La rivoluzione democratica
greca è il frutto di una duplice rottura. Da un lato
con i resti di un’organizzazione sociale primitiva che
non è così distante nel tempo e che segna ancora
la società con il marchio di un certo fatalismo; dall’altro
con il ricordo della civiltà micenea, una civiltà
di palazzo come la maggior parte di quelle prime civiltà
che spuntavano qua e là sul pianeta. Uno dei momenti
storici più noti della transizione alla democrazia
è la “rivoluzione degli spiriti”, che si
attua tra l’VIII e il VII secolo a. C. strutturandosi
attorno alla rappresentazione di un cosmo retto dall’eguaglianza
e dalla simmetria. Qualsiasi squilibrio (la malattia, per
esempio) è concepito come attinente al dominio (monarchia)
di un elemento sugli altri, mentre il buon ordine delle cose
rimanda a una “legge di equilibrio e di costante reciprocità”.
Questo nuovo ordine del mondo si traduce immediatamente in
una straordinaria preminenza della parola su ogni altro strumento
di potere. Una parola nuova cui viene attribuita la capacità
di attuare concretamente quella “costante reciprocità”.
La rivoluzione ateniese porta quindi a una rottura sostanziale
rispetto al modello antico. L’ideale democratico, ma
soprattutto il nuovo rapporto con la parola cui esso apre
le porte, servirà da riferimento per numerose società
che seguiranno, fra cui le società occidentali contemporanee.
Una società organizzata attorno alla
parola
Nella descrizione che ci propone Vernant, la nuova società
greca rompe con una società precedente dominata dall’“immagine
mitica di un mondo a diversi livelli”, con un alto e
un basso in opposizione assoluta. La società antica
è una società “olista”, “organica”,
secondo l’analisi di Louis Dumont, il quale prende l’esempio
dell’antico sistema indiano delle caste per mostrare
come la società democratica rappresenti una rottura
rispetto a una società fondata sulla diseguaglianza,
dato che nel sistema delle caste la diseguaglianza è
organizzata e legittimata.
La rottura si opera anche nei confronti del fatalismo delle
società arcaiche, a vantaggio di un ideale di vita
sociale in cui la liberazione della parola rende ognuno un
po’ più padrone del proprio destino e dove l’idea
stessa di destino, che era lo schema esplicativo fin dalla
notte dei tempi, lascia il posto a quello della libertà
attraverso la parola. La rottura con i modelli antichi è
evidentemente molto importante nel campo della politica, che
si costituisce proprio in questo contesto, in quanto non ci
si affida più a una legge trascendente, ma a una discussione,
a una decisione collettiva dei cittadini.
Il “nuovo ordine della natura” inaugurato dalla
democrazia ateniese promuove un ideale di eguaglianza e di
simmetria. Questo ordine non è più gerarchico:
“Il nuovo spazio sociale ha un centro: (...) rispetto
a tale centro gli individui e i gruppi occupano posizioni
simmetriche. (...). L’agorà, che concretizza
sul territorio questa disposizione spaziale, costituisce il
centro di uno spazio pubblico e comune. Tutti coloro che vi
accedono per questo stesso motivo si definiscono eguali, isoi.
Per il fatto stesso di essere presenti in questo spazio politico,
essi entrano in una relazione di perfetta reciprocità;
(...) spazio centrale, spazio comune e pubblico, egualitario
e simmetrico, ma anche spazio laicizzato, fatto per il confronto,
il dibattito, l’argomentazione, contrapposto allo spazio
che si qualifica come religioso dell’Acropoli”.
Idealmente è la fine della decisione che viene dall’alto,
perché questa è presa dalla maggioranza dei
cittadini nel contesto molto rigoroso di rapporti sociali
orizzontali. L’ideale cittadino è quindi quello
del “non comandare né obbedire”. Spiega
Jacqueline de Romilly: “La tirannide per Atene è
un abominio”.
L’esistenza di una cittadinanza democratica comporta
pertanto una “straordinaria preminenza della parola
su tutti gli strumenti di potere”, una parola che “non
è il rituale, la formula giusta, ma il contraddittorio,
la discussione, l’argomentazione”. Quest’ultima
diventa un ideale di comunicazione. L’uomo ideale, il
cittadino, è colui che parla, discute e decide nel
quadro generale di una cittadinanza definita come adunanza
di parole, dove una parola vale l’altra, ma nessuna
è pari a quella collettiva.
Hannah Arendt insiste sul fatto che la democrazia corrisponde
al sorgere di uno “spazio dell’apparenza”,
di cui essa è in fondo l’istituzionalizzazione:
“Lo spazio dell’apparenza comincia a esistere
quando gli uomini si riuniscono nella modalità della
parola e dell’azione; esso precede pertanto ogni costituzione
formale del dominio pubblico e delle forme di governo”
(1).
La città democratica greca non è quindi un luogo
fisico, uno spazio territoriale o identitario, ma “l’organizzazione
del popolo, che nasce dall’agire e dal parlare insieme,
(...) dove l’azione e la parola creano tra i partecipanti
uno spazio che può trovare un suo luogo in qualsiasi
quando e in qualsiasi dove; (...) spazio dell’apparire
nel senso più ampio, (...) ove gli uomini non esistono
semplicemente come altri oggetti inanimati, ma fanno esplicitamente
la loro apparizione”. La comparsa dell’uomo in
quanto essere distinto dal resto del mondo rappresenta il
segno più certo di una rottura con il pensiero primitivo,
che ignorava questa separazione.
L’invenzione della retorica
Parallelamente all’invenzione della democrazia –
o per attuarla – il mondo greco inventa la techné
rhetorikè, “l’arte di convincere”,
di manipolare la parola in quanto strumento dell’“apparire”.
Si pone immediatamente una questione: la retorica non è
forse un puro strumento di potere, una pura riflessione sulla
parola del potere, di cui alcuni potrebbero impadronirsi per
consolidare il proprio dominio?
Una visione del genere non terrebbe conto di due aspetti importanti.
In primo luogo, questa riflessione pragmatica sulla parola
è nata e ha senso soltanto nel contesto di una condivisione
del potere tra eguali: il suo pieno esercizio comporta una
concreta attuazione del principio di eguaglianza.
La parola retorica è lo strumento che parifica i rapporti
sociali: praticare questa nuova arte della parola significa
produrre nel concreto un legame sociale egualitario. In secondo
luogo, i valori che stanno al centro della retorica, e che
si diffonderanno come ideali in tutta la società, sono
chiaramente antagonisti a qualsiasi idea di dominio.
È pur vero ciò che ricorda Jacqueline de Romilly:
“Come per la giustizia si sono viste apparire forme
di giudizio in cui la violenza si infiltrava nelle istituzioni
stesse destinate a eliminarla, così nella democrazia,
accanto alle leggi scritte e ai bei principi, Euripide denuncia
la frequente intrusione della violenza nella vita politica”.
Il fatto che certe pratiche di potere, di esercizio del dominio,
anche grazie alle risorse arcaiche che permettono di sfruttare
la parola, si siano protratte a lungo (che è il meno
che si possa dire a proposito), non cambia affatto i termini
della questione.
La retorica, in fondo, è una selezione, tra le tante
possibilità che ci offre, di ciò che potrebbe
costituire un nuovo uso della parola, egualitario, pacificatore,
in grado di far crescere la persona, nel senso che le dà
i mezzi per apparire di fronte agli altri come persona.
Aristotele apre la sua Retorica con una riflessione
su ciò che si può fare e su ciò che non
si dovrebbe fare con la parola. La retorica, come aveva giustamente
inteso Roland Barthes, è anche un’etica, una
moralizzazione della parola che comporta certe rinunce. D’altra
parte il mondo greco non esiterà, come abbiamo visto,
a introdurre norme rigorose per l’uso della parola pubblica,
norme intese a proteggere il pubblico dai meccanismi di manipolazione
attivati da certi oratori e dai demagoghi.
Il rifiuto della diseguaglianza davanti
alla parola
La società greca, che peraltro è una società
schiavista non essendo l’ideale di cittadinanza ancora
universale, non è certo ideale dal punto di vista di
una riduzione delle diseguaglianze. Essa apre però
uno spazio nuovo, centrale, essenziale, in cui è possibile
esercitare una concreta eguaglianza.
Come dice Emmanuel Terray, la democrazia, constatando le disparità
naturali o quelle sulle quali non può provvisoriamente
operare, adotta una soluzione realistica: “Ritagliare
uno spazio politico all’interno del campo sociale; lasciar
agire al di fuori dei confini di questo spazio le diseguaglianze
di qualsiasi natura; e al contrario considerarle nulle e inesistenti
all’interno di questi limiti”.
La democrazia greca è così in grado di sopportare
qualsiasi diseguaglianza tranne una, quella davanti alla parola,
perché essa sta al centro. Tant’è che
i Greci inventano subito una specie di insegnamento della
parola, per mettere ognuno più o meno a livello degli
altri e per far sì che ognuno sia il più possibile
eguale all’altro nello spazio pubblico.
Tutti gli autori che si occupano di retorica, greci o latini,
insistono sul fatto che essa è nata contemporaneamente
alla democrazia. Da questo punto di vista i sofisti, quei
famosi sofisti che la tradizione filosofica a partire da Platone
ha condannato, sono maestri di democrazia, nel senso che si
sono impegnati costantemente per rendere condivisibile il
proprio sapere. I sofisti (da sophia, sapienza) sono educatori
in senso forte, perché offrono le tecniche per prendere
la parola: “danno la parola”. E non si arrendono
finché le differenze di livello, le disparità
iniziali nella capacità di prendere la parola non siano
annullate.
La retorica ha la grande capacità di equiparare la
parola, e in questo senso svolge una funzione essenziale nella
democrazia. Nello stesso tempo, fa della parola il migliore
surrogato della violenza. La presa di parola, caratteristica
fondamentale dell’invenzione democratica, sostituisce
un rapporto sociale fondato sulla violenza.
Va altresì notato come in tutte le situazioni importanti
della vita sociale l’oratore antico parli senza testo,
come se ciò garantisca l’autenticità della
parola che sembra appunto sgorgare da lui, da quella dimensione
interiore che nasce proprio insieme alla democrazia. Questa
pratica stimola oltremodo la memoria, ma anche qui si va incontro
a disparità naturali. E infatti nella retorica si insegnano
fin da subito procedimenti e tecniche di memorizzazione che
permettono di rimettere tutti sullo stesso piano.
La retorica ovvero il linguaggio sotto osservazione
Un elemento essenziale della rottura che stiamo cercando
di descrivere è la presa di coscienza, anch’essa
segnata da fasi di avanzamento e di arretramento, da folgoranti
progressi e da stasi prolungate, del fatto che la parola è
una realtà autonoma, sulla quale è possibile
riflettere. Questa consapevolezza è talora presente
nelle società primitive che spesso intuiscono l’importanza
del linguaggio, come nella già citata narrazione dei
Dogon sulla storicità della parola, sulle tappe toccate
nel suo sviluppo. Ma siamo più nell’ambito dell’intuizione
che in quello dell’osservazione.
Il mondo democratico greco dà invece il via a una riflessione
specifica e sistematica. L’invenzione della retorica
coincide con una presa di distanza dalla parola. Come dice
Roland Barthes, la retorica è un “metalinguaggio”
che ha come oggetto la parola. Essa è ormai messa lì
sul tavolo, come un oggetto che si osserva, del quale si apprezza
l’efficacia in certe circostanze, come uno strumento
che si tenta di perfezionare.
La riflessione è dapprima una ricerca pratica, legata
al fatto che la parola acquisisce un nuovo statuto che la
pone in posizione centrale, ma soprattutto al fatto che non
si cerca più di limitarla all’esercizio di un
potere particolare. È in questo preciso momento che
si inventano le prime tecniche del dire, che si avvia quel
movimento di diffrazione che farà vivere in modo sempre
più nettamente distinto la parola come opinione, come
espressione di sé o come apportatrice di una descrizione.
Il suo impiego, a questo punto, si diffonde come una deflagrazione.
Ogni cittadino se ne impadronisce e ascolta con attenzione
i sofisti che pretendono di possedere un sapere sulla parola.
Costoro vogliono ora trasmettere agli altri le loro osservazioni,
insegnare ciò che sanno: come prendere la parola, come
far girare le frasi nella bocca in modo da renderle quanto
più efficaci possibile in un ambiente in cui, ormai,
tutto dipende dalla parola.
Non c’è dubbio che il nuovo rapporto con la scrittura
che ha il mondo greco, soprattutto grazie al notevole perfezionamento
apportato dalla scrittura alfabetica con la notazione completa
dei suoni, abbia una certa importanza in questa presa di coscienza.
Ma la retorica è in primo luogo riflessione sulla parola
orale e solo molto più tardi, con Quintiliano (e sono
ormai trascorsi vari secoli), diventerà un osservatorio
sulla parola scritta.
“L’impero retorico” – il termine è
di Roland Barthes – esercita la sua influenza in profondità
su tutta la cultura occidentale. Conosce periodi di relativo
oblio o di ripiegamento in istituzioni chiuse (nel Medio Evo,
per esempio) e altri di rapida fioritura. Foucault, da parte
sua, ne ha analizzato il rinnovamento in età classica.
Dal XVII secolo, infatti, “il discorso diventa a sua
volta oggetto di linguaggio; (...) non si cerca più
di fare leva sul grande proposito enigmatico che si cela dietro
i suoi segni: gli si chiede come funziona, quali rappresentazioni
designa, quali elementi si ritaglia ed estrae. (...).
Il commento lascia il posto alla critica”. La riscoperta
accompagna lo sviluppo delle scienze moderne, delle scienze
esatte, ma anche delle scienze umane, delle quali, dice Gusdorf,
la retorica è la “matrice”.
La retorica antica rappresenta in questo senso la vera “svolta
linguistica” che una prospettiva un po’ miope
ci fa individuare soltanto nel momento in cui nasce la linguistica
moderna, con la sua influenza sui campi del sapere a essa
prossimi. E se la linguistica si occupa di lingua, un oggetto
nobile quant’altri mai, la svolta retorica implica un
nuovo sguardo sulla parola e sulla sua articolazione con i
mezzi di comunicazione, comprese le lingue orali.
Una triplice rottura
Basta la sola rottura democratica a spiegare il nuovo statuto
della parola nelle società moderne e in quelle contemporanee?
Sotto certi aspetti il nuovo contesto democratico delle società
appare come la matrice della nuova parola.
In quest’ottica, si sarebbe tentati di identificare
completamente il nuovo spazio occupato dalla parola con le
istituzioni democratiche, che sono quasi interamente istituzionalizzazioni
della parola.
Si sarebbe anche tentati di non vedere nella parola un prodotto
della democrazia, bensì il contrario: non è
forse il nuovo statuto della parola ad aver prodotto quella
che chiamiamo democrazia?
È certamente vero che la rottura che dà vita
alla città e allo Stato democratico si organizza intorno
a un asse costituito dalle nuove modalità con cui si
prendono le decisioni.
Da questo punto di vista c’è una duplice rinuncia:
da un lato ai metodi tradizionali con cui si prendevano le
decisioni, con tecniche come quelle dell’ordalia che
consistevano nel rimettersi all’interpretazione del
destino (la disposizione degli animali sacrificati, per esempio,
indicava il senso della scelta da fare); dall’altro
ai metodi tirannici tipici della civiltà di palazzo,
in cui la parola del principe conteneva la decisione.
Il nuovo uso della parola si organizza appunto intorno alla
questione della presa di decisione in quanto modalità
d’azione. La democrazia in questo senso altro non sarebbe
che l’involucro istituzionale delle nuove pratiche che
mettono al centro la parola e che sono formalizzate dalla
retorica, luogo di differenziazione pratica delle forme del
dire.
Se si identificano in modo troppo netto la democrazia e la
nuova evoluzione della parola, si finisce però in un
vicolo cieco rispetto alle importanti trasformazioni che lo
statuto della parola conoscerà ben dopo il mondo greco,
in epoche storiche che, in senso stretto, non sono certo periodi
in cui il regime politico è particolarmente democratico.
È difficile, infatti, non mettere in rapporto il nuovo
statuto della parola con il processo di pacificazione dei
costumi e il cambiamento delle norme che regolano la violenza
nell’età moderna e in quella contemporanea.
Certo, il nuovo rapporto con la violenza deriva dall’ideale
di giustizia greco, intimamente legato a quello di democrazia.
Ma se pensiamo alle opere di Norbert Elias, è facile
vedere come il processo di pacificazione dei costumi prende
avvio, in Francia per esempio, in pieno periodo monarchico.
Indubbiamente la riscoperta dei principi della retorica antica
vi svolge una funzione essenziale: con essa si riscopre anche
una pratica concreta di democrazia. Ciò nonostante
è indispensabile studiare il legame singolare, nuovo,
che si stringe tra la violenza e la parola in un contesto
politico che non è democratico.
Allo stesso modo non si possono non sottolineare i rapporti
che esistono tra lo sviluppo dell’individualismo, che
segnerà in modo indelebile le società moderne
e contemporanee, e il nuovo statuto della parola. L’individualismo,
l’individuo come valore e il ribaltamento del rapporto
“io-noi” tanto caro a Elias, si manifestano al
di fuori del contesto democratico; ma in fin dei conti, anche
l’incontro tra le forme democratiche dello Stato moderno
e i valori dell’individualismo, che caratterizza in
modo così specifico le società contemporanee,
avviene al di fuori di quel contesto.
È dunque essenziale, per comprendere il nuovo statuto
della parola, esaminare un po’ più da vicino
come esso si manifesti all’interno di un triangolo la
cui base è la democrazia, mentre gli altri due lati
sono costituiti dal nuovo rapporto con la violenza e dal nuovo
ruolo assunto dall’individuo.
Philippe Breton
1. Il concetto di “atto” in
Arendt si riferisce all’azione attraverso la parola
e non alla fabbricazione di oggetti.
Philippe
Breton
Elogio della parola
Il potere della parola contro la parola del potere
traduzione
di Guido Lagomarsino
2004, 176 pp., € 14,50 |