Tra
le carte di Ugo Fedeli che la moglie Clelia ha lasciato
all’Archivio Pinelli di Milano c’è
anche un consistente dattiloscritto che descrive l’azione
anarchica durante il ventennio fascista.
Questo dattiloscritto non ci risulta esser stato pubblicato
in forma di libro, come suggerirebbe la divisione in capitoli,
anche se non è escluso che una parte di queste
ricerche Fedeli le abbia pubblicate su vari periodici
sotto forma di articoli.
Qui di seguito pubblichiamo alcuni brani tratti da vari
capitoli che ci danno uno spaccato delle attività
anarchiche del periodo: in primo luogo la vita al confino,
che coinvolge centinaia di militanti; poi l’emigrazione
forzata, che ne coinvolge invece migliaia. |
Ugo
Fedeli
Le mense degli anarchici
(...). È nel 1928, dopo la fuga dall’isola di
Lipari di Carlo Rosselli, Emiliano Lussu e F. F. Nitti, che
sciolte per i confinati politici le colonie poste in alcune
isole poco sorvegliabili, soprattutto quella di Lipari, vennero
attivate e potenziate quelle della isole di Ponza e di Ventotene.
I primi centocinquanta confinati che sbarcarono a Ponza dal
piroscafo Garibaldi, provenienti da Lipari, portavano, con i
loro indumenti, anche le strutture della loro organizzazione
interna e, parlando sempre ed in modo particolare degli anarchici,
vi portavano le loro mense, la loro biblioteca abbastanza importante
e la loro cooperativa. «A Ponza» scrive Massimo
Salvadori nel suo libro Resistenza ed Azione, «gli
anarchici numericamente erano il secondo gruppo tra i confinati.
Non avevano niente del tipo classico dei lanciatori di bombe.
Quasi tutti operai, erano sempre disposti ad aiutare chiunque
ne avesse bisogno, erano animati da un profondo rispetto per
coloro che non la pensavano come loro, eccettuati i comunisti
ortodossi ai quali non perdonavano di aver distrutto nel 1918
il tentativo che tutti gli anarchici speravano allora venisse
compiuto di trasformare l’intera nazione russa in una
libera federazione di libere comunità di contadini ed
operai.
Venivano da tutte le parti d’Italia: dalla Sicilia come
da Milano, da Roma come da Livorno. Alcuni si dicevano individualisti;
la maggior parte leggeva Kropotkin e si diceva collettivista».
(...).
Quelli che erano stati precedentemente al confino avevano messo
su una piccola biblioteca di alcune centinaia di volumi. I confinati
ricevevano dal governo cinque lire al giorno; alcuni mangiavano
per conto loro; altri si erano organizzati in mense, a seconda
delle loro tendenze politiche.
Si facevano due pasti al giorno, ognuno di un piatto solo, ma
era sufficiente. Nel casermone vi era un locale adibito a spaccio
cooperativo, in un altro un gruppo di anarchici aveva messo
su un caffè i cui proventi andavano alla biblioteca.
Nel 1934, quando i primi confinati vi avevano già scontata
la loro pena e alcuni vennero rilasciati, il confino si andò
popolando anche di molti giovani, qualcuno cresciuto sotto il
fascismo, altri deportati dall’estero; molti di questi
non erano ancora trentenni e non facevano parte della prima
variopinta opposizione. Innanzi tutto i popolari erano spariti:
la chiesa benediva largamente i gagliardetti fascisti e i cannoni;
non vi era che qualche rarissimo liberale e repubblicano –
ma questo soprattutto perché facevano parte del movimento
Giustizia e Libertà – e qualche raro socialista.
In generale erano giovani comunisti e giovani anarchici e questi
apportavano, oltre che il loro ardore, anche nuove caratteristiche,
soprattutto nessun strascico delle vecchie polemiche interne
che avevano devastato ogni partito e tendenza.
Gli anarchici, anche se molti mangiavano isolati o in piccole
mense, erano riuniti in due grandi mense. Una era chiamata del
«convento nero», composta in maggioranza da vecchi
militanti, soprattutto romani, che provenivano da altre isole
ed avevano quasi tutti al loro attivo il raddoppio della condanna
perché, finiti i primi cinque anni, non essendosi ravveduti
ne avevano ricevuto altri cinque. Vi era poi la mensa degli
«acquatici», definita così perché
in mensa non si distribuiva vino e la maggioranza non ne beveva.
Questa era composta da qualche militante livornese, anche se
il nucleo centrale era formato da giovani anarchici deportati
dall’Argentina e dall’Uruguay, quali Grossuti, Barca,
De Marco, Barbetti, Bidoli (che era stato invece deportato dalla
Spagna), e da un altro gruppo di giovani molto capaci e sinceri.
Anche se non vi erano molti intellettuali fra di loro, il tono
delle discussioni e il loro comportamento, in generale, era
sempre elevato. A questa mensa aveva aderito anche Paolo Schicchi
quando dal carcere venne inviato al confino.(...).
Alfonso Failla
Qualche agitazione tra i
confinati
(...). Benché i cameroni fossero guardati internamente
ed esternamente, giorno e notte, da pattuglie di polizia e dalla
milizia fascista, venne impartito l’ordine di tenere le
porte dei cameroni aperte e le luci accese, proibendo ad uno
di un camerone di frequentarne un altro. Con questo si voleva
soprattutto levare la possibilità di studiare. Era con
gioia veramente sadica che quegli analfabeti volevano strappare
ai confinati anche quell’ultimo rifugio che era lo studio,
nel quale ognuno cercava di affinare le proprie conoscenze,
ma anche di dimenticare la dura vita di disciplina e di soprusi.
Se si ricevevano libri da parte di privati, venivano sequestrati.
Se se ne volevano comprare, bisognava spiegare alla direzione
o all’ufficio censura il perché; ed a volte un
libro veniva autorizzato o rifiutato a seconda che il richiedente
fosse un operaio o un contadino o un intellettuale.
Per gli studi non si potevano tenere note. Per poter scrivere
era indispensabile avere un quaderno le cui pagine erano contate,
numerate e controllate una ad una dalla polizia, pagine che
per nessuna ragione potevano essere strappate.
La direzione faceva di tutto per far piombare nell’istupidimento
o nella violenza il confinato, per disgregare gli aggruppamenti
che nonostante tutte le restrizioni si era riusciti a creare,
lottando per conservarli. Con queste sue misure la direzione
pensava di poter arrivare con maggiore facilità a realizzare
il tentativo di spezzare la resistenza di ognuno e di spingere
i meno resistenti a cedere, ad abbandonare ogni velleità
d’indipendenza di pensiero e di vita.
Chiunque intendesse difendere il proprio diritto alla vita ed
alla dignità d’uomo, era costretto ad una continua,
anche se sorda, lotta contro la direzione. La lotta era certamente
impari e le varie agitazioni che si ebbero al confino e che
assunsero un fermo carattere di resistenza, non riuscirono che
a dimostrare come fosse difficile far valere un diritto o impedire
un sopruso. In favore dei confinati, oltre alla propria dignità
e volontà, non vi era nulla. La stessa legalità
fascista non valeva nei loro confronti: il confinato era un
nemico che andava spezzato, abbattuto, e tutto era valido e
buono per arrivare a questo risultato. «Voi non siete
qui per fare della villeggiatura né per vivere tranquilli»
ebbe a dire il direttore Di Meo a qualche confinato che si era
recato da lui per protestare contro un sopruso più grande
dei soliti, «siete qui per punizione e ci devono essere
delle punizioni». E concludeva ogni sua concione, da piccolo
dittatore: «Del resto qui comando io e faccio quel che
voglio». Da una mentalità del genere si possono
facilmente dedurre i metodi che ne scaturivano.
Anche i confinati però erano duri. Vi era dignità
e fermezza, e contro la fermezza dei confinati, ministero e
direzione batterono dei colpi feroci che costarono lunghi mesi
di carcere, così a Ponza nel 1933 e nel 1935, così
a Tremiti, quando ad esempio si tentò di imporre il saluto
romano obbligatorio e i confinati, in gran parte anarchici,
preferirono andare in prigione per un anno piuttosto che cedere.
Fra i partecipanti a questa agitazione ricordiamo, fra i numerosi
nomi, quelli di Alfonso Failla e Santiago Barca.
I fatti di Tremiti avvennero in seguito ad un tentativo da parte
delle autorità di spezzare l’omogeneità
e la resistenza dei confinati. Essa pensò di separare
una parte di confinati di Ponza mandandoli all’isola di
Tremiti, dove si era trasformato quell’arido scoglio in
una nuova colonia di confinati politici, e vi avviò un
centinaio di confinati, fra i più giovani che si trovavano
a Ponza. Appena giunto questo contingente, il direttore della
colonia di Tremiti emise un’ordinanza che imponeva ai
confinati di salutare romanamente i «superiori»
quando li si incontrava, di salutare romanamente quando si entrava
in direzione, quando si rispondeva all’appello e in tutte
le occasioni che comportavano un rapporto fra confinato e autorità.
L’ordinanza creò subito uno stato di agitazione
e la risposta dei confinati fu la sola possibile: il rifiuto.
Avvennero nuovi arresti e nuove condanne e quasi tutto il gruppo
partito da Ponza andò a finire nelle carceri di Lucera.
Gli arrestati all’isola di Tremiti per il rifiuto di salutare
romanamente – fra i protestanti numerosissimi erano gli
anarchici già recidivi al rifiuto – furono più
di cento. Affrontarono la punizione e fecero un anno di carcere
tenendo sempre duro, e il saluto fascista non venne più
richiesto.
La triste processione di confinati protestatari che da Tremiti
sbarcavano a Manfredonia per raggiungere in carrozzella, in
littorina o a piedi, le carceri di Foggia, Lucera e San Severo
colpiva la popolazione e destava se non altro curiosità
richiamando l’attenzione pubblica sui confinati. Furono
le autorità a cedere. Il governò comunicò
che sarebbero rimasti all’isola di Tremiti quanti avessero
accettato di alzare il braccio. Gli altri, dopo aver scontata
per la seconda volta la loro condanna in carcere, sarebbero
stati trasferiti a Ponza. […]
Un’altra agitazione molto caratteristica che i confinati
dovettero sostenere all’isola di Ponza nel 1932 è
quella che culminò nello sciopero della corrispondenza.
I confinati dovevano consegnare tutte le lettere senza chiuderle
e quelle in arrivo erano loro consegnate del pari aperte. Gli
addetti alla censura erano semplici poliziotti che nei casi
speciali e dubbi sottoponevano il caso o la corrispondenza al
vicedirettore della colonia; ma erano tipi piuttosto ignoranti
e grossolani i quali si facevano un merito a raccontare in paese
tutti gli interessi dei confinati e le loro cose più
intime.
In proposito avvennero casi di evidente intromissione in fatti
personali che, in altri momenti, avrebbero portato a seri provvedimenti
contro i responsabili. Anche i pacchi in arrivo erano esaminati
con cura e molti sequestrati.
Lo sciopero della corrispondenza
Ricordo un piccolo episodio personale che riguarda mio figlio,
il quale allora aveva forse quattro anni. Un’amica di
famiglia, la governante della famiglia Bauer, arrestata più
volte anche lei per attività antifasciste, aveva inviato
a mio figlio un pacchetto contenente due giocattoli e un dolce.
Il pacco venne aperto, come di norma, in mia presenza, ma il
contenuto venne subito sequestrato perché l’indirizzo
dello speditore non era quello della mia famiglia. «Ecco»
disse l’agente della censura, «questi saranno un
bel regalo per i nostri balilla». Mio figlio, per ragioni
che tutti capiranno, non poté mai avere un giocattolo.
Oltre a tutte queste difficoltà la direzione, per ordine
del ministero, emise una disposizione che proibiva ai confinati
di scrivere se non agli strettissimi parenti. Si cercò
di ottenere un addolcimento di quelle norme restrittive, ma
non si approdò a nulla.
Si pensò allora di protestare in maniera radicale: non
scrivere più a nessuno. Così ebbe inizio lo sciopero
della corrispondenza. Decidere di non scrivere più significava
non rispondere, per nessuna ragione, né alle lettere
né ai telegrammi che le famiglie allarmate dal lungo
ed inaspettato silenzio inviavano. Non ottenendo nessuna risposta
né a lettere né a telegrammi, molte famiglie incominciarono
a chiedere notizie, oltre che alla direzione della colonia anche
al ministero degli interni: era quello che si voleva. La direzione
cercò di fare pressione e chiamava all’ufficio
censura gli interessati per incitarli a rispondere almeno alle
lettere urgenti e ai telegrammi.
Tutti si rifiutarono, cosicché in breve tempo da parte
dei familiari si elevò un vero coro di proteste da ogni
parte d’Italia. Per assicurarsi che nessuno scrivesse,
venne stabilito da parte di tutti i confinati, turni di guardia
per vigilare la cassetta della posta che si trovava all’ingresso
dei cameroni. Veniva fatto un turno di guardia di un’ora
a testa per non destare sospetti, appostati in un angolo o nell’altro,
da dove si poteva tenere d’occhio chi si appressava alla
cassetta. Nessuno scriveva, ad eccezione fatta dei “manciuriani”,
nonostante che la direzione, venuta a conoscenza che si faceva
la guardia alla cassetta della posta, avesse fatto installare
una cassetta supplementare in un angolo dei suoi uffici, fuori
dalla possibilità di sorveglianza dei confinati. Questa
volta (ma poi venne ristretta ai soli strettissimi parenti)
il ministero dovette cedere. Dopo un mese di sciopero il direttore
comunicò che il ministero, aderendo alle nostre richieste,
aveva stabilito che si potesse corrispondere con chi si voleva
a condizione però di presentare una lista delle persone
con le quali si volevano mantenere relazioni epistolari. Così,
aggirando l’ostacolo, il ministero dette ordine alla polizia
di fare un’inchiesta sulle persone che avevano relazioni
con i confinati, di chiamarle in questura e dimostrare loro
che, a scanso di possibili disturbi, era meglio che cessassero
ogni relazione con i confinati. Ed ogni volta che uno di questi
corrispondenti, pur di avere un momento di pace, sottoscriveva
la dichiarazione impostagli dalla questura, il confinato veniva
chiamato all’ufficio censura dove gli si comunicava con
grande soddisfazione che questo o quel parente od amico si rifiutava
di continuare a corrispondere, quindi di non scrivere più
a quell’indirizzo.
Ponza 1934 e 1935
Una delle ultime agitazioni, certamente una delle più
importanti ed estese sostenute dai confinati politici relegati
all’isola di Ponza, è quella avvenuta nel 1934,
che ebbe una ripresa, forse più dura, nel 1935.
Essa era diretta contro un’ennesima ordinanza della direzione
e del ministero che fra l’altro proibiva ai confinati
di avere camerette in paese, imponendo a chi le aveva di lasciarle
nel termine di dieci giorni; proibiva inoltre ai confinati di
entrare nelle abitazioni dei privati e dei confinati che avevano
casa e assegnava alla direzione la gestione delle mense. Era
indubbiamente un colpo grosso, forse quello che in una sola
volta tentava di stroncare ogni possibilità ai confinati
non solo di studiare, ma anche di pulirsi e soprattutto conservare
una certa sensazione di possedere ancora una vita propria. Soprattutto,
questa ordinanza obbligava i confinati a passare le loro giornate
a bighellonare nelle strade, quasi senza parlarsi perché
non potevano riunirsi in gruppi superiori a tre. L’agitazione
si svolse come al solito e sull’inizio nessuno pensava
al peggio che stava per venire. «Il giorno in cui doveva
andare in vigore l’ordinanza ci riunimmo in un camerone»
scrive Mario Magri nel suo libro di ricordi, «per decidere
il da farsi. Tolti i soliti “manciuriani”, tutti
i confinati erano d’accordo che non si poteva accettare
supinamente una tale nuova vessazione; decidemmo quindi di inviare
una commissione dal direttore e di non uscire dal camerone per
essere pronti a tutte le eventualità.
Il comando della milizia fece bloccare il bagno penale e le
camerette; pattuglie armate si misero a perlustrare i corridoi
per cercare di intimidirci e di provocarci. Noi restammo tutti
ai nostri posti senza rispondere alle loro minacce ed ai loro
insulti avendo ben compreso che cercavano di suscitare in ogni
modo un incidente per poter infierire su di noi». Dai
confinati fu nominata una commissione che andasse a trattare
colla direzione. Nei locali direzionali si erano riuniti anche
tutti gli ufficiali della milizia, i marescialli delle guardie
di PS e dei carabinieri; i locali erano completamente bloccati
da un folto gruppo di agenti e di militi fascisti.
Dalle discussioni risultò subito che le cose avrebbero
potuto trovare una soluzione accettabile. Ma le discussioni
andarono per le lunghe, forse più di due ore, e i confinati,
ammassati nei cameroni, iniziarono ad innervosirsi e cominciò
a circolare la voce che la protesta, per riuscire, doveva prendere
forme più decise e che il meglio era di consegnare le
carte di permanenza e farsi arrestare. Così avvenne in
parte.
L’atto fu compiuto solo da un centinaio di confinati,
gli altri, la maggioranza voleva riservare quest’arma,
l’ultima, nel caso che la direzione non cedesse. Al ritorno,
la commissione andata a parlamentare con la direzione affermava
di aver ottenuto dal direttore l’impegno che avrebbe ritirato
l’ordinanza a condizione che l’agitazione cessasse
immediatamente. Vi fu un momento di perplessità, poi
molti degli stessi che avevano consegnato la carta di permanenza
si accorsero di aver almeno precipitato le cose, se non proprio
di avere fatto un passo falso. Una nuova commissione venne mandata
in direzione per vedere di accomodare le cose. Dopo animato
discorrere, il direttore disse che i dimostranti potevano presentarsi
in ufficio, riprendere i libretti e che tutto sarebbe finito.
La cosa non piacque a tutti e molti fra quelli che avevano consegnato
il libretto affermarono che non l’avrebbero ritirato ma
«che doveva essere la direzione a rimandarglielo».
Fu nominata una nuova commissione questa volta composta solo
da due confinati fra quelli che avevano consegnato il libretto
e mandata dal direttore. Mentre però si svolgevano ancora
tutte queste trattative, arrivava un telegramma dal ministero,
avvisato dal comando della milizia, che ordinava l’arresto
di tutti quelli che avevano preso parte alla protesta consegnando
la carta di permanenza e dei componenti delle varie commissioni.
L’agitazione aveva ottenuto però i suoi effetti
perché la direzione non applicò l’ordinanza
anche se il direttore, ritenuto incapace dalla milizia, venne
subito dopo trasferito. Passò qualche mese di relativa
calma quando, nel febbraio del 1935, la direzione confinaria
di Ponza tornò a mettere in vigore l’ordinanza
ritirata nel 1934. Prima di applicarla, forse per rendersi conto
dell’umore e della resistenza dei confinati, fissò
un termine di dieci giorni. Nuove proteste, ma questa volta
irremovibilità da parte della direzione, allora tenuta
dal commissario di PS Coviello. Tutti i confinati erano convinti
che bisognasse fare qualcosa, ma non tutti erano d’accordo
sulle modalità della protesta. Quelli che avevano consegnato
i libretti nel 1934, pensando che allora il ritiro dell’ordinanza
fosse dovuto alla loro azione, proponevano nuovamente lo stesso
metodo. La direzione era ferma nell’applicare l’ordinanza
che affermava gli era imposta dal ministero, e i confinati nel
non volerla accettare.
Così, dopo lunghe discussioni fra i confinati, si addivenne,
al fine che la protesta riuscisse imponente e vi aderisse il
maggior numero di confinati, che bisognava consegnare la carta
di permanenza. Infatti, il giorno in cui l’ordine doveva
andare in vigore, i confinati, presentandosi all’appello,
consegnarono i loro libretti. Fu una protesta quasi plebiscitaria.
Non vi parteciparono i “manciuriani” e i politici
che erano stati dispensati dai loro compagni perché incaricati
di tenere in vita le iniziative che più a loro premevano
come le mense, le biblioteche e gli spacci. Trecento circa furono
i politici di Ponza che presero parte all’agitazione e
tutti furono arrestati e inviati al carcere napoletano di Poggioreale.
[…]
Ora, se le varie grandi agitazioni che si svolsero al confino
non servirono che a dimostrare quanto fosse duro lottare contro
la direzione, d’altra parte risultò chiaro e preciso
che la galera non era un mezzo sufficiente a spezzare o anche
solo a piegare la resistenza dei politici, né a spegnere
il loro ardore di lotta. Anzi, ogni violenza ed ogni nuovo arresto
suscitavano sempre più vivo e profondo il legame di solidarietà
che univa tutti ed un’acuta sensibilità portava
tutti questi uomini obbligati a vivere su uno scoglio, nonostante
le differenze di ideali e di metodi di lotta e di azione, gli
uni a difendere gli altri perché così facendo
ognuno sapeva di difendere anche se stesso e la propria dignità,
il principio di libertà e di giustizia che li animava.
(...).
Un gruppo di confinati a Ponza
Il prete e il passaporto
Se nei primi anni l’emigrazione politica italiana poteva
trovare in Francia una parvenza di libertà che permise
anche agli anarchici di continuare la lotta contro il fascismo,
in seguito, per la continue pressioni esercitate dal governo
fascista, anche in Francia si incominciò ad arrestare
e ad espellere su larga scala. Chi era costretto a lasciare
la Francia cercava asilo nel Belgio, nel Lussemburgo e, quando
proprio non ne poteva più, in qualche Paese d’oltreoceano.
I rifugiati politici espulsi, soprattutto se erano anarchici,
erano continuamente sballottati da una frontiera all’altra.
Dalla Francia al Belgio, al Lussemburgo, all’Olanda e
viceversa, sempre senza documenti e nella impossibilità
di trovare lavoro ed una qualsiasi sistemazione.
I consolati erano stati trasformati in luoghi di polizia e in
covi di spie e di agenti provocatori, dai quali era bene poter
restare lontani. Quando qualcuno spintovi dalla disperazione
vi si rivolgeva per avere le carte necessarie ad ottenere lavoro,
non solo non era ricevuto, ma era quasi sempre denunciato alle
autorità del luogo che si facevano premura di arrestarlo
ed espellerlo.
In tali condizioni, anche dopo il caso di Modugno, si comprende
come si andassero ripetendo gli attentati contro i consolati
e gli agenti consolari. Ai primi del novembre 1928, un militante
anarchico, Angelo Bartolomei, domandava al prete Cavaradossi,
che fungeva da viceconsole a Joeuf, il rinnovo del passaporto.
Sapendolo antifascista, questo prete rispose che non poteva
concedergli nessun rinnovo perché risultava condannato
in Italia a diciassette mesi di carcere e a 4.500 lire di multa
per alcuni articoli scritti contro il governo. Ma aggiungeva
che gli avrebbe potuto premettere il rinnovo solo a condizione
che si mettesse in relazione epistolare con alcuni antifascisti
della regione, in Francia o in Belgio, incitandoli a commettere
atti di terrorismo o di espropriazione. Gli individui compromessi
avrebbero risposto al Bartolomei e le lettere avrebbero dovuto
essere consegnate al prete viceconsole che, a sua volta, le
avrebbe trasmesse al console di Nancy. Il Cavaradossi aggiungeva
che, se il Bartolomei avesse accettato tali condizioni, avrebbe
potuto avere il passaporto e la libertà di rientrare
in Italia. Era un vero e proprio incitamento alla provocazione
ed un uomo che si sentiva ancora tale non poteva che ribellarvisi.
Alle insistenti proposte del Cavaradossi, il Bartolomei rispondeva
con un colpo di pistola e veniva arrestato mentre cercava di
trovare riparo in Belgio. Ai giudici spiegava poi in dettaglio
come si erano svolte le cose: «Volendo approfondire lo
scopo che si proponeva il prete, finsi di accettare le condizioni.
Qualche giorno più tardi, cioè l’8 novembre,
rividi di nuovo quel prete nella via e mi incitò a consegnargli
i documenti richiestimi. Qualche giorno dopo queste insistenze,
l’idea di sopprimerlo si fece strada in me, preferendo
divenire assassino piuttosto che traditore. Uscii e fui da un
libraio. Mi procurai della carta da lettere e feci un pacchetto
che legai con della cordicella rossa. Andai in un bosco dove
avevo nascosto delle armi, mi munii di due revolver automatici.
Così armato ritornai nell’ufficio del prete. Egli
mi raccontò subito che Gamberini, un altro anarchico,
era stato espulso dalla Francia e che altri sessanta italiani
di Joeuf e di Homécourt erano proposti per l’espulsione,
precisando che io figuravo in quella lista.
Il prete insistette perché io abbandonassi le mie opinioni
e entrassi nei ranghi fascisti. Quindi mi domandò i documenti
promessi. Gli rimisi la carta che mi ero procurata e nel medesimo
tempo levai il mio revolver e sparai tre colpi». Riuscito
a fuggire dalla Francia, verrà però arrestato
al varcare la frontiera del Belgio. Sottoposto a procedimento
di estradizione, sarà salvato dalla vasta agitazione
che tanto in Francia che in Belgio avrà luogo.
Quella dello spionaggio e della provocazione è sempre
stata una delle malattie caratteristiche del fascismo, così
come del fascismo erano caratteristici quei consolati. Un altro
caso esemplare è quello dell’operaio anarchico
Gino D’Ascanio. Espulso dalla Francia perché anarchico,
si rifugiò in Belgio da dove venne subito espulso. Fu
in Olanda e nel Lussemburgo, dove subì la stessa sorte.
Senza documenti, le espulsioni avvenivano a catena. Ridotto
alla disperazione, nel maggio del 1930, dopo aver richiesto
i documenti al console italiano del Lussemburgo ed averne avuto
un ennesimo rifiuto, sparava contro un impiegato particolarmente
provocatore di quel consolato.
A Saint Raphael, il 23 agosto 1929, avveniva un attentato di
protesta contro il console di quella località, il marchese
Di Muro, che se la cavò con qualche scalfittura.
Nel settembre del 1929, l’operaio Enrico Manzuoli (Morano)
veniva aggredito a Saarbrucken durante una manifestazione di
caschi d’acciaio. Vedendosi sopraffatto dal numero, sparava
alcuni colpi di rivoltella: uccideva un aggressore e ne feriva
tre. Processato alle Assisi di Saarbrucken il 3 luglio 1930,
si dichiarava anarchico e dolente solo di non aver potuto colpire
i più alti responsabili del fascismo. Si buscò
una condanna a sei anni. L’elenco dei colpi e dei contraccolpi
di questo interminabile stillicidio potrebbe continuare per
pagine e pagine. (…).
Ugo Fedeli
Tratto dal n. 5 (luglio 1995) del “Bollettino”
del Centro Studi Libertari.
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