La nostra missione:
mai più tirannide nel mondo. Con queste parole
Bush a Riga, capitale della Lettonia, uno dei paesi baltici
che in seguito alla spartizione di Yalta furono costretti
a subire la dittatura bolscevica per circa mezzo secolo, ha
di fatto chiarito al mondo quale sia la sua intenzione per
la da lui auspicata strategia planetaria americana. Era sabato
7 maggio, vigilia del viaggio del presidente USA a Mosca,
dove il giorno dopo sulla piazza Rossa avrebbe assistito alle
celebrazioni della “grande guerra patriottica”
contro Hitler, che nel secolo scorso vide l’America
alleata di Stalin sul fronte della seconda guerra mondiale.
Nello stesso discorso ha bollato come errori il famigerato
patto Molotov-Ribbentrop e lo stesso patto di Yalta con cui
i vincitori si spartirono il mondo, oltre a ricordare i misfatti
del passato schiavismo americano e della mentalità
razzista che ne è seguita. Ha terminato promettendo
ovunque la fine delle tirannidi e il trionfo della libertà.
Parole all’apparenza nobili, sembra pronunciate addirittura
con un certo pathos. I commentatori e i media di tutto l’occidente,
sia della carta stampata sia televisivi, si sono da subito
sbizzarriti cercando di sezionare il discorso e puntando un
occhio privilegiato alle conseguenze che avrebbe potuto provocare
nei rapporti bilaterali con Putin, l’attuale zar politico
della nuova Russia, il quale ha immediatamente dimostrato
di non gradire. Tutto è poi mediaticamente rientrato,
ad onor dello spettacolo. In questa teatralizzata riconciliazione
si è poi divertito il premier di casa nostra che, con
la solita vis comica strizzando l’occhiolino alle telecamere
puntate, se ne è pari pari attribuito il merito senza
neanche limitarsi a farlo intendere. Poca roba invece sui
contenuti espressi.
Al contrario, mentre ci trova del tutto indifferenti il teatrino
sui rapporti diplomatici e bilaterali dei capi di stato in
questione, a noi interessano proprio i contenuti, forse perché
ci pervengono con un tetro suono sinistro e perché
li captiamo falsi nella profondità del senso che pretenderebbero
di esprimere. Con un efficace eufemismo preso in prestito
da uno stereotipo sugli indiani d’America, ci viene
spontaneo di dire con forza: “Il grande capo bianco
ha la lingua biforcuta”.
Guerra
preventiva
Da quando si è insediato alla Casa Bianca, Bush si
è mosso sul piano internazionale seguendo e propagandando
due direttive di fondo che caratterizzano in modo inequivocabile
la sua politica e la sua visione del mondo: la guerra preventiva
e l’esportazione
con ogni mezzo della democrazia. Entrambe sono l’una
connessa all’altra da un indissolubile legame simbiotico
ed esprimono la preoccupazione della difesa, della conservazione
e dell’espansione dello status quo americano, considerato
in modo esplicito il modello e il modus vivendi per eccellenza,
cui il resto del mondo dovrebbe guardare con rispetto, devozione,
riconoscenza e inchinarsi davanti alla sua presunta grandezza,
al suo presunto splendore.
Rappresentano l’arroganza di una visione del mondo diafana,
autoproclamatasi superiore e disposta ad accettare le altre
solo se in stato d’inferiorità o sottoposte,
se non addirittura sottomesse.
Le due cose sono strettamente connesse, anche se a uno sguardo
immediato possono essere colte come indipendenti.
La guerra preventiva fu annunciata e dichiarata immediatamente
dopo il massacro delle Twin Towers, presentata al mondo dalla
Casa Bianca come una reazione di difesa contro la dichiarazione
di guerra che Bin Laden aveva fatto al “demone”
americano. Subito apparve quasi una strategia squisitamente
militare, adatta a prevenire e nullificare i probabili annunciati
attacchi del terrorismo internazionale che, ispirandosi nel
caso specifico ad una lettura arbitraria dei sacri dettati
del Corano, annunciava la guerra santa dell’Islam come
ispiratrice di una lotta suprema per far trionfare la volontà
di Dio sulla terra.
L’establishment statunitense annunciò subito
che l’America non poteva limitarsi a subire, rimanendo
passiva in attesa di volta in volta di devastanti attentati
che ne avrebbero fiaccato il morale e le forze. Così,
non potendo fare i conti con un nemico schierato su un fronte
contrapposto, bensì avendo a che fare con un nemico
invisibile che colpiva a tradimento e all’improvviso,
scelse di colpire per prima là dove suggerivano le
sue informazioni di intelligence, sorretta dalla potenza di
fuoco del proprio insuperabile apparato militare.
Attacchi
senza precedenti
Ne nacquero prima la guerra in Afghanistan poi quella in
Iraq. Al momento non possiamo sapere quali altre allucinanti
guerre seguiranno per rispettare il cammino di marcia della
prevenzione bellica americana.
Presumiamo soltanto di sapere, e siamo fermamente convinti
di non trovarci in errore, che, almeno fino a quando durerà
l’amministrazione Bush, altre aggressioni militari sono
lì pronte ad essere brutalmente consumate contro nemici
scomodi in nome della difesa dei “sacri” interessi
statunitensi.
Ciò che c’interessa sottolineare rispetto alla
questione in esame è che sotto la voce della necessità
di difesa sono stati organizzati attacchi senza precedenti,
che con eccessiva frequenza colpiscono in modo indiscriminato
popolazioni inermi e indifese, mentre al contempo con la prepotenza
delle armi vengono cambiati regimi politici che, in un modo
o nell’altro, debbono essere favorevoli alle scelte
politiche degli aggressori.
Con questo non vogliamo affermare che siamo in qualche modo
favorevoli ai regimi che sono stati detronizzati, nel caso
specifico Saddam Hussein in Iraq e i talebani in Afghanistan,
entrambi tra i più dittatoriali e sanguinari che la
storia umana ricordi. Con grande chiarezza sosteniamo invece
che questi odiosi regimi non sono stati affatto abbattuti
per ragioni di moralità politica, come a gran voce
tentano di sostenere gli aggressori USA, cioè perché
erano odiosi e contrari ai più elementari diritti umani.
Bensì sono stati demoliti con la forza militare perché
a un certo punto della storia delle relazioni internazionali
sono stati giudicati non più funzionali agli interessi
economici e politici della superpotenza nordamericana.
A riprova di quello che stiamo asserendo il fatto che a suo
tempo lo stesso Saddam è stato considerato un alleato
fedele, cui tranquillamente sono state fornite armi di distruzione
di massa, perché per motivi regionali era nemico del
comune nemico iraniano. In modo equivalente a suo tempo lo
stesso Bin Laden ed i talebani furono addestrati a combattere
dai servizi statunitensi, poi portati conseguentemente al
potere, perché in Afghanistan conducevano la guerra
di resistenza contro l’armata rossa sovietica, allora
ancora superpotenza antagonista. Ad ulteriore riprova il fatto
che il Pakistan diventò improvvisamente un alleato
fedele soltanto quando, forse inaspettatamente e con un opportunismo
sorprendente, offrì il proprio territorio come base
logistica per combattere il regime talebano, mentre fino a
quel momento era stato tranquillamente annoverato tra gli
stati canaglia per la dittatura ferrea che lo distingue e
per esser stato base d’appoggio di vari terrorismi internazionali,
tra cui gli stessi talebani.
È proprio rispetto alle motivazioni che avrebbero dovuto
giustificare la volontà delle aggressioni belliche
americane che salta fuori con forza lo slogan politico di
esportazione della democrazia.
E non a caso fu proposto con determinazione e insistenza per
il caso Iraq, mentre era stato appena abbozzato, quasi solo
sussurrato, rispetto al precedente dell’Afghanistan.
Nel primo caso, infatti, non è stato difficile creare
una coalizione d’intervento militare internazionale,
benedetta dall’ONU, che aveva la motivazione evidente
che il regime talebano proteggeva il criminale Bin Laden e
non lo voleva consegnare. Nel secondo caso, al contrario,
di evidente fin dall’inizio c’è stato soltanto
che Saddam non possedeva armi di distruzione di massa (infatti
non sono mai state trovate), ragione ufficialmente addotta
per giustificare l’aggressione. A differenza del primo
caso non si è formata un’alleanza bellica internazionale
benedetta dall’ONU, mentre il fronte dei vari stati
si è spaccato e la guerra santa dei valori occidentali
di Bush è stata condotta col solo Blair, quale alleato
forte però fortemente contrastato in patria per questa
sua scelta, e qualche altro alleato di facciata, tra cui il
rampante Berlusconi di casa nostra.
Ecco allora prendere forza e teorica consistenza di tentato
impatto mediatico globale l’“ideale universale”
dell’esportazione della democrazia, che a un certo punto
è diventato prevalente rispetto a quello iniziale della
difensivista guerra preventiva.
Era troppo smascherata la falsa motivazione della difesa preventiva
per dare un senso alla volontà di aggredire il regime
di Saddam ad ogni costo. Essendo insufficiente il bisogno
della difesa, si è d’incanto inventata un’America
spinta da ideali universali, capace di sacrificare i “propri
ragazzi” per “regalare al mondo la libertà”.
Seri
dubbi
Detto fra i denti, in questa strategia di politica internazionale
americana non riusciamo a trovar altro che una retorica idealista
di sonore balle. Da una parte è del tutto vero che
siano costretti a difendersi sia gli apparati di comando statunitensi
sia, data la strategia degli attentati indiscriminati, gli
stessi cittadini americani. Dall’altra parte invece
è del tutto inaccettabile che lo facciano a discapito
e contro le popolazioni inermi sottoposte ai regimi che vengono
identificati quali nemici da sconfiggere, mentre il nemico
vero è oculatamente nascosto e difficilmente prendibile,
dal momento che i terroristi non si dispongono su un classico
visibile fronte contrapposto.
I risultati del resto ottenuti non sembrano dimostrare l’efficacia
della scelta, dal momento che Bin Laden e quasi tutti i suoi
colonnelli, il mullah Omar e quasi tutti i capi talebani al
momento non sono ancora stati catturati, mentre continuano
bellamente ad arruolare neofiti ed a perpetrare orrende stragi
proprio in Iraq e in Afghanistan ed ogni tanto anche nei paesi
dell’odiato Occidente.
Chiediamoci inoltre che cosa in realtà vogliono veramente
esportare: un’idea di democrazia, contrabbandata come
l’unica vera autentica realizzazione della libertà,
nei fatti ben poco democratica e che lascia seri dubbi sulle
autentiche realizzazioni di libertà.
Appositamente ho detto idea di democrazia e non democrazia,
perché a tutti gli effetti si tratta di un’interpretazione
della stessa, la quale nel suo significato originario è
qualcosa di ben più ampio della ristretta e monca visione
che viene offerta dall’establishment dell’attuale
Casa Bianca. Secondo i suoi desiderosi esportatori a suon
di bombe essa si riduce e di fatto si esaurisce in una mera
procedura elettoralistica finalizzata a designare le leadership
legittimate a gestire il Government, cioè il potere
statuale.
In democrazia il potere dovrebbe essere nelle mani del popolo
sovrano, mentre nelle loro si trasforma in quello di un’oligarchia,
designata appunto a comandare da libere elezioni.
A riprova il fatto che, una volta designati, lor signori decidono
ciò che vogliono attraverso giochi politici più
o meno abili, che si svolgono esclusivamente dentro il palazzo
senza dover più rendere conto a chi li ha eletti fino
alla successiva tornata elettorale.
Così l’oligarchia designata riesce ad imporre
guerre, controlli polizieschi, dazi, tasse, comportamenti,
obblighi, divieti, restrizioni, fino a delimitare a suo piacimento
gli ambiti di movimento dei liberi cittadini, ai quali non
resta altra possibilità che di subire, perché
se tentano di opporsi al di fuori degli ambiti stabiliti vengono
sanzionati, puniti, incarcerati.
Dov’è finita la famosa partecipazione del popolo
alle decisioni che lo riguardano, vanto ed essenza della democrazia,
nata dalla rivoluzione proprio per superare le imposizioni
monocratiche ed istituire il potere della sovranità
popolare?
C’è poi da considerare che la concezione democratica,
al di là del riduzionismo istituzionale a cui è
stata arbitrariamente sottoposta, è la risultante di
un lungo processo di riflessione e di eventi storicamente
determinatisi. È entrata a far parte del patrimonio
occidentale attraverso un lungo travaglio ed alterne vicende,
fino a diventare parte integrante ed ineliminabile del suo
DNA.
Trasportarla con la forza delle armi, quindi imporla senza
farla assimilare come processo di acquisizione collettiva
consapevole, in contesti che hanno vissuto esperienze storiche
e processi culturali qualitativamente diversi, al punto che
difficilmente ne possono comprendere il valore, contiene il
serio rischio di mistificarne la qualità e il senso.
Retorica
d’immagine
Per mettere in piedi una situazione democratica non è
affatto sufficiente indurre una popolazione a svolgere anche
correttamente procedure elettorali al fine di eleggere propri
rappresentanti parlamentari. Paradossalmente, ma molto meno
improbabile di quanto si possa supporre, una popolazione religiosamente
coinvolta e fideisticamente convinta senza esitazione, attraverso
regolari elezioni, potrebbe scegliere di essere governata
da un regime teocratico, che col suo consenso eserciterebbe
su di lei un autentico totalitarismo. Che cosa ci sarebbe
di democratico in una simile evenienza se non unicamente l’esile
e risibile fatto che il tutto sarebbe avvenuto attraverso
una consultazione elettorale? La procedura elettiva non garantisce
di per sé l’auspicabile ed essenziale partecipazione
né l’istituzione di relazioni politiche e sociali
che realizzino e garantiscano stati di libertà.
Da tempo le istituzioni occidentali hanno messo da parte la
possibilità di realizzare politiche che in qualche
maniera sappiano di autentica democrazia, né tanto
meno di autentica libertà. Forse hanno anche, più
o meno consapevolmente, smarrito il senso che ne sottende.
Continuano a barricarsi dietro una retorica d’immagine
che salvaguarda i privilegi, mentre con pertinace cocciutaggine,
in nome della sicurezza e delle sempre più impellenti
necessità economiche, con leggi e leggine si ostinano
ad aumentare le restrizioni di movimento per i cittadini ed
a limitarne il godimento dei diritti, a volte anche di quelli
fondamentali. Il fatto che vengano designati attraverso il
voto elettorale fa sentire gli eletti autorizzati a garantire
il mantenimento di uno stato di cose che si fonda sulla finzione
e sulla conservazione di una condizione sociale di libertà
limitata.
Gli USA, unica superpotenza economica e militare rimasta in
seguito alla fine della guerra fredda, avendo la presunzione
autoreferenziale di essere i principi della libertà,
nell’illusione di conservarne il primato la limitano
continuamente e ne mettono in pericolo la veracità
e il senso. Una volta sentitisi concretamente minacciati hanno
deciso di ribaltare a proprio favore l’attacco subito
trasformandolo in un’occasione di estensione della propria
influenza internazionale militare, politica ed economica.
Con grande tempestività hanno coniato ad hoc i due
slogan della guerra preventiva e dell’esportazione della
democrazia, col fine precipuo d’inventare e propagandare
una giustificazione mediatica. Così, continuando con
le loro abituali spensierate alleanze, hanno tentato di dare
un’accelerazione alla mai abbandonata politica neocoloniale
di gestione del mondo.
Appare scontato che non ci riferiamo ad un colonialismo classico.
Non assistiamo più ormai da tempo all’annessione
di territori, le colonie appunto, sui quali veniva imposta
di prepotenza un’oppressiva gabbia militare ed il governatorato
politico.
Terrificanti
scadenze quotidiane
Ora gli eserciti conquistatori non tendono più a rimanere
per imporre il proprio diretto comando. Appena la situazione
è sotto controllo se ne vanno e lasciano governi locali
o fantoccio o sicuramente amici sotto la propria diretta influenza,
i quali hanno il compito di assicurare ai vincitori, non presenti
corporalmente, la gestione oculata dei loro interessi e dei
mercati. Se riesce costa molto meno e, se funziona, è
molto più redditizio.
Purtroppo per l’impero americano, di conseguenza anche
per tutti noi, le cose non stanno andando come aveva pronosticato
e sperato. Per ora, sia in Afghanistan sia in Iraq la guerra
è ufficialmente vinta ma niente affatto finita. Gli
stati preesistenti sono stati polverizzati, mentre il nemico
vero che si voleva disgregare non appare per niente debellato.
Anzi! sembra più vivo che mai e, con terrificanti scadenze
quotidiane, mina sistematicamente la sicurezza di un’apparente
fin troppo facile vittoria, in realtà mai raggiunta.
Purtroppo per le popolazioni coinvolte le azioni del nemico
non debellato sono speculari a quelle dei vincitori e, allo
stesso modo dei bombardamenti ufficiali, massacrano le popolazioni
inermi e falcidiano vittime con un’impudenza sconcertante.
Tale situazione comporta di conseguenza che, per ragioni di
difesa sul posto, viga uno stato di vigilanza militare e poliziesca
che sa tanto di permanente stato da coprifuoco.
I risultati di questa strategia sono presto detti: la guerra
continua ad essere alimentata e sembra fortificarsi, la democrazia
imposta è ridotta a un fantasma di se stessa, della
libertà neanche l’ombra. In compenso si sono
svolte “libere” elezioni militarmente protette,
che hanno regalato a quei paesi governi provvisori, non proprio
del tutto amati da chi ci abita, ma amici dei vincitori, i
quali hanno il compito di preparare le nuove carte costituzionali
per poi eleggere i veri futuri governi democraticamente legittimati,
che magari daranno mandato a dei teocrati benvoluti i quali,
sempre in nome della democrazia, gestiranno teocraticamente
uno stato di soggezione a leggi il cui unico scopo è
quello d’imporre la sacralità, indiscussa e indiscutibile,
della fede religiosa in loco.
Il famoso “trionfo della libertà”, annunciato
con enfasi a Riga da Bush, sembra proprio destinato a dissolversi
in situazioni imposte che nulla hanno a che fare con la libertà
e ben poco con la democrazia.
Non viene il dubbio che questa strategia di ricerca ossessiva
dell’ordine mondiale porti progressivamente all’istituzionalizzazione
di un disordine permanente ingestibile dagli stessi poteri
vigenti? Forse non sarebbe del tutto assurdo provare a tentare
la strada di un sano caos anarchico, nell’illusione,
a nostro avviso sempre più realistica, di riuscire
a mettere in piedi modi di convivenza non più ordinati
dall’alto di poteri sempre più forti, ma autogestiti
da un basso capace di trovare un equilibrio non “ordinato”
in cui ogni individuo possa riconoscersi.