Rivista Anarchica Online


tsunami

Le ginestre dello Sri-Lanka
di Carlo Oliva

 

Riflessioni leopardiane.

 

Dal punto di vista del giornalismo “classico”, quello per cui non vale la pena di fare del chiasso quando un cane morde un uomo e i titoli a piena pagina vanno riservati per quando si verifica l’avvenimento inverso, il cataclisma che ha devastato, all’alba del 26 dicembre, i paesi dell’Oceano Indiano non meriterebbe altro spazio che quello di un trafiletto.
Non c’era, in quell’evento, nulla di imprevedibile. Sappiamo tutto della deriva continentale, dei rischi di improvvisa rottura della faglia, della possibilità che i fenomeni geologici di quel genere mettano in movimento grandi masse d’acqua. Il concetto di “onda anomala” ci è tanto familiare, che un organo d’informazione abbastanza serio, come “Radio popolare” di Milano, ci fa da anni dello spirito sopra, utilizzando il termine come titolo di un’apprezzata trasmissione quotidiana di attualità. E poi, in fondo, l’Oriente, e il Sudest asiatico in particolare, è la terra per eccellenza delle grandi catastrofi naturali.
Centoventimila morti (quanti ne sono stati annunciati nei primi giorni) sono certamente tanti, ma, a parte il fatto che la cifra corrisponde – più o meno – a quella delle vittime dell’intervento umanitario in Iraq, si sa che in quegli immensi formicai umani le conseguenze delle catastrofi naturali hanno delle dimensioni inconcepibili.
Senza riandare troppo in là nel tempo con la memoria, chiunque può ricordare eventi consimili, a volte ancora più luttuosi, su cui, pure, l’opinione pubblica non si era, allora, particolarmente commossa. Un terremoto in Gujarat o in Cina, un’alluvione nel Bangla Desh, un tifone nelle Filippine… sono cose terribili, ma di quelle che, purtroppo, succedono.

Periodo dedicato alle vacanze

Sull’immaginario mediatico hanno giocato, evidentemente, altri fattori. Il fatto che la catastrofe abbia colpito, proprio in un periodo dedicato alle vacanze, un certo numero di “paradisi” tropicali, mete consuete del turismo occidentale di élite e di mezza élite, coinvolgendo un certo numero di visitatori occidentali, sorpresi dallo tsunami sulle spiagge, nei bungalow e all’ombra delle palme, non deve essere stato indifferente all’impatto emotivo che hanno avuto, qui da noi, le notizie da Ceylon, dalla Thailandia, dal Myanmar e dalle Maldive.
Nessuno, di fatto, si è preoccupato di quanto poteva essere successo in Somalia. Ma forse la considerazione, pur parzialmente fondata, è un po’ ingiusta e non del tutto esaustiva. Dopo tutto, anche gli ascoltatori medi dei telegiornali europei, se nessuno glielo impedisce, sono perfettamente in grado di ragionare e tutti abbiamo potuto estrapolare qualcosa dagli approssimativi reportage che ci giungevano da quei paesi.
Il fatto che la stessa disgrazia abbia colpito nel medesimo istante turisti e pescatori, indigeni di isole ancora primitive ed esercenti e animatori di locali alla moda, devastando con apparente indifferenza un gruppo di paesi abbastanza differenziati dal punto di vista socioeconomico, meritava certamente di essere percepito. Il destino non fa sconti a nessuno e la Moira può annullare in un attimo tutte le distinzioni, mettendo allo stesso livello le tribù ferme all’età della pietra, le “piccole tigri” del nuovo capitalismo asiatico e – naturalmente – i visitatori del Primo Mondo. Proprio perché la catastrofe, in parte, ci riguardava, anche noi occidentali abbiamo riscoperto, per un momento, il senso della nostra umana precarietà di fronte alle forze scatenate della Natura.
Anche questa, però, è una scoperta, se non proprio banale, di non altissima lega. Che la natura sia, nel suo complesso, indifferente alla sorte dei singoli, delle comunità, persino delle specie viventi, che possono, in qualsiasi momento, venir spazzate via con terrificante equanimità, è un concetto ben noto, se non forse all’esperienza quotidiana (che pure molto potrebbe insegnare in proposito), alla nostra cultura.
Chiunque abbia frequentato, con o senza profitto, una scuola media superiore, ha avuto l’occasione, più o meno gradita, di leggere quei versi della Ginestra del Leopardi in cui si avanza, a partire dalla riflessione su un’antica catastrofe quantitativamente assai più modesta del maremoto di Santo Stefano, un’ipotesi non troppo ottimistica sulla “possanza … dell’uman seme”, sulle reali potenzialità di quel genere umano “cui la dura nutrice, ov’ei men teme, / con lieve moto in un momento annulla / in parte, e può con moti / poco men lievi ancor subitamente / annichilire in tutto”.
Sono parole abbastanza difficili e concetti nettamente sgradevoli, ma ormai, senza stare a disturbare il Leopardi, a una concezione provvidenzialistica dei rapporti tra uomo e natura oggi non credono neppure le chiese.
Certo, in occidente, negli ultimi decenni del secolo scorso, si è abbastanza diffusa una scuola di pensiero che insiste soprattutto sui torti che il nostro tipo di società fa alla natura, con l’implicito sottinteso che se da questi torti ci si deciderà di astenersi non potremo non ricavarne una qualche ricompensa, ma questo è – appunto – un caso di provvidenzialismo di recupero, un sottinteso talmente infondato che nessuno, che io sappia, ha mai avuto il coraggio di esplicitarlo.
L’uomo non deve abusare della natura, ma non può aspettarsi, ahimè, che la natura ricambi il favore, perché la natura, per quanto la si antropomorfizzi, non è un’entità personale e certi fenomeni, comunque, vanno al di là, come origine e come conseguenze, della (sacrosanta) dialettica delle intemperanze ambientali.

Egualitarismo necessario

È noto (?) che nella Ginestra, il sorprendente testamento politico di un autore che di solito non si considera tale, si sostiene che l’unico mezzo attraverso il quale l’umanità possa sperare di eludere, in via provvisoria, la propria precarietà è rappresentato dall’organizzazione sociale.
Anzi, che la consapevolezza della necessità della comune lotta contro la natura (la dura nutrice) è l’unico fondamento serio dell’organizzazione sociale stessa, il solo che non si possa ridurre a “superbe fole”. Che è un’affermazione, nelle sue implicazioni, molto egualitaria e molto radicale, perché coinvolge in questo compito essenziale “tutti fra se confederati… gli uomini” e “tutti abbraccia / con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune” (vv. 129-134). Ma che in certe situazioni sia necessario quanto più egualitarismo (e quanta più radicalità) possibile è un’idea che lo tsunami dovrebbe far venire in mente a parecchi.
Non è difficile capire come, nel caso, agli effetti catastrofici del fatto naturale si siano sommati quelli ancora più letali di una struttura statale e internazionale finalizzata a tutt’altri obiettivi di quelli auspicati dal poeta. Mai come in questo caso si è visto come il problema, in frangenti di questo genere, non sia quello di governare, o almeno prevedere, il fenomeno (a quello la scienza moderna, bene o male, ci arriva) quanto quello di distribuire con equità tra le popolazioni a rischio le risorse, le competenze e, soprattutto, le informazioni.
E questa distribuzione, si sa, è resa impossibile dall’avidità sociale del capitalismo: una conclusione forse di stampo estremista, non particolarmente alla moda e difficile, quindi, da tirare (tanto è vero che tutti si sono ben guardati dal tirarla), ma cui non è facile sottrarsi.
Per salvare centinaia di migliaia di vite sarebbe bastato che ogni villaggio costiero di quei paesi fosse collegato via ponte radio con i centri di osservazione – una bazzecola, in questi tempi di telefonini – e dotato di una sirena per avvertire la popolazione, ma anche i manufatti primitivi come le radio riceventi e le sirene hanno un prezzo, vengono prodotti per essere venduti e se i governi interessati decidono di non comprarli perché hanno altre priorità economiche (che so, l’acquisto di armi o simili), nessuno li distribuirà gratuitamente.
Posta in questi termini, la questione va molto al di là delle polemiche sulla maggiore o minore avarizia con cui i paesi ricchi, Italia in testa (o in coda, dipende), hanno messo a disposizione i primi soccorsi. La riflessione cui bisogna applicarsi riguarderà la contraddizione tra la fondamentale eguaglianza presupposta della natura e l’ineguaglianza messa spietatamente in atto dall’organizzazione sociale. Nulla di nuovo o di originale: sono cose che si ripetono da secoli e si ritrovano agevolmente nei libri di scuola. Ma che finché restano lì, evidentemente, non servono proprio a nessuno.

Carlo Oliva