Quando te lo dicono
non ci credi. Poi arrivi di notte con l’aereo a Città
del Messico (popolazione stimata 20-22 milioni di abitanti)
e da quando iniziano le luci ci vogliono 10 minuti di sorvolo
della città prima di atterrare. Il mare di luci ha delle
grandi macchie buie all’interno e solo di giorno si comprende
che sono colline rocciose non ancora “conquistate”
dal mare di abitazioni; piccole, da uno-due piani, color grigio
cemento. È gennaio, ma ci sono un sacco di arrivi e il
controllo passaporti è simile a quello subito negli Stati
Uniti, a parte le impronte digitali (indice sinistro e destro)
e la foto. Mi secca, ma ora sono schedato nel gigantesco database
statunitense, per non esserlo avrei dovuto spendere 200 euro
in più per il biglietto aereo o prenotare con sei mesi
di anticipo le tariffe più convenienti via Madrid. Con
quella cifra dormo e mangio una settimana in Messico.
A Città del Messico puoi fare il turista e restare nella
zona residenziale centrale, vicino alla piazza dello Zòcalo
dove ci sono la cattedrale e il palazzo presidenziale, o trovarti
un hotel nella zona rosa; allo stesso prezzo trovi alberghi
migliori, tutto moderno, shopping center, locali e divertimenti
a volontà. Oppure puoi fare l’alternativo e trovare
come scusa che c’è il quarto congresso internazionale
di geografia critica per avere una permanenza un pochino diversa.
L’albergo in realtà è un hostal, cioè
una specie di ostello della gioventù con letti a castello
e camere di diverse dimensioni, che però ha anche stanze
“private”, cioè due letti (o matrimoniale)
con servizi privati. Mai trovato nulla di più essenziale:
in stanza oltre al letto c’è solo una cassa di
metallo dove si può mettere la valigia e chiuderla se
hai il lucchetto. Niente comodini, niente sedie, niente di niente.
“Centri
commerciali”
Meglio stare nella città vecchia se vuoi vivere un poco
di reale vita locale, perché il quartiere degli alberghi
nuovi è un’area standardizzata di tipo… ormai
“internazionale”. Vicino allo Zòcalo tutti
i giorni c’è la calata dalle zone periferiche di
migliaia di venditori ambulanti (e di compratori) che si piazzano
sulla strada e sul marciapiede davanti a negozietti che vendono
sostanzialmente le stesse cose. Varie parti del centro città
si trasformano in “centri commerciali” specializzati
(dai casalinghi ai CD-DVD copiati). Una passeggiata attraverso
questi mercati consente di cogliere le profonde differenze di
reddito e di come ci si possa (o debba) arrangiare per portare
a casa qualche soldo ogni giorno. Per noi i prezzi sono sicuramente
convenienti, soprattutto da quando il dollaro ha perso valore
sull’euro. Il consiglio che ti danno tutti prima di partire
è quello di non mangiare e bere dai banchettini in strada
e nemmeno nei ristorantini per i locali; c’è da
dire che l’aspetto di questi posti è già
un deterrente visivo, per noi che viviamo sempre più
in ambienti che vorrebbero essere o sembrare “igienici”,
dove si mangiano prodotti confezionati con scadenza.
Il centro è presidiato da vigili e polizia; praticamente
ad ogni angolo nella zona residenziale borghese dove si trovano
gli hotel, i grandi magazzini e i negozi “seri”
e dove le bancarelle non possono stare, ma i mendicanti sì.
Ce ne sono una discreta quantità, ma ne ho visti di più
(homeless) a Washington e soprattutto non così discreti
e dignitosi come quelli di Città del Messico. Il presidio
militare sembra che sia necessario per i grossi problemi di
microcriminalità nei confronti dei turisti.
Pancho
Villa e Emiliano Zapata
Stile modernista
o hispanico-coloniale
Sarà anche per quello, ma in centro si gira rilassati
gustandosi lo stile architettonico misto con qualche prezioso
esempio di palazzo in stile modernista o hispano-coloniale.
L’ansia ti prende se devi prelevare di sera dai bancomat
locali e allora ti guardi in giro per cercare di capire se i
due giovani che stazionano dall’altra parte della strada
possono essere pericolosi.
Città del Messico è enorme perché negli
ultimi decenni ha continuato ad ingrossarsi per il continuo
arrivo di gente proveniente da tutte le parti del Messico. L’occupazione
del suolo è stata progressiva e sistematica. Su tutte
le aree pianeggianti, poi su quelle leggermente collinari, e
poi anche sui fianchi delle colline già urbanizzate,
c’è stata una continua opera di occupazione/costruzione
di piccoli edifici, che seguono la prima fase fatta di baracche
costruite con materiali di fortuna.
Niente acqua e elettricità all’inizio, poi l’energia
si ruba e l’acqua si compra dalle autobotti; infine si
viene “riconosciuti”, ma l’acqua arriva solo
quattro ore alla settimana e si riesce (a prezzo di lotte e/o
scambio politico-elettorale) a far pagare alla municipalità
una parte dell’acqua che si compra dai privati.
La parola fognature ha scarso significato qui. Le case sono
individual-famigliari, una accanto all’altra (o anche
una dentro l’altra), piano terra e primo piano con quegli
spuntoni di tondino di ferro cementati che noi italiani conosciamo
bene, soprattutto nelle aree meno ricche (e spesso abusive)
del nostro sud.
Il materiale da costruzione è il cemento, sia per le
strutture che per i blocchetti che fanno da mattoni per le pareti.
Colore dominante il grigio, tranne che nei casi di chi ha avuto
abbastanza soldi per dipingersi la casa (a colori vivaci, spesso)
o dove ci sono dei negozi. Le aree periferiche sono divise in
“colonias” e gli abitanti si definiscono colonos
nei loro manifestini di comunicazione politica.
Questa è la cosa che nessuno ti dice e di cui nessuno
parla: che qui c’è una vivacità di gruppi
auto-organizzati che allarga il cuore a noi decadenti e mediatizzati
… intellettuali progressisti.
Però qui la non completa “istituzionalizzazione”
della società, cioè la scarsa efficienza e presenza
dello stato nel territorio, ha come conseguenza la presenza
di molti e gravi problemi non risolti, ma anche una maggiore
possibilità di auto-organizzarsi e di esercitare pressioni
politiche. Sul problema della mancanza d’acqua la mobilitazione
degli attivisti e degli abitanti delle colonias ha costretto
il governo municipale e quello federale a pagare parzialmente
la fornitura di acqua tramite autobotti private. Lo stesso si
è verificato per una serie di iniziative di “resistenza”
e di proposta che sono venute dal basso. A San Miguel Teotongo,
area periferica composta da una ventina di colonias, circa 350.000
abitanti c’è un solo presidio ospedaliero pubblico
su sei; gli altri cinque sono il risultato di lotte lunghe e
spesso dure (cioè la polizia … picchia e mette
dentro) per costringere vari uffici pubblici a fare quello che
dovrebbero, o almeno a tirare fuori i soldi.
Come dovunque c’è una bella differenza di consapevolezza
tra gli attivisti e la “gente”, ma gli obiettivi
sono così fondamentali (ospedali, scuole pre-elementari,
centri sociali, ecc.) che il sostegno degli abitanti arriva.
Però bisogna essere costanti e attivi nel corso del tempo;
a San Miguel Teotongo i colonos hanno festeggiato quest’anno
i 29 anni della loro Union Popular e ci hanno portato con orgoglio
a vedere il piccolo centro ospedaliero (maternità e problemi
neonatali; sei posti letto) che sta per essere completato. Le
sue strutture nuove e un poco ricercate nell’architettura
sono un’isola di qualità in un mare di casette
autocostruite e brutte a vedersi. I rappresentanti del comitato
promotore ci spiegano che hanno lottato duramente per impedire
che il terreno vuoto venisse destinato ad un centro commerciale,
prima scelta dei politici della delegaciòn per “venire
incontro alle esigenze della gente”. Dopo scontri di piazza
e numerosi incontri nella colonia si è arrivati ad una
assemblea pubblica dove la proposta dell’ospedale ha ottenuto
una schiacciante maggioranza e i politici hanno dovuto rassegnarsi.
Certo il voto è stato espresso solo da poco più
di duecentocinquanta persone, ma nelle strade la “resistenza”
l’hanno fatta in molti di più e gli attivisti sono
stati un gruppo costantemente presente, che segue ora le fasi
della costruzione e cioè tratta con l’architetto,
col direttore del cantiere, oltre a controllare i conti e la
gestione dei finanziamenti.
Attivismo e
gestione quotidiana
Questa è la costante delle varie realtà territoriali
che abbiamo visto: un centro sociale, un centro per bambini
in età prescolare con annessa biblioteca, un centro ambulatoriale
di medicina tradizionale (erbe e simili). Sono tutte esperienze
nate dalla volontà di un gruppo cosciente locale, sostenuto
dall’appoggio degli abitanti e da un gruppo di attivisti
che ha seguito costantemente le fasi della lotta e ora continua
l’attivismo seguendo la gestione quotidiana dei centri.
Ogni “progetto” ha un comitato di gestione specifico
che si riunisce periodicamente. Quasi tutti volontari, ma in
qualche caso sono riusciti ad ottenere che uno del posto venisse
pagato per garantire una presenza stabile e continuativa (il
bibliotecario, la direttrice del centro di medicina tradizionale,
ecc.). Le fonti di finanziamento sono molto varie e stupisce
la capacità di attivare accordi con diversi enti pubblici
(l’università, la municipalità, il governo
federale e/o quello statale).
Molte le donne presenti nel gruppo di attivisti e la percezione
di una leadership diffusa, anche se i maschi hanno ancora una
maggiore visibilità nei ruoli di relazione con l’esterno
(politici e istituzioni), mentre le femmine sembrano più
presenti nella gestione quotidiana delle attività.
Ovunque le foto di Emiliano Zapata, con bandoleras di pallottole
incrociate sul petto e fucile alla mano o al piede. Certo con
qualche inquinamento della “purezza rivoluzionaria”
come l’accostamento delle foto di Pancho Villa, Zapata
e Madero con quella di Venustiano Carranza che Zapata e Villa
hanno combattuto duramente. Ma è stato un presidente
messicano e non si può chiedere troppo.
I centri sanitari autogestiti svolgono un ruolo importante.
In Messico la sanità è gratuita e per tutti, ma
non copre tutte le necessità come da noi e oltretutto
non è sufficiente (poco presente sul territorio, soprattutto
nelle periferie) per soddisfare le richieste: Ecco perché
ambulatori e simili sono spesso le prime rivendicazioni dei
comitati di lotta. Si notano grandi farmacie (spesso con inferriate
tra clienti e banconi) che vendono medicine “simili”
a quelle di marca; sono o dovrebbero essere i cosiddetti generici,
come vengono chiamati da noi. Anche molti altri tipi di negozi
hanno le inferriate e questo sottolinea la portata delle tensioni
sociali e della povertà. Qui le famiglie vivono con meno
di 300 dollari al mese e quasi tutti hanno un parente negli
USA che manda qualcosa.
Ricardo
Flores Magon, anarchico messicano, dal cui giornale "Regeneracion"
gli zapatisti ripresero la parola d’ordine di “Tierra
y Libertad”
Libertari nella
pratica
Il problema dei trasporti è difficilmente risolvibile
dalla municipalità, per i costi insostenibili e anche
per il modo in cui si è sviluppata la città. C’è
la metropolitana che però non arriva in periferia. Ci
sono alcune linee di autobus pubblici, ma il grosso del trasporto
viene assolto da ditte provate che gestiscono pullman e pulmini
di varie dimensioni che raggiungono le strette vie dei quartieri
più periferici e disagiati; inoltre c’è
una diffusa presenza dei taxi bianchi e verdi (regolari o abusivi),
la gran parte maggiolini ex Volkswagen. Fa impressione da quanti
sono soprattutto per quelli di noi che ne hanno una memoria
visiva ormai scomparsa in Europa.
Le impressioni che lascia la visita delle colonias è
ambivalente. Da un lato si rimane colpiti dalla povertà
e dalla marginalizzazione socio-economica di così tanta
gente, ma dall’altro è galvanizzante vedere i risultati
concreti che questi gruppi di attivisti sono riusciti a raggiungere.
Bello, bellissimo vedere tante foto e disegni di Emiliano Zapata.
A domanda precisa dicono di non essere a conoscenza dell’influenza
del pensiero anarchico sulle idee di Zapata, ma la cosa non
è rilevante. Sono libertari nella pratica anche se mischiano
qualche falce e martello con il fucile di Zapata.
Alla fine della visita il gruppo degli attivisti ci lascia gridando
in coro e a pugno alzato “Zapata vive! La lucha sigue!
Si Zapata viviera, con nosotros estuviera!” Non c’è
bisogno di tradurre. Se non si capiscono le parole è
molto chiaro il senso di partecipazione e di determinazione
che allarga il cuore. Viva Zapata!!
Fabrizio Eva
|