello
gemello, eravamo pronti a bere d’un fiato ma mio padre
ci bloccò ruvidamente: piano, prima lo guardate, poi
lo annusate e poi le bevete con rispetto, perché dentro
c’è la fatica dei contadini”. Una lezione
che non avrebbe più dimenticato. “I miei contadini,
i miei vignaioli” diceva con fierezza.
Li aveva scossi, difesi, esaltati negli anni del boom, della
corsa al posto in fabbrica, dello spopolamento di campagne e
colline e montagne, quando fare il contadino era un brutto mestiere,
quando nelle Langhe giravano sensali con foto di ragazze del
sud disposte anche a vivere in una cascina.
Poi non pochi di questi vignaioli, o i loro figli, si son fatti
la Ferrari, ma questo è un altro discorso. Uno dei primi
discorsi di Veronelli era una certezza sul vino: “L’ultimo
dei vini artigianali sarà sempre migliore del primo dei
vini industriali, perché avrà un’anima”.
Un altro riguardò le etichette. “Smettetela di
scrivere Rossi Mario, non siamo né a scuola né
a militare, dove si fa l’appello in ordine alfabetico.
Un uomo libero scrive: Mario Rossi”
Condanne e libri bruciati
Studi classici, passione per la filosofia, assistente di Giovanni
Emanuele Bariè, collaboratore di Lelio Basso. Investe
gran parte dell’eredità paterna (e la perde) facendo
l’editore: poesia (La ragazza Carla di Elio Pagliarani)
ma anche i socialisti utopisti (Fourier, Proudhon) e anche,
primo in Italia, de Sade. “Era Historiettes, contes
e fabliaux, una delle cose più tranquille. Fui condannato
per pubblicazioni oscene, e i libri bruciati nel cortile della
questura di Varese, anno 1957”. Altra condanna a 6 mesi
nel 1980, per istigazione a adunata sediziosa. “Niente
di speciale, avevo semplicemente detto ai contadini astigiani
che per farsi sentire sul prezzo delle uve non dovevano dare
retta ai politici, tutte balle, ma fare come gli operai, bloccare
l’autostrada o la stazione. Bloccarono la stazione, ma
sbloccarono la vertenza”.
Per qualche anno s’era guadagnato da vivere dirigendo
una stazione invernale, al Tonale. Gli piaceva la caccia subacquea,
ma senza pinne e respiratore, sennò il pesce era troppo
svantaggiato. La sua guida ai vini d’Italia, edita da
Casini, è del 1961. Prima, per più di quattro
secoli da Ortensio Landi, nulla. Dopo, fin troppo. Il suo sogno
nel cassetto era quello di tradurre Apollinaire.
Aveva programmato di morire a 103 anni, come la sua amica contessa
Perusini Antonini di Roccabernarda, detta la mamma del Picolit,
e, in attesa della quieta morte, bere con gli amici una bottiglia
di Quinta do Resurressi, un Porto prodotto da una contadina
anarchica con cui da giovane passò (forse) qualche giorno
e qualche notte. Non che abbia importanza, ormai. Come avrebbe
detto Prévert, “le jardin reste ouvert pour ceux
qui l’ont aimé”.
E, come hanno cantato e suonato quelli degli Ottoni a Scoppio
nel cimitero di Bergamo, la nostra idea è solo idea
d’amor.
Gianni Mura
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