Fiori a Marsiglia
Non male questo romanzo di Gian Carlo Fusco (Duri a Marsiglia,
Torino, Einaudi, 2005, prima edizione 1974), giornalista maudit
famoso soprattutto negli anni cinquanta e sessanta, eterodosso
cultore di una cronaca “veristica” fatta di intelligenti
esagerazioni e paradossali guasconate.
Messo un po’ a lato dal mondo paludato della cultura e
del giornalismo alto, anche perché assiduo collaboratore
di “rivistacce” come «Kent», «Abc»
e Playboy», preferì cimentarsi, spesso e volentieri,
con il marginale e inelegante mondo dei duri e dei balordi,
dei maledetti inchiodati ai tavoli da biliardo delle periferie
milanesi o parigine, o sfreccianti su improbabili macchinoni
in viali metropolitani popolati da prostitute generose e romantici
macrò.
Per tanti versi un Fred Buscaglione delle lettere, spaccone,
con l’Havana in bocca e il cappello “alle ventitré”,
distaccato e innocente complice di piccoli malfattori e gangsters
di paese, cosa che in quegli anni si poteva ancora fare, perché
le paure e le isterie collettive che avrebbero cominciato e
non più finito di inquinare le nostre intelligenze, erano
ancora di là da venire.
Inevitabile quindi, per uno scrittore di costume e di genere,
incline a indugiare compiaciuto e a intrattenersi abitualmente
con gli ambienti borderline nei quali la trasgressione
del balordo è sempre solidale con la consapevole sovversione
dell’oppositore, incontrarsi felicemente con qualcuno
di quegli anarchici “favolosi”, soliti frequentare,
con la tranquilla naturalezza dell’uomo pienamente libero,
i pericolosi vicoli degli angiporti e delle casbah europee.
Affascinato, evidentemente, da questo cliché, Gian Carlo
Fusco, in questo suo romanzo diviene egli stesso il protagonista,
il giovane anarchico ligure che, pur restando fedele, nonostante
le molte peripezie, a Baudelaire e a Kropotkin, si trasformerà
in un efficiente soldato di marciapiede della mala marsigliese.
Ma andiamo per ordine.
Figlio di una famiglia borghese della costa di ponente e dalle
vaghe, e conformiste, simpatie fasciste, nel 1932 viene espulso
dalla Gioventù Universitaria Fascista perché accusato
di “ignorare, sistematicamente, le disposizioni del Partito,
irridendo, senza ritegno, ai Gerarchi e alle istituzioni del
Littorio”. Il giovane Carlo, infatti, ha iniziato a frequentare
il cenacolo clandestino di un vecchio e provato militante anarchico
che raccoglie attorno a sé, nonostante il controllo poliziesco,
un gruppo di giovani studenti ed operai.
Sorpresi da una retata della polizia propiziata da una soffiata,
la sorte dei “cospiratori” varia a seconda dell’estrazione
sociale. Operai e apprendisti scomparsi dalla circolazione,
in galera o al confino, i giovani studenti restituiti alle famiglie
borghesi. Avvilito da questa disparità di trattamento
e deciso a sottrarsi sia alle preoccupate e soffocanti attenzioni
famigliari, sia alle violente e demenziali banalità del
regime, espatria clandestinamente, con l’aiuto di una
precaria ma funzionante rete anarchica, in Francia, a Marsiglia
per l’esattezza, dove, dopo un’esperienza di traduttore
di testi ora anarchici ora pornografici commissionatigli da
un bizzarro compagno italo-francese, pur mantenendosi a suo
modo fedele all’ideale che lo ha spinto ad abbandonare
l’Italia, intraprenderà l’avventurosa vita
del duro della mala calabrese.
Per non togliere sapore alla lettura delle pagine di Fusco,
che non concedendo nulla al giallo riescono comunque a mantenere
sempre sospeso il lettore, mi limiterò ad accennare,
a larghi tratti, al resto della vicenda. Sotto il falso nome
di Charles Fiori, evidente richiamo agli amati Fleurs
di Baudelaire, entra casualmente in contatto con alcuni “militanti
di base” della cosca calabrese e il suo primo impiego,
tanto per veder di che pasta sia fatto, è quello di vigilare
su alcune prostitute poste sotto la “protezione”
dei picciotti.
Gradualmente entra in carriera e, in un susseguirsi di avventure
scandite ora dalle rivalità, ora dagli accordi, fra corsi,
catalani, marsigliesi e italiens, conquista la fiducia
e la riconoscenza del capo bastone Salvatore Lucidi. Ormai stimato
e apprezzato come “uno di loro”, anche grazie alla
sua sveglia intelligenza, decide comunque di “finire le
vacanze” e rientrare in Italia, ma in seguito all’attentato
ad Alessandro I di Jugoslavia, attribuito ai fuoriusciti italiani,
capisce che ormai non è più aria per lui né
di qua, né di là dalle Alpi, per cui si arruola
(e come poteva mancare questo finale?) nella Legione Straniera
e “per quel giovanotto poco raccomandabile ma serio, che
si faceva chiamare Charles Fiori, cominciò un’altra
storia”.
Come penso si possa capire dalle priorità della trama,
la sostanza del racconto non affronta più di tanto le
inclinazioni ideologiche del protagonista, anche se queste vengono
illustrate con una conoscenza dell’argomento e una proprietà
piuttosto rare nei nostri letterati.
È evidente, piuttosto, che l’interesse principale
dell’autore sia quello di ricostruire e narrare, in modo
così “sfacciatamente” cinematografico da
sembrare la sceneggiatura di un film interpretato dagli indimenticabili
(ma ormai dimenticati) Jean Gabin e Lino Ventura, un ambiente
talmente vero da sembrare falso, e talmente falso da passare
per vero.
Mi spiego: le regole della mala, gli accordi fra i boss e i
gregari, le nobiltà e le efferatezze, la lealtà
fra affiliati e il disprezzo per gli avversari, sono tutte cose
reali, delle quali ogni tanto si può cogliere qualcosa
anche negli stralci di un processo o nella cronaca di un fatto
di sangue. Al tempo stesso, però, questa realtà,
che non possiede nulla che possa davvero appartenerci, può
venire falsata da uno sguardo romantico e affettuoso che antepone
la buona, vecchia retorica del bon mauvais e il fascino
della perdizione alla disumana crudeltà del delitto.
Ed è esattamente quello che accade con Gian Carlo Fusco,
maestro nel tracciare il ritratto avvincente e verosimile di
una realtà altrimenti oscenamente crudele.
È curioso notare come si intreccino e convivano, in questo
Duri a Marsiglia, due stereotipi della retorica letteraria:
quello del bandito gentiluomo e quello, meno frequentato ma
ugualmente sedimentato, dell’anarchico costantemente in
bilico fra legalità e illegalità.
Ma come tutti gli stereotipi, e i luoghi comuni, anche questi
hanno, dopo tutto, un fondo di attinenza con la realtà.
Come sono esistite, infatti, figure più o meno leggendarie
di nobili briganti – e non occorre scomodare personaggi
come Robin Hood o Fra’ Diavolo – non fu infrequente,
soprattutto in passato, imbattersi nelle disavventure giudiziarie,
legate a reati cosiddetti comuni e non politici, nelle quali
incorsero nostri compagni. E anche dei migliori.
Le dure, durissime condizioni di vita del fuoriuscitismo anarchico,
ad esempio, con compagni senza alcuna garanzia e continuamente
sospesi tra la precarietà economica e il ricatto delle
istituzioni, non poteva non creare, in questo o quel caso, le
condizioni perché quello strano concetto di legalità
borghese che veniva attaccato ideologicamente ad ogni piè
sospinto, non venisse infranto per “cause di forza maggiore”.
E infatti le cronache, e le biografie, di alcuni esuli, soprattutto
in Francia, fanno registrare disavventure provocate dalla contiguità
con il milieu locale. Ciò che differenzia queste
figure reali rispetto al Charles Fiori di cui stiamo parlando,
è che tali disavventure, quando ci furono, restarono
incidenti di percorso, ampiamente riscattati (se di riscatto
dovessimo proprio parlare) da biografie altrimenti ben coerenti
con quell’etica che ci si può aspettare, e a ragione,
in un anarchico. Questo, in sostanza, è l’appunto
che voglio muovere al bel racconto di Gian Carlo Fusco.
Mi rendo conto, giunto al termine di questo Ritratto in
piedi, di non avere sottolineato, come faccio solitamente,
attinenze fra i personaggi del romanzo e quelli reali. In effetti
mi è difficile trovarne, perchè le “scelte
di vita” di Charles Fiori, nonostante tutta la retorica
di cui ho parlato, non possono appartenere, né sono appartenute,
a chi ha speso la propria esistenza uniformandosi ai principi
dell’anarchismo. Con una qualche forzatura, e sperando
di non essere frainteso, potrei però accennare a un compagno,
a uno dei migliori che ancora agitano le nostre idee nella mitica
Barcellona, a Diego Camacho detto anche Abel Paz. E non certo
perché nella sua biografia possano trovarsi, anche lontanamente,
tracce di quella “vita violenta” descritta da Gian
Carlo Fusco, ma piuttosto per rendere omaggio alla sua capacità
di convivere con la massima naturalezza, e con la più
disinteressata comprensione, accanto a un’umanità
marginale troppo spesso spinta al delitto dalla crudele indifferenza
delle logiche del dominio. I meandri del Barrio Chino, e i loro
abitanti, ne conoscono, e ne apprezzano, l’umanità
e il senso di solidarietà. E anch’io voglio ricordarli.
Massimo Ortalli
La «Centrale anarchica»
di Gian Carlo Fusco
Una mattina, nell’aprile del 1932, si presentò
alla questura di Genova un tipo di mezza età, piuttosto
scalcinato e strisciante. Si chiamava Alceo Tabacchi e mise
subito le mani avanti, dichiarando che nell'immediato dopoguerra
era stato anarchico militante. Ma aveva abbandonato l'anarchia
nel 1921, sdegnato dal sanguinoso attentato al teatro Diana
di Milano.
Nonostante la sua defezione, aveva ancora certe entrature fra
i vecchi compagni. Così che, qualche giorno prima, era
venuto a sapere che alcuni caporioni della cosiddetta «Centrale
anarchica» si sarebbero riuniti, il prossimo primo maggio,
in casa di un certo Giordano Foresta, a Sestri Levante, per
organizzare una serie di colpi dinamitardi a Roma, Milano e
Torino.
A compenso della sua informazione, il commissario addetto alla
«squadra politica» versò al Tabacchi duecento
lire (circa cinquantamila di oggi) promettendogliene altre trecento
a operazione compiuta.
La «Centrale anarchica», perlomeno in quel momento,
non esisteva. Ma esisteva Giordano Foresta. Un linotypista sui
quarant’anni, pallido e curvo, già intossicato
dai vapori di piombo.
Era un fervente seguace di Bakunin ed era riuscito a raccogliere
attorno a sé una ventina di giovani, tutti operai meno
tre o quattro studenti, i quali, ogni tanto, si riunivano in
casa sua, a Sestri Levante, per ascoltarne l'ispirata parola.
Per quanto in quella specie di cenobio vi fossero alcuni innamorati
di Stirner, che sognavano sovvertimenti radicali a base di tritolo
e di dinamite, Foresta era un «sindacalista» di
stretta osservanza.
Assolutamente alieno da ogni tipo di violenza. Allevava canarini,
era astemio e si alimentava esclusivamente di vegetali. La preparazione
dei «colpi dinamitardi» era, quindi, pura invenzione
del delatore Tabacchi.
Ma il primo maggio, alle quattro del pomeriggio, quando gli
agenti della «politica», guidati dal commissario,
fecero irruzione nella squallida palazzina dove abitava Foresta,
proprio di fronte alle strutture nere e fulve dei cantieri Ansaldo,
la riunione c'era. E i poliziotti piombarono sul macilento padrone
di casa mentre stava leggendo ad alta voce, commosso, un opuscolo
clandestino di Armando Borghi.
Nel quale, sia pure di passaggio, veniva esaltato «l'eroico
sacrificio di Gaetano Bresci». Retata generale. Trasferimento
in questura mediante tre cellulari. Interrogatori stringenti,
per circa venti ore, a proposito dei «colpi dinamitardi».
Minacce, calci negli stinchi, schiaffoni. Uno dei quali, siccome
nel gruppo degli arrestati c'ero anch'io, mi buttò giù
un paio di denti.
Nei giorni successivi, i «nichilisti di casa Foresta»
(così li definì il commissario nel suo verbale)
ebbero sorte diversa. Foresta e gli operai al di sopra dei ventun
anni sparirono dalla circolazione. Gli operai al di sopra dei
diciotto anni, dopo un mese di carcere, furono rimessi in libertà
ma sottoposti a sorveglianza speciale. Quelli che non avevano
ancora compiuto i diciotto vennero spediti al «Correzionale»
di Alessandria. Quanto a noi studenti, tutti incensurati e di
estrazione borghese, fummo restituiti alle famiglie (dolenti
e sorprese) con una ramanzina. A me, congedatomi (non era ancora
entrato in vigore il «voi staraciano»), il commissario
diede addirittura del lei.
«Fa’ nen ’l picio, nè!»
di Gian Carlo Fusco
Il 3 giugno (un venerdì, come il giorno della mia nascita)
mi alzai alle quattro. La casa era piena di silenzio. Cavai
da sotto il letto una valigetta di fibra già preparata
(oltre a un minimo indispensabile d'indumenti, conteneva Il
pane di Kropotkin, Il tallone di ferro di Jack
London e I Fiori del Male di Baudelaire) e uscii. In
punta di piedi. Con un po' di struggimento nel petto. A lunghi
passi, quasi sospinto dal vento della libertà, marciai
verso la stazione. Nel cielo opalescente, viaggiava, lentissima,
una nuvolaglia rada e sfilacciata. Sul mio cammino, incontrai
soltanto un ubriaco che vomitava, borbottando, con la fronte
appoggiata a un vecchio muro.
Alle quattro e trentacinque, ero già sul rapido Roma-Torino.
Tutto solo, in un fiammeggiante scompartimento di prima classe.
Dove i poliziotti non osano avere sospetti.
Non andavo a caso. Avevo già studiato i miei passi. Appena
arrivato a Torino, filai direttamente dal compagno Corassa.
Un «libertario», devoto alla memoria di Pietro Gori
(il Cigno dell'Anarchia), anche lui vegetariano come Foresta,
ma non astemio.
Divise con me le sei polpette fredde che aveva per desinare,
mi raccomandò la prudenza («Fa’ nen ’l
picio, nè!») e mi consegnò un biglietto
di presentazione per il compagno Giocondo Sibilla. Il biglietto
era scritto a lapis copiativo su un foglio a quadretti, piuttosto
spesso. Corassa dovette piegarlo in otto, per farlo entrare
in una busta per biglietti da visita. L’unica che avesse
sottomano.
Conoscevo di nome Sibilla. Non era certo una stella di prima
grandezza, nel firmamento dell'anarchismo italiano. Dove ormai,
del resto, brillava, solitario, solo l’astro di Armando
Borghi.
Tuttavia veniva spesso citato, nelle riunioni clandestine, come
esempio di grinta libertaria. Infatti nel 1917, durante la ritirata
di Caporetto, Sibilla aveva sputato in un occhio, anzi, nel
monocolo di un maggiore di Stato Maggiore. L’avrebbero
fucilato sul posto, se non avesse avuto un nastrino azzurro
sul petto e il distintivo di due ferite sul braccio. Gli anarchici
sono contro la guerra, ma se vanno al fronte non si tirano indietro.
Così l’avevano mandato al reclusorio di Gaeta per
dodici anni. Liberato, dopo meno di tre, dall’amnistia
generale concessa da Francesco Nitti. Ora, quarantenne, viveva
a Bardonecchia. Gestiva, con la fedele «compagna»,
una piccola pensione nel Borgo Vecchio. Ma era solo una copertura.
In realtà, appena i valichi più scorbutici diventavano
un po’ praticabili, faceva il contrabbandiere. Portava
in là orologi e macchine fotografiche, già contrabbandati
dalla Svizzera, via San Bernardo, e portava in qua, a carichi
alterni, tabacco, saccarina e opuscoli di propaganda antifascista.
Non aveva fastidi perché, a quanto pare, strizzava l’occhio
a certi finanzieri.
Un mezzo comizio
di Gian Carlo Fusco
– Perché ve ne siete sortuto dall’Italia?
Avete rubato? Avete ammazzato?
– Né una cosa, né l’altra! Non riuscivo
più a sopportare i fascisti. Ecco perché sono
qua!
– Roba di politica, allora! E come la pensate? Siete socialista
o comunista?
– Sono anarchico.
– Di quelli che mettono le bombe?
– Non proprio. Sono un individualista. Un libertario.
Non credo a questa società. Ai suoi sistemi. Alle sue
istituzioni. Alle sue leggi e alla sua falsa morale. Tutte trappole
per fregare i poveri e favorire i ricchi! Per fare abbassare
la testa ai lavoratori davanti ai padroni! È tutto uno
schifo. Ma non credo neppure che il rimedio siano le bombe!
Mi resi conto, con una certa vergogna, di essermi riscaldato
un po’ troppo e di aver fatto un mezzo comizio.
Per di più, avevo alzato la voce e qualcuno, lì
attorno, mi guardava con una certa sorpresa. Vincenzo, infatti,
mi fece lentamente di no con la testa, per invitarmi alla cautela.
Quindi, pacatamente, riprese: – En conclusion, voi ce
l’avete con questo mondo di merda e volete ribellarvi
da solo alle ingiustizie che schiacciano la povera gente. E
siccome non vi volete attaccare al carretto, insieme agli altri
somari, non mangiate e soffrite il freddo.
Ma Vincenzo Parasole, che vi vede bene, che niente lesse ma
molto vide, vi dice che un giovanotto d’onore può
mangiare, coprirsi e vivere da cristiano, anche senza diventare
un somaro. Restando libero come l’aria e sputando in faccia
ai fetenti!
– E come?
– Anche gli irregolari si possono mettere in regola. A
modo loro. Senza mettersi in fila con le pecore e coi conigli!
Voi, benché avete studiato, siete un picciotto a posto.
O ci siamo sbagliati?
A posto, per lui, significava essere coraggioso. Non subire
prepotenze senza reagire. Mostrare i denti a chi te li mostra.
Sapersi battere. Qualità che, di solito, in un certo
ambiente, sono considerate inconciliabili con la cultura.
– Credo di essere abbastanza a posto, – ammisi.
– I libri, per me, sono importanti. Qualcuno, almeno.
Ma non sono tutto! Ho fatto anche quaranta match di boxe. Ho
combattuto con uomini molto più forti di me senza alzare
il braccio o cacarmi addosso. E tutte le volte che sono cascato
giù, mi sono rialzato.
– Bon! Allora non ci siamo sbagliati. Vous êtes
comme il faut! E perdonate, con la baiaffa come ve la cavate?
Strana domanda. Perché baiaffa, nel gergo dei duri, significa
pistola. E mi tornò subito in mente la smunta, grigia
figura di Umberto Bisogno. Un vecchio anarchico della mia città,
logorato dalla tisi, che s’era messo in testa di fare
scuola di tiro a noi giovani compagni.
E perciò, certe domeniche di primavera, ci portava in
una località deserta, dietro i ruderi di una polveriera
abbandonata, per farci sparare ai barattoli e alle bottiglie.
Usavamo una pesantissima Beretta d’ordinanza, ch’era
appartenuta a un suo fratello. Capitano di fanteria morto davanti
a Gorizia. E io ero il miglior tiratore di tutta la comitiva.
O, perlomeno, il meno peggio.
I brani sono tratti da: Gian Carlo Fusco, Duri a Marsiglia,
Einaudi, Torino, 2005.
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