Il voto referendario
con il quale Francia e Olanda hanno bocciato la Costituzione
europea è ambiguo come ambigua è la Carta in
tutta fretta stilata a quattro mani da Giscard d’Estaing
e Giuliano Amato e, con altrettanta fretta, sottoposta all’approvazione
dei Parlamenti e, per chi lo avesse voluto, all’esame
referendario.
A parte la destra becera, nazionalista e xenofoba, che non
soltanto in Francia e Olanda si esalta per il presunto obiettivo
raggiunto di preservare labari e gagliardetti con teschi e
ossa incrociate, puntuale testimonianza di un popolo di zombi
che non si rassegna alla definitiva tumulazione, il resto
dell’opinione pubblica che ha votato “no”
non ha voluto bocciare il disegno complessivo di un’Europa
unita, ma il progetto e il metodo con i quali l’obiettivo
si è inteso perseguire.
Intanto mi pare incontestabile che tutti i trattati che hanno
preceduto questa Costituzione, da quello di Roma del 1957
sino al Trattato di Maastricht del ’91, sono piovuti
dall’alto, senza alcuna partecipazione, neppure consultiva,
dei popoli unificandi, i quali assistettero impotenti all’elaborazione
di accordi funzionali alle politiche dei loro governi e alla
salvaguardia di un’economia di mercato che ha sempre
avvantaggiato i ricchi e depresso i poveri.
È sotto gli occhi di tutti che il divario tra i Nord
e i molti Sud del Continente non è stato sostanzialmente
modificato dalle misure di volta in volta attuate dall’UE,
in un contesto complessivo in cui certamente la crescita ha
toccato tutti, ma in misura diseguale, allargando anziché
restringere la forbice tra i bisogni dei cittadini e la voracità
dei ricchi e dei potenti.
Ma è il metodo per raggiungere l’obiettivo (ammesso
che lo si voglia veramente raggiungere) ad essere tecnicamente
sbagliato. Storicamente, infatti, ogni processo unitario,
equo o iniquo che fosse, è stato ratificato con una
costituzione dopo che un’entità egemone ne aveva
tracciate le linee e se ne poneva alla testa.
È avvenuto nell’Ottocento in Germania ad opera
della Prussia, nella stessa Italia del regno piemontese e,
prima, negli Stati Uniti dove la Costituzione è stata
redatta e ratificata dopo il vittorioso conflitto contro gli
inglesi. In una certa misura, quindi, si poneva mano ad un
sistema politico-giuridico comune dopo che tale unità
era già nei fatti.
Istanze premature
L’Europa del XX e del nascente XXI secolo è
ben lungi dal mostrare anche soltanto i segnali di una volontà
comune e di una visione condivisa dei propri destini La sua
storia, che copre ormai il mezzo secolo, è costellata
di accordi che hanno tentato di armonizzare le politiche economiche.
Così la CECA (Comunità Europea del Carbone e
dell’Acciaio) ratificata nell’immediato dopoguerra,
l’Unione Doganale e delle politiche Agricole degli anni
Settanta, l’Unione monetaria degli anni Ottanta sono
tutti accordi che hanno gestito anche efficacemente congiunture
difficili, tanto da indurre paesi tradizionalmente diffidenti,
Irlanda, Danimarca e Norvegia a richiedere l’ingresso
nella CEE.
In realtà, il dibattito tra “funzionalisti”
(soprattutto Gran Bretagna e Francia), che volevano limitare
l’aggregazione ad accordi specifici in campo economico,
e “federalisti” (Germania e Italia, con le personalità
trainanti del Cancelliere Schmidt e di Altiero Spinelli),
che miravano a creare un’Europa veramente integrata,
autonoma in politica estera e con un tessuto giuridico comune
si è sempre concluso con il prevalere dei primi.
Ma quanto fossero premature le istanze dei federalisti lo
si vide quando si giunse a discutere della CED (Comunità
Europea di Difesa), che fu subito osteggiata, all’interno,
da Gran Bretagna e Francia e, dall’esterno, dagli Stati
Uniti, che vedevano con preoccupazione il sorgere di una terza
potenza militare che potesse insidiare il suo ruolo di unico
baluardo dell’Occidente, in regime di guerra fredda.
La CED non fu l’unica vittima dei nazionalismi persistenti:
Toccò analoga sorte all’Unione Economica e Monetaria,
che fu ratificata ma con tali limitazioni da renderla praticamente
inoperativa.
Questo breve (e inevitabilmente incompleto) excursus
era necessario per far rilevare come le preoccupazioni maggiori
dei governi europei fossero sempre state quelle di creare
un sistema di regole comuni che limitasse i danni provocati
dalle crisi ricorrenti del capitalismo europeo e internazionale.
Quando, invece, si tentava di limitare il loro potere, si
chiudevano a riccio, rifiutando di aprirsi a qualsiasi prospettiva
diversa. Lo stesso Parlamento europeo non ha perduto per nulla
la sua dipendenza dai governi (o dalle opposizioni) che lo
esprimono.
La mancanza di un sistema elettorale comune, di una prospettiva
costituente per un’Europa completamente integrata ha
restituito il potere ai singoli Stati, rappresentati, nel
Consiglio europeo, dai ministri degli esteri, nella Commissione
(i cui Presidenti rispettano turni previsti) da componenti
cooptati dai medesimi governi in carica (vi ricordate? Berlusconi
mandò Buttiglione al posto di Monti ma se lo vide rispedire
al mittente per indegnità), infine da un Presidente
dell’Unione, anch’esso nominato a rotazione tra
gli Stati membri.
È per effetto di questo procedere, che lascia prevalere
gli egoismi nazionalistici e, nella sostanza, emargina i popoli,
che l’UE non è mai veramente decollata se non
nella direzione di equilibri di finanza pubblica, peraltro
spesso contestati. Per tutto il resto è buio profondo.
In politica estera ci si divide quasi ad ogni passo e l’avventura
irachena mostra tutte le crepe di una costruzione che si vuole
erigere ma che manca di un progetto e di un cantiere efficienti.
Con l’aggravante, nel caso specifico, che si è
risposto in ordine sparso non ad una iniziativa autonoma,
in difesa cioè di interessi continentali, ma ad una
aggressione d’oltre Atlantico, avviata a tutela di logiche
di dominio che si muovono, nei fatti, contro l’Europa
attuale e, soprattutto, contro le sue istanze unitarie.
Alternativa nominale
Ma dove il processo unificatore, così come è
avviato, denuncia le carenze maggiori è nel mancare
di una visione originale di modelli di sviluppo che sfuggano
all’alternativa tra un contesto che esprima prevalentemente
un’area di libero scambio ed un altro che riesca a mantenere
un difficile equilibrio tra le esigenze del mercato e la tutela
delle categorie più deboli.
In poche parole: tra la visione inglese di un’Europa
semplice area di libero scambio, con la riconferma del ruolo
degli stati nazionali; e quella franco-tedesca che condiziona
lo sviluppo alla sopravvivenza di uno stato sociale che attenui
le drammatiche conseguenze dell’economia di mercato.
Il dramma è che l’alternativa è puramente
nominale. Per dirla con un famoso proverbio, non si può
avere la botte piena e la moglie ubriaca. Laddove si accetta
la logica del mercato, soprattutto allo stato attuale della
fase, è tecnicamente impossibile sfuggire al dilemma
se promuovere lo sviluppo o garantire la pace sociale.
Lo constatiamo ogni giorno guardandoci attorno: non si superano
le crisi economiche ciclicamente ricorrenti nel sistema capitalistico
senza sacrificare l’occupazione e il livello dei salari,
senza ricorrere al rastrellamento fiscale sulla base più
ampia dei contribuenti, che è, come tutti sanno, quella
dei redditi da lavoro. Non si superano le stagnazioni o addirittura
le recessioni senza il drastico ridimensionamento delle spese
sociali e tutto questo indipendentemente dalla volontà
dei singoli governi.
Ma anche negli strumenti e nelle istituzioni adottate l’Europa
unificanda mostra l’incapacità di sfuggire al
consueto burocratismo. Non esiste un organismo che possa intervenire
efficacemente nelle politiche di sviluppo.
Le sovvenzioni elargite ai vari Paesi sono prive di un disegno
in grado di promuovere dinamiche non semplicemente settoriali
o che servano ad indirizzare politiche di integrazione tra
i vari sistemi produttivi.
La stessa Banca Centrale Europea è priva di una visione
moderna e innovativa di indirizzo e di controllo del sistema
monetario e di erogazione del credito, ed è stata totalmente
assente nel valutare gli inconvenienti prevedibili dell’introduzione
della moneta unica, che, infatti, è stata abbandonata
al suo destino con gli effetti negativi che, in misura più
o meno rilevante, ha provocato dovunque.
Caro il mio Juncker
Non mi pare occorra altro per spiegare il prevalere dei “no”
nel voto referendario in Francia ed Olanda ed è difficile
che il trend cambi quando alle urne saranno chiamati,
come previsto, inglesi e polacchi.
Così appare miope ed arrogante la dichiarazione del
Presidente di turno, il lussemburghese Juncker, il quale,
dopo il voto francese, ha quasi testualmente affermato che
il fronte del “no” dovrà presto ricredersi
e tornare ad un nuovo voto perché a questa Unione non
c’è alternativa.
Caro il mio Juncker, l’alternativa c’è.
È un’Europa che sorga per iniziativa dei popoli
e sfugga all’annichilente prospettiva di un’omologazione
delle culture e delle identità delle diverse comunità
da sacrificare in nome di un benessere che lascia le briciole
a chi lavora e ingrassa i soliti noti.