Claudina Isabel Velásquez Paíz aveva 19 anni, studiava giurisprudenza all’Università di Città del Guatemala. Il 12 agosto 2005 è uscita da casa per andare all’università ed è stata l’ultima volta che i suoi familiari l’hanno vista viva. Il suo corpo è stato ritrovato il giorno dopo: era stata stuprata, torturata e poi uccisa con un colpo di pistola alla testa.
Quella di Claudine è una delle tante storie di donne che in Guatemala, ogni anno, vengono uccise.
L’ultimo Rapporto annuale di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo (1) dedica un capitolo al “femminicidio”, termine coniato dai movimenti femministi latinoamericani per differenziare e sottolineare l’aspetto politico degli omicidi contro le donne: nel 2005 in Guatemala sono state assassinate 665 donne su una media di oltre 5.000 omicidi, 527 nel 2004, 2.600 negli ultimi 5 anni, e il dato è in costante aumento. Quasi tutte sono state prima torturate e violentate.
La gran parte degli omicidi rimane impunita, nei rari casi in cui viene aperta un’inchiesta le indagini vengono svolte con superficialità e negligenza, anche perché, come denunciano le organizzazioni per i diritti umani, in molti casi sono gli stessi poliziotti ad essere coinvolti nei crimini.
In continuo aumento anche la violenza domestica: nel 2003 i tribunali hanno esaminato una media di 1.200 denunce al mese, e il numero pur così alto è sicuramente sottostimato rispetto alla reale portata del fenomeno.
Negli ultimi anni sono cresciute le violenze contro le attiviste politiche, un dato reso ancora più inquietante dal fatto che in Guatemala sono state proprio le donne a svolgere un ruolo determinante nella costruzione di spazi democratici e nella difesa dei diritti umani.
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Indigena maya sopravvissuta al massacro
di Plan de Sánchez durante il quale
furono uccisi quattro dei suoi familiari
(foto Orlando Sierra, Ag. Prensa Latina) |
Forti squilibri
economici e sociali
Il Guatemala è uno dei paesi più poveri e violenti dell’America Latina, caratterizzato da forti squilibri economici e sociali, dalla violenza della criminalità, quella comune e quella organizzata delle narcomafie e dei gruppi paramilitari.
La sua storia recente, come quella di gran parte dei Paesi latinoamericani, è stata contrassegnata dall’interventismo USA.
Nel 1954 gli Stati Uniti appoggiano un colpo di stato per rovesciare il governo democraticamente eletto del presidente Jacobo Arbenz Guzman, che aveva avviato importanti riforme per modernizzare il Paese. In particolare, aveva promosso una vasta riforma agraria che prevedeva l’esproprio delle terre incolte per ridistribuirle ai contadini. La riforma incontra la dura opposizione dei grandi proprietari terrieri, tra cui la United Fruit Company, la potente multinazionale statunitense proprietaria di più di mezzo milione di acri di terra, che in Guatemala controlla la rete telegrafica e ferroviaria e l’unico scalo marittimo sull’Atlantico. Col pretesto del “pericolo comunista”, la CIA mette a punto il colpo di stato (nome in codice “Operation Success”, come rivelerà quarant’anni più tardi la pubblicazione dei documenti segreti dell’Agenzia americana), e insedia il dittatore Carlo Castillo Armas, il quale abroga la riforma agraria, bandisce partiti e sindacati, reprime nel sangue l’opposizione politica.
Inizia così un periodo di dittature tra le più brutali del continente, sostenute militarmente ed economicamente dagli Stati Uniti, che dagli anni 50 in poi attuano una politica di controllo di tutta l’area: è qui che la CIA addestrerà militarmente alcune migliaia di fuoriusciti cubani anticastristi per l’invasione della Baia dei Porci a Cuba nel 1961, fallita clamorosamente grazie alla reazione dell’esercito e della popolazione.
Il culmine del terrore in Guatemala si raggiunge negli anni ’80 con le dittature del Generale Romeo Lucas Garcia (’78-’82) e del Generale Efrain Rios Montt (’82-’83), che oltre alla brutale repressione di qualsiasi forma di opposizione, attuano una politica di genocidio nei confronti degli indigeni Maya. I gruppi della guerriglia, di ispirazione marxista, si uniscono per formare l’Unidad Revolucionaria Nacional de Guatemala (URNG).
Dopo il trattato di pace del 1996 che pone fine a 36 anni di conflitto armato tra le forze governative e l’unità rivoluzionaria guatemalteca, la società civile, tra cui si distinguono le organizzazioni delle donne, chiedono a gran voce che venga fatta luce sulle violenze dei militari contro la popolazione. I numeri, documentati dalla Comisión para el esclarecimiento histórico (CEH – Commissione per il chiarimento storico), promossa dalle Nazioni Unite, sono impressionanti: 200.000 vittime, quasi tutti indigeni, 75.000 desaparecidos, un milione gli sfollati, centinaia i villaggi bruciati e distrutti. Il ricorso allo stupro da parte dei militari, soprattutto contro le indigene, è stato massiccio e sistematico.
Il rapporto dell’ONU “Memoria del Silenzio”, quello dell’Arcivescovado del Guatemala, “Nunca Más”, costato la vita al vescovo Gerardi, e il libro-denuncia del Nobel per la pace Rigoberta Menchú hanno documentato e reso pubbliche centinaia di testimonianze sul genocidio.
Indagini sui massacri
dei regimi militari
CONAVIGUA (Coordinadora Nacional de Viudas de Guatemala), il coordinamento nazionale delle vedove Maya, è nato nel 1988 con lo scopo di individuare le fosse comuni che raccolgono i resti dei desaparecidos e ottenerne la riesumazione. Si occupa di indagare sui massacri, cerca i sopravvissuti, i testimoni dei fatti per conoscere i luoghi delle sepolture e i nomi dei carnefici. Le donne di CONAVIGUA lavorano con gli esperti della Fondazione di Antropologia Forense, che identificano i resti e stabiliscono le cause e le modalità della morte: soltanto a questo punto i familiari dei desaparecidos possono denunciare all’Autorità giudiziaria i responsabili.
Fino ad oggi, grazie all’attività di CONAVIGUA che continua a operare nonostante le intimidazioni e gli ostacoli burocratici, sono stati identificati e riesumati i corpi di oltre 500 desaparecidos.
Ma a dieci anni dalla firma del trattato, nessuno dei responsabili dei crimini contro la popolazione è stato incriminato, la gran parte ricopre ancora incarichi militari e politici. La corruzione del sistema di potere ha raggiunto livelli altissimi e la sostanziale complicità e continuità con gli apparati politici ed economici delle precedenti dittature sta devastando una società profondamente segnata da 36 anni di conflitto e da una violenza diffusa.
L’attuale governo, retto da Oscar Berger, conservatore, latifondista e uomo d’affari, è formato da una coalizione eterogenea, che rappresenta soprattutto le élite imprenditoriali, latifondiste e militari, e in cui la maggioranza degli eletti proviene dal FRG, il Frente Republicano Guatemalteco, il partito dell’ex dittatore Rios Montt. Nella squadra di governo figurano soltanto due indigeni, che pure rappresentano la maggioranza della popolazione.
Eletto nel 2004 grazie a una campagna incentrata sul ripristino della legalità e sulla difesa delle fasce più deboli, Oscar Berger non ha finora affrontato nessuno dei problemi più urgenti, e oltre a perpetuare un sistema di potere e di privilegi che condanna all’esclusione gran parte della società guatemalteca, ha consolidato politiche neoliberiste e accordi commerciali con gli Stati Uniti che stanno ulteriormente impoverendo il Paese. L’ultimo, in ordine di tempo, è il trattato di libero Commercio con gli USA (TLC-CAFTA), ratificato lo scorso anno, contro il quale si sono svolte imponenti manifestazioni di protesta, violentemente represse dalla polizia.
Mano libera
alle multinazionali
Per aggirare il dissenso crescente dei Paesi latinoamericani alle imposizioni commerciali statunitensi e in particolare all’ALCA, il progetto di un’area di libero commercio che richiede l’assenso di tutti gli Stati del Nord, Centro e Sud America (ad eccezione di Cuba), gli Stati Uniti stanno tentando di concludere accordi separati con i singoli Stati, i TLC appunto.
Uno dei grandi pericoli di questi trattati consiste nel fatto che non si limitano a regolare il commercio, ma si estendono a temi come la privatizzazione dei servizi, la proprietà intellettuale e la brevettabilità delle forme di vita animale e vegetale. In base agli articoli del TLC, le multinazionali che investiranno in Guatemala avranno mano libera nell’utilizzo delle risorse e della manodopera, per contro lo Stato non avrà alcun potere di intervento, né la società civile avrà strumenti per difendere i propri diritti.
Esemplificativo è il caso del Marlin Project, il megaprogetto di estrazione dell’oro della multinazionale mineraria canadese Glamis Gold nel territorio indigeno di San Marcos. Il progetto, sostenuto dalla Banca Mondiale che partecipa con un prestito di 35 milioni di dollari, prevede lo sfruttamento intensivo del territorio per un periodo complessivo di 13 anni, che garantirà all’impresa utili per 707 milioni di dollari. Solo l’1% rimarrà in Guatemala, sotto forma di royalties pagate in cambio della concessione. Agli indigeni resterà un ambiente completamente degradato, con la distruzione delle montagne (secondo lo studio di impatto ambientale verranno polverizzati 38 milioni di tonnellate di rocce) e suoli, fiumi e falde contaminate, in cambio di 1.400 posti di lavoro nel primo anno e 180 nei dieci successivi.
Così come sta crescendo progressivamente il numero di maquiladoras, fabbriche di assemblaggio che operano con contratti di subappalto, in gran parte aperte dalle multinazionali che sfruttano mano d’opera a basso costo e dove si lavora senza alcuna garanzia.
Secondo l’UNAMG, Union Nacional de Mujeres Guatemaltecas, «gli effetti del TLC colpiranno soprattutto le donne, che già pagano un prezzo pesante nel mercato del lavoro, a causa della disoccupazione, della discriminazione, della mancanza di accesso ai servizi di base e dell’estrema povertà».
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Manifesto contro l’Alca, il progetto
statunitense per la creazione
di un’area di libero commercio
in America Latina
(foto Manuel Fernández Malagón,
Ag. Prensa Latina) |
Proprietà della terra
e questione indigena
Ma il nodo centrale in Guatemala, che vede la mobilitazione del movimento degli indigeni, dei contadini, delle donne, degli studenti, è quello della proprietà della terra, indissolubilmente legato alla questione indigena.
Secondo le stime ufficiali, si calcola che il 2,2% dei proprietari terrieri possiede il 65,49% della terra coltivabile, mentre l’89,8% dei contadini ne possiede solo il 2,29%. Inoltre, su 10,8 milioni di ettari di terra solo 5,2 milioni sono coltivabili, e di questi circa la metà sono lasciati incolti dai latifondisti.
Le comunità indigene rivendicano la proprietà legittima delle loro terre, di cui sono state espropriate perché non avevano titoli di possesso riconosciuti dalle autorità. La storia degli espropri delle terre ai Maya è intessuta di violenze e intimidazioni da parte dei grandi latifondisti, che con la protezione della polizia e dell’esercito hanno usurpato le terre comunitarie degli indigeni – ridotti a lavorare come manodopera a basso costo e in condizioni di sfruttamento brutale – fino ad arrivare ai massacri ordinati dai passati regimi.
Il ritorno a governi democraticamente eletti non ha modificato in modo sostanziale le condizioni di vita degli indigeni, che ancora oggi subiscono i maggiori livelli di discriminazione, marginalizzazione e povertà, né è riuscito a garantire un giusto risarcimento alle vittime dei 36 anni di conflitto interno per i crimini commessi dall’esercito, rimasti totalmente impuniti.
Negli ultimi decenni le comunità indigene hanno creato forme di lotta organizzata per il riconoscimento dei loro diritti sulla terra e per riaffermare la dignità della loro lingua e della loro cultura, rivendicano un equo accesso alla sanità e all’istruzione in un sistema scolastico che sia multiculturale.
Un interessante laboratorio democratico è costituito dall’esperienza delle Cpr, le Comunità popolari di resistenza, create durante gli anni del genocidio dagli indigeni che per sfuggire ai massacri si rifugiavano nelle montagne e nelle foreste. La gran parte delle Cpr si è sciolta dopo gli accordi di pace del 1996, altre ancora sono rimaste e hanno formato nuove organizzazioni comunitarie e di mutuo soccorso che gestiscono insieme le risorse della terra, curano progetti di alfabetizzazione, studiano e fanno informazione sugli effetti devastanti del libero mercato.
Le organizzazioni indigene del Guatemala oppongono alle politiche liberiste del governo una concezione comunitaria dell’uso delle risorse, una pratica che ha consentito finora la salvaguardia dell’ambiente e delle numerose biodiversità colturali.
Una pratica in cui le donne occupano un ruolo importante: è a loro che tradizionalmente è affidata la responsabilità della selezione delle sementi per il consumo domestico, di quelle da utilizzare per la nuova semina e di quelle destinate a essere vendute o barattate. Le modalità di selezione e stoccaggio delle sementi, che si trasmettono oralmente di madre in figlia, hanno permesso ai discendenti dei Maya di conservare una straordinaria gamma di varietà di mais, la loro pianta sacra.
Come ha affermato Vandana Shiva, fisica, ambientalista, direttrice della Research Foundation for Science, Technology and Ecology (India), durante l’ultimo vertice mondiale sull’alimentazione organizzato dalla FAO, «Chi nutre concretamente il mondo sono le donne rurali, perché sono più numerose, producono di più e con minori risorse. Le donne rurali sono le guardiane della biodiversità. Non hanno bisogno del sostegno patriarcale: esse, e la loro esperienza, sono le risorse del futuro».