Il giorno successivo
alla domenica 16 ottobre tutta l’Unione prodiana si
è sentita trionfante: ha esultato compatta per il successo
inaspettato della prima esperienza delle “primarie”
nazionali del centrosinistra. Non a torto! Il numero dei votanti,
4.311.149, è andato ben oltre ogni più rosea
aspettativa, superando di più di quattro volte il milione
che alla vigilia era considerato un vero successo.
Romano Prodi, leader designato dalla coalizione, ha ottenuto
il 74,1%, confermando l’attesa convergenza tra la base
e le dirigenze coalizzate del polo ora all’opposizione
parlamentare. Bertinotti, col suo 14,7%, ha ottenuto una dignitosa
affermazione superando la soglia del 12 che, secondo i calcoli
di partito, rappresentava la conferma dello stato attuale;
se poi si tien conto che una buona parte dei suoi probabilmente
non l’ha votato per dissidenza interna, vuol dire che
come personaggio gode di buona salute. Mastella, rappresentante
del centro, arrivando terzo ha dimostrato di contare di più
di quello che forse gli alleati speravano, confermando allo
stesso tempo che il centrismo di sinistra per ora non aspira
a destrizzarsi. Gli altri quattro, tutti ben al di sotto della
soglia del 4%, sono il fanalino di coda che quando c’è
un po’ di foschia rischia di non essere visto, compresi
i verdi che, col loro risicato 2,2%, stanno dimostrando la
loro progressiva endemica inconsistenza nonostante la consistenza
delle tematiche che vorrebbero rappresentare.
Guardando con una visuale non coinvolta nell’emozione
del trionfo, si può ben dire dunque che l’apparato
leaderistico del centrosinistra tiene ben saldo il controllo
del proprio elettorato, almeno quello che si è espresso,
in quanto nella sostanza tutto è andato secondo i dettami
e i calcoli ampiamente propagandati durante la campagna elettorale.
La lettura politica dell’avvenimento però ha
bisogno del disincanto, per essere un minimo purificata dall’esaltazione
trionfalistica funzionale solo alla propaganda elettorale
per le prossime di aprile 2006.
Una brutta fotocopia
Quando infatti si legge e si sente dire, com’è
avvenuto subito dopo, che in seguito a queste primarie anche
la destra è tentata dalla “democrazia diretta”,
a un anarchico come me vien senza dubbio da sorridere, ma
anche forte un moto di ripulsa intellettuale. A Roma direbbero:
«Ce fai o ce sei?». È sorprendente che
giornalisti e politicanti, che per mestiere si occupano di
politica, mostrino una così crassa ignoranza rispetto
ai contenuti e alle idee classiche su cui si fonda la politica
stessa. Con quale faccia, nel migliore dei casi spinti dall’ingenuità
di una beata ignoranza, si può parlare così
impunemente di democrazia diretta? Che cosa c’entra
questa pratica di gestione politica con un tradizionale rito
elettorale della democrazia rappresentativa come le primarie?
Vien da sorridere se si pensa a cuor leggero che è
una riproduzione all’italiana di un’istituzione
elettiva tipica dell’America. All’italiana, perché
qui da noi è stata realizzata senza neppure la dignità
competitiva tra probabili leader, che la fa seria, com’è
in auge da quando esiste negli USA. Una brutta fotocopia insomma,
voluta ed attuata con i molti se, i molti ma e le molte paure
di mal di pancia della vigilia, perché in fondo alla
coalizione che l’ha promossa non sarebbe poi andato
proprio giù se avessero rappresentato uno stravolgimento
dei loro piani propagandistici. Invece tutto, fortunatamente
per loro, è stato confermato come da copione, per cui
i “sinistri” dirigenti si possono ora permettere
di conclamare a spron battuto il trionfo incassato.
Cosa c’entra la democrazia diretta, dicevo, con le primarie?
Il fatto che la partecipazione al richiamo di un voto, anomalo
per le nostre tradizioni postbelliche, sia stato quantitativamente
molto elevato rispetto alle aspettative, non può in
alcun modo autorizzare a stravolgere i termini della questione.
La democrazia diretta si chiama così proprio perché
non è mediata da nessuna struttura di potere, perché
la funzione sociale della decisione vi viene esercitata direttamente
dalla base. Se vi sono deleghe non sono in alcun modo mandati
di comando, ma mandati limitati e revocabili che esauriscono
il proprio compito nel momento stesso in cui sono espletati
ed approvati dai deleganti.
L’elezione di Romano Prodi non è forse un mandato
di potere, una designazione di comando? Non è forse
stato eletto per guidare il popolo di centrosinistra, per
vincere le prossime elezioni politiche contro il centrodestra
berlusconiano ed avere la legittimità elettiva di governare
tutto il belpaese? Non è forse questa in tutto e per
tutto una vera ed autentica designazione di potere? Il suo
entourage dirigente non ha ancora neppure stilato un programma
di governo degno di questo nome. Come può dunque la
sua elezione essere assimilata in qualche modo ad un mandato
revocabile? Alla fin fine ha solo ottenuto la fiducia incondizionata
di un certo numero di futuri votanti per riuscire a diventare,
si fa per dire, un buon reggente di tutti gli italiani, votanti
e non votanti. Una volta ottenuta la legittimità “democratica”
del comando, questa è storia di sempre ormai assodata,
assieme ai suoi colonnelli potrà poi fare e disfare
a proprio piacimento, come, per altri versi, ha fatto il reggente
Berlusconi in quest’ultimo quinquennio ogni volta che
gli è riuscito. Da un punto di vista squisitamente
strutturale soltanto le dittature e gli assolutismi riescono
ad essere più autoritari.
Una bella differenza
Si osa citare la democrazia diretta a sproposito semplicemente
perché la partecipazione di coloro che hanno risposto
all’appello delle primarie è stata alta. Ma partecipare
di per sé non significa altro che rendersi partecipi
di qualcosa che c’è. Si può infatti partecipare
indifferentemente alle cose più angeliche come alle
peggiori nefandezze. Sempre di partecipazione si tratta e
in entrambi i casi non si può che valutarla quantitativamente.
Ciò che fa la differenza non è il se, bensì
a cosa si partecipa. E c’è una bella differenza
tra partecipare a designare chi ci deve governare e, al contrario,
partecipare a governare direttamente insieme ad ogni altro
alla pari, come nel caso ci fosse veramente la democrazia
diretta.
Già questa voluta ignoranza è significativa
per dimostrare come da tempo la politica ufficiale sia degenerata
e sembri sempre meno in grado di assolvere ai compiti per
cui è sorta. Lo spettacolo che ci viene propinato quotidianamente
con dovizia di immagini e di particolari dai media, vera e
propria passerella dei vari personaggi che affollano i meandri
dei palazzi legati al potere, anche se viene spacciato con
insistenza come il luogo eletto della pratica e della riflessione
politica, in realtà ha ben poco a che fare con essa.
Più che altro corrisponde a un palcoscenico dove si
svolge la rappresentazione che ha il compito di convincere
i cittadini/fruitori che si agisce per conto loro e in loro
favore. I giochi veri, dietro le quinte, hanno invece la chiara
funzione di ottenere il potere (oserei dire per il potere)
e di mantenerlo, al di là che venga ottenuto e conservato
con coerenza e trasparenza, oppure in modo occulto non dichiarato
e incoerente rispetto alle dichiarazioni pubbliche con le
quali i professionisti politicanti sanno così bene
imbonire.
A tal proposito penso sia indispensabile una distinzione tra
la comprensione della politica e l’occuparsi di politica,
perché al di là dell’apparenza nominalistica
non sono affatto la stessa cosa. La prima si occupa di capire
e valutare il senso delle cose che sottendono alla gestione
della polis e identifica i metodi e gli scopi delle scelte
e delle procedure, la seconda si occupa dell’ordinario
vigente per come è, non si preoccupa di metterlo in
discussione e in genere riduce la gestione della cosa pubblica
a mera professione. La prima, siccome si riferisce all’individuazione
di che cos’è la ragione prima di ogni scelta,
prescinde dalla visione del contingente e getta una sguardo
capace di andare oltre ciò che appare, per identificare
i presupposti teorici su cui si fondano i vari sistemi; in
altre parole è l’individuazione e la comprensione
del che cosa appartiene a quel problema e lo identifica, indipendentemente
da come al momento è stato assimilato e viene vissuto.
La seconda si riferisce alla capacità di individuare
come muoversi all’interno degli assetti dominanti cercando
d’integrarvisi, magari per ricavarne il maggior utile
possibile.
Politica o consenso
La politica, che più d’uno intende addirittura
come scienza, è stata pensata in origine per capire
e scegliere il tipo di società che si vuole e i metodi
di decisione che la coinvolgono. Dovrebbe essere una specie
di faro che illumina il cammino, che quindi aiuta a scegliere
e a capire cosa e perché si sceglie. Purtroppo da troppo
tempo è stata ridotta a fatto meramente amministrativo,
al punto che dovunque si parli comunemente di politica si
discute esclusivamente di come amministrare ciò che
c’è senza più chiedersi che cosa effettivamente
ci sia e perché c’è. Forse è proprio
vero che aleggia incontrastato un pensiero unico che induce
a supporre che oltre il sistema che c’è altro
non è possibile? Invero non si discute più di
politica, non si combatte più per realizzare tipi di
società differenti dall’attuale, mentre i vari
leader di professione si scannano per avere il potere di amministrare
ciò che viene dato preconfezionato a loro ed a tutti
noi.
Il sistema sembra essere veramente stato accettato e si discute
soltanto di come renderlo più efficiente o, quando
è possibile, di migliorarlo, mentre non si cerca più
di superarlo per realizzare qualcosa di radicalmente diverso,
più accettabile e più rispondente agli ideali
di libertà, di giustizia e di uguaglianza. Non si parla
più veramente di politica, ma di consenso, di partecipazione
a ciò che è dato e concesso, di induzione mediatica,
di coalizioni e lobbies di potere, di interessi, di economia
intesa come realizzazione del maggior utile, di benessere
come capacità di consumo, di potenza come capacità
di inglobare i mercati e di sottomettere e imbonire gli esseri
umani. Prima la politica dovrebbe chiarire e dare le conoscenze
per sapere e saper scegliere quale tipo di società
si vuole impostare, poi, una volta sceltala, solo allora ci
si dovrebbe organizzare per amministrare la scelta.
Questo ragionamento porta di conseguenza a supporre che, se
ci sarà, la prossima rivoluzione politica porterà
alla realizzazione, in forme oggi magari non supposte né
supponibili, di una società che non vuole più
essere gestita dall’alto, né attraverso forme
assolutiste e dittatoriali né attraverso ambiguità
e gerarchie democratico-rappresentative, e che si sentirà
in grado di autogovernarsi. Ne sono convinto per il fatto
che i problemi dell’ambito decisionale e del rapporto
tra chi decide e chi deve accettare le decisioni continuano
a non essere risolti. Anzi! Affiorano continuamente come fulcro
irrisolto attorno a cui ruota l’intera problematica
politica e sociale.
Che cosa permette infatti che il sistema vigente possa continuare
imperterrito a dominare la scena? Lo permette la costante
definizione deliberazione ed esecuzione di regole e leggi
che hanno l’unico scopo di mantenere gli equilibri economici
politici e militari esistenti, cioè la costante di
conservazione atta a garantire che il sistema si perpetui,
in quanto chi viene designato a svolgere tali funzioni si
trova obbligato, formalmente a giurare fedeltà, di
fatto a permettere che il sistema che lo ha “incoronato”
venga da lui protetto, reso efficiente e mantenuto in equilibrio
stabile. Se non lo facesse, sempre secondo le regole conservative
in atto, verrebbe prima reso inoperante poi deposto.
Ma il sistema vigente, cui siamo costretti o accettiamo di
esserlo, in realtà non soddisfa nessuno, se non la
minoranza che ne gode i privilegi. Non soddisfa perché
né è in grado né veramente vuole risolvere
i problemi che determina, i quali sono generati dalla natura
stessa del suo esserci e dal funzionamento delle sue strutture
di conservazione. Sul piano economico la molla della sua gestione
sono i profitti finanziari e capitalisti, per cui le sue scelte
sono sempre determinate esclusivamente a realizzarli, altrimenti
questa economia non può funzionare.
Ne consegue che chi non ha compiti manageriali o proprietari
ai massimi livelli si trova perennemente condizionato finanziariamente
e ricattato nella sua condizione subordinata. Sul piano politico
la struttura decisionale è impostata per esercitare
gerarchicamente il governo della cosa pubblica, quindi rientra
nella sfera autoritaria della gestione, sia che sia condotta
con metodi di rappresentanza democratica sia con metodi dittatoriali.
Opposizioni spontanee
Le scelte politiche ed economiche che vengono prese con grande
frequenza sono antiecologiche, dettate dal bisogno di controllo
da parte di chi comanda, in favore dei potenti e dell’accumulo
di ricchezza. Dove le popolazioni hanno qualche possibilità
di espressione non del tutto imposta, come nei paesi occidentali
democratici, il gap di separazione tra la volontà dei
decisori e quella dei diretti trova sempre maggiori occasioni
di attrito, perché è determinata da interessi
separati dai bisogni delle basi sociali, in molti casi contrapposta.
Nascono così comitati, collettivi, associazioni, centri
sociali e gruppi, con lo scopo consapevole di contrastare
specifiche decisioni dirigenziali in cui i cittadini non si
riconoscono fino a sentirle nemiche. Il problema non può
essere risolto se non o con una retromarcia dei decisori,
in quei pochi casi in cui vengono sconfitti dalla pressione
popolare, o con imposizioni autoritarie che dimostrano come
gli eletti in realtà non rappresentino gli elettori.
In queste opposizioni spontanee, caratterizzate da forti determinazioni
di volersi e doversi ribellare, purtroppo manca in genere
la consapevolezza di non voler più dipendere dalle
decisioni gerarchiche e impositive, che permetterebbe il salto
di qualità di prendere in mano le sorti del proprio
destino e di decidere autonomamente. Troppo frequentemente
la coscienza della lotta si muove sul piano illusorio della
richiesta di avere decisori e dirigenti differenti da quelli
che ci sono, capaci d’interpretare e ascoltare ciò
che il popolo vorrebbe e di decidere di conseguenza.
Quando e se prenderà forma in modo diffuso questa nuova
consapevolezza, secondo cui non devono essere cambiati gli
individui cui è stato delegato il potere di decidere,
ma le strutture all’interno delle quali questi si muovono,
allora, e solo allora, avrà inizio la nuova rivoluzione
politica, il cui sbocco naturale non potrà che essere
la presa d’atto che le decisioni debbono essere prese
collettivamente attraverso forme strutturate ed istituite
di democrazia diretta. Come sempre, prima ci sarà un’acquisizione
cosciente di tipo culturale, per cui diverrà chiaro
e lampante che non bisogna agire più per avere chi,
eletto o imposto non ha importanza, decida al posto nostro,
poi saranno messe in moto azioni sperimentazioni e contrasti
che realizzino la nuova volontà acquisita.
In questa opera e in questa prospettiva gli anarchici dovrebbero
e potrebbero avere un ruolo preminente, in quanto corrisponde
in pieno alle aspettative e agli ideali che da secoli propagandano.
Anzi! Una tale visione complessiva e strategica dovrebbe diventare
il punto di riferimento, la luce che illumina le scelte e
la messa in opera dell’azione rivoluzionaria che li
distingue, mettendo in piedi sperimentando proponendo ed agendo
all’interno delle situazioni col fine precipuo e lampante
di una tale universale e complessiva realizzazione. L’anarchia
allora non potrà che essere molto più vicina
di ora, sentita finalmente possibile e auspicabile.