Rivista Anarchica Online


politica

Quanto sanno di vecchio le primarie
di Andrea Papi

 

Tutti ne parlano come di una grande manifestazione di democrazia diretta, invece…


Il giorno successivo alla domenica 16 ottobre tutta l’Unione prodiana si è sentita trionfante: ha esultato compatta per il successo inaspettato della prima esperienza delle “primarie” nazionali del centrosinistra. Non a torto! Il numero dei votanti, 4.311.149, è andato ben oltre ogni più rosea aspettativa, superando di più di quattro volte il milione che alla vigilia era considerato un vero successo.
Romano Prodi, leader designato dalla coalizione, ha ottenuto il 74,1%, confermando l’attesa convergenza tra la base e le dirigenze coalizzate del polo ora all’opposizione parlamentare. Bertinotti, col suo 14,7%, ha ottenuto una dignitosa affermazione superando la soglia del 12 che, secondo i calcoli di partito, rappresentava la conferma dello stato attuale; se poi si tien conto che una buona parte dei suoi probabilmente non l’ha votato per dissidenza interna, vuol dire che come personaggio gode di buona salute. Mastella, rappresentante del centro, arrivando terzo ha dimostrato di contare di più di quello che forse gli alleati speravano, confermando allo stesso tempo che il centrismo di sinistra per ora non aspira a destrizzarsi. Gli altri quattro, tutti ben al di sotto della soglia del 4%, sono il fanalino di coda che quando c’è un po’ di foschia rischia di non essere visto, compresi i verdi che, col loro risicato 2,2%, stanno dimostrando la loro progressiva endemica inconsistenza nonostante la consistenza delle tematiche che vorrebbero rappresentare.
Guardando con una visuale non coinvolta nell’emozione del trionfo, si può ben dire dunque che l’apparato leaderistico del centrosinistra tiene ben saldo il controllo del proprio elettorato, almeno quello che si è espresso, in quanto nella sostanza tutto è andato secondo i dettami e i calcoli ampiamente propagandati durante la campagna elettorale. La lettura politica dell’avvenimento però ha bisogno del disincanto, per essere un minimo purificata dall’esaltazione trionfalistica funzionale solo alla propaganda elettorale per le prossime di aprile 2006.

Una brutta fotocopia

Quando infatti si legge e si sente dire, com’è avvenuto subito dopo, che in seguito a queste primarie anche la destra è tentata dalla “democrazia diretta”, a un anarchico come me vien senza dubbio da sorridere, ma anche forte un moto di ripulsa intellettuale. A Roma direbbero: «Ce fai o ce sei?». È sorprendente che giornalisti e politicanti, che per mestiere si occupano di politica, mostrino una così crassa ignoranza rispetto ai contenuti e alle idee classiche su cui si fonda la politica stessa. Con quale faccia, nel migliore dei casi spinti dall’ingenuità di una beata ignoranza, si può parlare così impunemente di democrazia diretta? Che cosa c’entra questa pratica di gestione politica con un tradizionale rito elettorale della democrazia rappresentativa come le primarie?
Vien da sorridere se si pensa a cuor leggero che è una riproduzione all’italiana di un’istituzione elettiva tipica dell’America. All’italiana, perché qui da noi è stata realizzata senza neppure la dignità competitiva tra probabili leader, che la fa seria, com’è in auge da quando esiste negli USA. Una brutta fotocopia insomma, voluta ed attuata con i molti se, i molti ma e le molte paure di mal di pancia della vigilia, perché in fondo alla coalizione che l’ha promossa non sarebbe poi andato proprio giù se avessero rappresentato uno stravolgimento dei loro piani propagandistici. Invece tutto, fortunatamente per loro, è stato confermato come da copione, per cui i “sinistri” dirigenti si possono ora permettere di conclamare a spron battuto il trionfo incassato.
Cosa c’entra la democrazia diretta, dicevo, con le primarie? Il fatto che la partecipazione al richiamo di un voto, anomalo per le nostre tradizioni postbelliche, sia stato quantitativamente molto elevato rispetto alle aspettative, non può in alcun modo autorizzare a stravolgere i termini della questione. La democrazia diretta si chiama così proprio perché non è mediata da nessuna struttura di potere, perché la funzione sociale della decisione vi viene esercitata direttamente dalla base. Se vi sono deleghe non sono in alcun modo mandati di comando, ma mandati limitati e revocabili che esauriscono il proprio compito nel momento stesso in cui sono espletati ed approvati dai deleganti.
L’elezione di Romano Prodi non è forse un mandato di potere, una designazione di comando? Non è forse stato eletto per guidare il popolo di centrosinistra, per vincere le prossime elezioni politiche contro il centrodestra berlusconiano ed avere la legittimità elettiva di governare tutto il belpaese? Non è forse questa in tutto e per tutto una vera ed autentica designazione di potere? Il suo entourage dirigente non ha ancora neppure stilato un programma di governo degno di questo nome. Come può dunque la sua elezione essere assimilata in qualche modo ad un mandato revocabile? Alla fin fine ha solo ottenuto la fiducia incondizionata di un certo numero di futuri votanti per riuscire a diventare, si fa per dire, un buon reggente di tutti gli italiani, votanti e non votanti. Una volta ottenuta la legittimità “democratica” del comando, questa è storia di sempre ormai assodata, assieme ai suoi colonnelli potrà poi fare e disfare a proprio piacimento, come, per altri versi, ha fatto il reggente Berlusconi in quest’ultimo quinquennio ogni volta che gli è riuscito. Da un punto di vista squisitamente strutturale soltanto le dittature e gli assolutismi riescono ad essere più autoritari.

Una bella differenza

Si osa citare la democrazia diretta a sproposito semplicemente perché la partecipazione di coloro che hanno risposto all’appello delle primarie è stata alta. Ma partecipare di per sé non significa altro che rendersi partecipi di qualcosa che c’è. Si può infatti partecipare indifferentemente alle cose più angeliche come alle peggiori nefandezze. Sempre di partecipazione si tratta e in entrambi i casi non si può che valutarla quantitativamente. Ciò che fa la differenza non è il se, bensì a cosa si partecipa. E c’è una bella differenza tra partecipare a designare chi ci deve governare e, al contrario, partecipare a governare direttamente insieme ad ogni altro alla pari, come nel caso ci fosse veramente la democrazia diretta.
Già questa voluta ignoranza è significativa per dimostrare come da tempo la politica ufficiale sia degenerata e sembri sempre meno in grado di assolvere ai compiti per cui è sorta. Lo spettacolo che ci viene propinato quotidianamente con dovizia di immagini e di particolari dai media, vera e propria passerella dei vari personaggi che affollano i meandri dei palazzi legati al potere, anche se viene spacciato con insistenza come il luogo eletto della pratica e della riflessione politica, in realtà ha ben poco a che fare con essa. Più che altro corrisponde a un palcoscenico dove si svolge la rappresentazione che ha il compito di convincere i cittadini/fruitori che si agisce per conto loro e in loro favore. I giochi veri, dietro le quinte, hanno invece la chiara funzione di ottenere il potere (oserei dire per il potere) e di mantenerlo, al di là che venga ottenuto e conservato con coerenza e trasparenza, oppure in modo occulto non dichiarato e incoerente rispetto alle dichiarazioni pubbliche con le quali i professionisti politicanti sanno così bene imbonire.
A tal proposito penso sia indispensabile una distinzione tra la comprensione della politica e l’occuparsi di politica, perché al di là dell’apparenza nominalistica non sono affatto la stessa cosa. La prima si occupa di capire e valutare il senso delle cose che sottendono alla gestione della polis e identifica i metodi e gli scopi delle scelte e delle procedure, la seconda si occupa dell’ordinario vigente per come è, non si preoccupa di metterlo in discussione e in genere riduce la gestione della cosa pubblica a mera professione. La prima, siccome si riferisce all’individuazione di che cos’è la ragione prima di ogni scelta, prescinde dalla visione del contingente e getta una sguardo capace di andare oltre ciò che appare, per identificare i presupposti teorici su cui si fondano i vari sistemi; in altre parole è l’individuazione e la comprensione del che cosa appartiene a quel problema e lo identifica, indipendentemente da come al momento è stato assimilato e viene vissuto. La seconda si riferisce alla capacità di individuare come muoversi all’interno degli assetti dominanti cercando d’integrarvisi, magari per ricavarne il maggior utile possibile.

Politica o consenso

La politica, che più d’uno intende addirittura come scienza, è stata pensata in origine per capire e scegliere il tipo di società che si vuole e i metodi di decisione che la coinvolgono. Dovrebbe essere una specie di faro che illumina il cammino, che quindi aiuta a scegliere e a capire cosa e perché si sceglie. Purtroppo da troppo tempo è stata ridotta a fatto meramente amministrativo, al punto che dovunque si parli comunemente di politica si discute esclusivamente di come amministrare ciò che c’è senza più chiedersi che cosa effettivamente ci sia e perché c’è. Forse è proprio vero che aleggia incontrastato un pensiero unico che induce a supporre che oltre il sistema che c’è altro non è possibile? Invero non si discute più di politica, non si combatte più per realizzare tipi di società differenti dall’attuale, mentre i vari leader di professione si scannano per avere il potere di amministrare ciò che viene dato preconfezionato a loro ed a tutti noi.
Il sistema sembra essere veramente stato accettato e si discute soltanto di come renderlo più efficiente o, quando è possibile, di migliorarlo, mentre non si cerca più di superarlo per realizzare qualcosa di radicalmente diverso, più accettabile e più rispondente agli ideali di libertà, di giustizia e di uguaglianza. Non si parla più veramente di politica, ma di consenso, di partecipazione a ciò che è dato e concesso, di induzione mediatica, di coalizioni e lobbies di potere, di interessi, di economia intesa come realizzazione del maggior utile, di benessere come capacità di consumo, di potenza come capacità di inglobare i mercati e di sottomettere e imbonire gli esseri umani. Prima la politica dovrebbe chiarire e dare le conoscenze per sapere e saper scegliere quale tipo di società si vuole impostare, poi, una volta sceltala, solo allora ci si dovrebbe organizzare per amministrare la scelta.
Questo ragionamento porta di conseguenza a supporre che, se ci sarà, la prossima rivoluzione politica porterà alla realizzazione, in forme oggi magari non supposte né supponibili, di una società che non vuole più essere gestita dall’alto, né attraverso forme assolutiste e dittatoriali né attraverso ambiguità e gerarchie democratico-rappresentative, e che si sentirà in grado di autogovernarsi. Ne sono convinto per il fatto che i problemi dell’ambito decisionale e del rapporto tra chi decide e chi deve accettare le decisioni continuano a non essere risolti. Anzi! Affiorano continuamente come fulcro irrisolto attorno a cui ruota l’intera problematica politica e sociale.
Che cosa permette infatti che il sistema vigente possa continuare imperterrito a dominare la scena? Lo permette la costante definizione deliberazione ed esecuzione di regole e leggi che hanno l’unico scopo di mantenere gli equilibri economici politici e militari esistenti, cioè la costante di conservazione atta a garantire che il sistema si perpetui, in quanto chi viene designato a svolgere tali funzioni si trova obbligato, formalmente a giurare fedeltà, di fatto a permettere che il sistema che lo ha “incoronato” venga da lui protetto, reso efficiente e mantenuto in equilibrio stabile. Se non lo facesse, sempre secondo le regole conservative in atto, verrebbe prima reso inoperante poi deposto.
Ma il sistema vigente, cui siamo costretti o accettiamo di esserlo, in realtà non soddisfa nessuno, se non la minoranza che ne gode i privilegi. Non soddisfa perché né è in grado né veramente vuole risolvere i problemi che determina, i quali sono generati dalla natura stessa del suo esserci e dal funzionamento delle sue strutture di conservazione. Sul piano economico la molla della sua gestione sono i profitti finanziari e capitalisti, per cui le sue scelte sono sempre determinate esclusivamente a realizzarli, altrimenti questa economia non può funzionare.
Ne consegue che chi non ha compiti manageriali o proprietari ai massimi livelli si trova perennemente condizionato finanziariamente e ricattato nella sua condizione subordinata. Sul piano politico la struttura decisionale è impostata per esercitare gerarchicamente il governo della cosa pubblica, quindi rientra nella sfera autoritaria della gestione, sia che sia condotta con metodi di rappresentanza democratica sia con metodi dittatoriali.

Opposizioni spontanee

Le scelte politiche ed economiche che vengono prese con grande frequenza sono antiecologiche, dettate dal bisogno di controllo da parte di chi comanda, in favore dei potenti e dell’accumulo di ricchezza. Dove le popolazioni hanno qualche possibilità di espressione non del tutto imposta, come nei paesi occidentali democratici, il gap di separazione tra la volontà dei decisori e quella dei diretti trova sempre maggiori occasioni di attrito, perché è determinata da interessi separati dai bisogni delle basi sociali, in molti casi contrapposta. Nascono così comitati, collettivi, associazioni, centri sociali e gruppi, con lo scopo consapevole di contrastare specifiche decisioni dirigenziali in cui i cittadini non si riconoscono fino a sentirle nemiche. Il problema non può essere risolto se non o con una retromarcia dei decisori, in quei pochi casi in cui vengono sconfitti dalla pressione popolare, o con imposizioni autoritarie che dimostrano come gli eletti in realtà non rappresentino gli elettori.
In queste opposizioni spontanee, caratterizzate da forti determinazioni di volersi e doversi ribellare, purtroppo manca in genere la consapevolezza di non voler più dipendere dalle decisioni gerarchiche e impositive, che permetterebbe il salto di qualità di prendere in mano le sorti del proprio destino e di decidere autonomamente. Troppo frequentemente la coscienza della lotta si muove sul piano illusorio della richiesta di avere decisori e dirigenti differenti da quelli che ci sono, capaci d’interpretare e ascoltare ciò che il popolo vorrebbe e di decidere di conseguenza.
Quando e se prenderà forma in modo diffuso questa nuova consapevolezza, secondo cui non devono essere cambiati gli individui cui è stato delegato il potere di decidere, ma le strutture all’interno delle quali questi si muovono, allora, e solo allora, avrà inizio la nuova rivoluzione politica, il cui sbocco naturale non potrà che essere la presa d’atto che le decisioni debbono essere prese collettivamente attraverso forme strutturate ed istituite di democrazia diretta. Come sempre, prima ci sarà un’acquisizione cosciente di tipo culturale, per cui diverrà chiaro e lampante che non bisogna agire più per avere chi, eletto o imposto non ha importanza, decida al posto nostro, poi saranno messe in moto azioni sperimentazioni e contrasti che realizzino la nuova volontà acquisita.
In questa opera e in questa prospettiva gli anarchici dovrebbero e potrebbero avere un ruolo preminente, in quanto corrisponde in pieno alle aspettative e agli ideali che da secoli propagandano. Anzi! Una tale visione complessiva e strategica dovrebbe diventare il punto di riferimento, la luce che illumina le scelte e la messa in opera dell’azione rivoluzionaria che li distingue, mettendo in piedi sperimentando proponendo ed agendo all’interno delle situazioni col fine precipuo e lampante di una tale universale e complessiva realizzazione. L’anarchia allora non potrà che essere molto più vicina di ora, sentita finalmente possibile e auspicabile.

Andrea Papi