È forse una
società autistica la nostra? È una domanda ricorrente
nei miei pensieri in questi ultimi tempi a cui vorrei dare
una risposta.
Naturalmente rispondere significa per me spiegare e descrivere,
ma anche essere convinto che sia un problema che può
interessare molti di noi, poiché non è ininfluente
capire esattamente qual è la qualità dei rapporti
umani nelle nostre società.
L’autismo è quel disturbo, frequente nella schizofrenia,
caratterizzato dalla perdita di interesse per il mondo esterno,
con una forte chiusura in sé stessi e, talvolta, anche
con una produzione cospicua di fantasie, allucinazioni, deliri.
Come si può capire subito, l’autismo è
un disturbo individuale che attiene all’essere nel suo
relazionarsi col mondo. Quindi sembra contraddittorio attribuirlo
ad una società, ad un gruppo, ad un insieme, ad una
entità non individuale. Ma in questo caso penso proprio
che sia una definizione corretta e cercherò di spiegarmi
meglio.
Il comportamento autistico, uscendo dall’uso e dall’abuso
culturale della psicologia e della psichiatria, può
apparire come una risposta automatica di resistenza all’intromissione
massiccia e soffocante dell’insieme sul e nel singolo.
Quando ci sentiamo oppressi nella nostra esistenza, invasi
nella nostra intimità, occupati nello spazio e nel
tempo, tutti (molti) diventano autistici. Voglio anzi sostenere
che questo atteggiamento di ribellione viscerale alla limitazione
stressante della propria individualità è indispensabile
per sostenere e garantire lo spazio autonomo di ognuno di
noi.
Ma, nella sua accezione patologica, l’autismo è
un ripiegamento implosivo, un ostentato e quasi masochistico
rifiuto di stare con gli altri, o meglio, di riconoscere gli
altri.
In ogni caso l’autismo, quando non è imposto
dalle allucinazioni e dai deliri di un mondo di relazioni
drogate e autoritarie, può essere il tentativo di resistere
e di rispondere, cercando in sé stessi la via di fuga
alle soffocanti maglie del dominio.
Eccesso di comunicazione
Ma quando questa incomunicabilità esistenziale ed
essenziale si estende ad un gruppo sociale, ad un’intera
società, diventa un fenomeno molto, molto preoccupante.
La mia preoccupazione, si badi bene, non è quella del
sociologo asettico che descrive i fenomeni, ma quella piuttosto
di chi sente addosso questa realtà di isolamento e
di sofferenza.
Una delle poche certezze che ho conservato nel tempo è
quella della naturale socialità degli esseri umani,
del bisogno vitale di stare insieme all’altro, non solo
per la sopravvivenza ma soprattutto perché non è
possibile alcuna libertà, nessuna autonomia, senza
anche quella di chi ti è prossimo; anzi, oggi più
che mai, abbiamo capito tutti che le condizioni di coloro
che pure ci sono lontani (geograficamente e culturalmente)
sono determinanti per definire le nostre.
Allora la riflessione, quando si ha la percezione che la società
nella quale si vive, e questa nel suo rapporto con altre più
lontane, sia in una fase di acuta e drammatica implosione,
diventa drammatica e significativa per ognuno di noi.
Ma come, potreste obiettare, nella società fondata
sulla comunicazione, dove tutto, ma proprio tutto, è
soggetto alle regole della comunicazione, dove il trionfo
di tutto ciò che è hi-tech è finalizzato
a mettere in relazione comunicativa gli individui, dove la
ricerca scientifica è un business mediatico prima che
sostanziale, dove il terrorismo di stato o fondamentalista
cura, in maniera ossessiva e perfezionista, all’estremo,
proprio e soprattutto il comunicare, dove molti seguaci dell’alternativismo
e dello scontro politico cercano ossessivamente l’apparenza
e la visibilità che diventa poi il vero scopo e il
vero obiettivo (in mancanza evidentemente di più sostanziali
idee), dove abbiamo appena celebrato la potenza comunicativa
delle varie religioni, dove ogni cosa, ogni respiro, ogni
esistenza trovano il loro senso nell’essere comunicate
e raccontate (pensate a chi ormai si esibisce in TV anche
quando sta al cesso, in isole più o meno famose), dove
tutto insomma è apparenza condivisa e sostenuta, in
questa società noi potremmo descrivere l’autismo
sociale?
Penso proprio di sì, penso anzi che questo eccesso
di comunicazione drogata, questo bisogno sfrenato di mettere
a conoscenza di tutti ogni pensiero, ogni sentimento, ogni
azione, ogni fremito individuale, dimostri drammaticamente
che non esiste alcuna comunicazione vera, che la solitudine
forzata, il ripiegamento su sé stessi, costituisce
la realtà.
Tutto ciò potrebbe anche essere un bene se fosse una
libera scelta, consapevole, di ritirarsi e di resistere all’invasione
barbarica della società di massa, ma solo pochi sono
consapevoli di ciò che stiamo vivendo, troppo pochi
sono in grado di sviluppare comportamenti alternativi, sani,
semplici, immediati, liberi, autonomi.
Disegno di Franklin Hammond
Confini inviolabili
Per la maggioranza di noi, esseri umani mai così piccini
e limitati come oggi, apparire in questa orgia mediatica e
comunicativa, diventa uno dei nuovi bisogni indotti, una delle
ragioni di autostima e di autoconsiderazione.
La comunicazione, così connaturata all’essere
umano, è in questo mondo completamente saltata, non
c’è più, non esiste. Possiamo trovare
tutto ciò che ho sommariamente e schematicamente descritto
prima, ma la comunicazione vera non alberga più nelle
relazioni umane. Basta stare in macchina ad un semaforo, ascoltare
i commenti in una fila davanti ad un ufficio qualsiasi, aspettare
il proprio turno alla cassa di un supermercato, osservare
degli adolescenti (ma non solo) quando si misurano con una
play station o quando sono in un qualsiasi ritrovo, per capire
che quello che sto sostenendo è più di un pericolo,
ma è, piuttosto, una disarmante realtà. Allora
l’autismo non ci apparirà più come una
patologia individuale, non ci preoccuperà più
in quanto reazione personale esasperata tendente al ripiegamento
estremo in sé stessi, ma si paleserà come una
caratteristica fondante di questa società di massa.
La via d’uscita è innanzitutto una presa di coscienza
individuale, un lavoro faticoso e continuo in noi stessi,
un rifiuto di queste logiche dell’apparenza e della
comunicazione totalizzante e forzata. Ma non basta. La potenza
suadente della comunicazione mediatica e delle sue logiche
è veramente forte, invasiva, ammagliante, subdola.
Neanche l’estremizzazione dell’alternativismo,
della ostentazione supponente e saccente, dunque autoritaria,
della propria presunta diversità, mi pare utile alla
causa.
La cosa più difficile e anche più utile è
quella di tracciare sistematicamente dei limiti del proprio
essere nei confronti delle cose e degli altri, non rifiutare
queste cose o questi esseri umani. Sono tutto ciò che
garantisce anche a noi una esistenza degna di essere vissuta.
Ma tracciare il limite oltre il quale non andare, segnare
i confini inviolabili della propria dignità, libertà,
autonomia, è indispensabile, oggi più che mai.
È difficile, tremendamente difficile e faticoso. Ma
è l’unica cosa concreta, sistematica, quotidiana,
che possiamo fare per garantire ai nostri sogni di essere
ancora appetibili per i nostri figli.
Comunicare è essenziale per la nostra vita, esprimere
noi stessi, ciò che siamo veramente, è il senso
forse più vero di un progetto di società che
esploda ogni giorno in una nuova, libera, significante, comunità
nella quale, ancora una volta, ricordiamolo, ciò che
esalta l’individuo e lo rende degno di considerarsi
tale, è il riconoscersi nell’altro senza vergognarsi
di appartenere al genere umano.