Ho conosciuto Cesare Vurchio nel 1989, quando ho cominciato a frequentare il Centro studi libertari – Archivio G. Pinelli per preparare la mia tesi di laurea. Cesare è un personaggio veramente speciale. Socio fondatore del Centro studi, oggi, nonostante i suoi 75 anni, portati benissimo, continua ad avere tanta energia e entusiasmo nel fare le cose, nel vivere il suo anarchismo. Coetaneo di Giuseppe Pinelli, ha avuto con lui una breve, ma intensa amicizia.
L’ho incontrato un pomeriggio d’ottobre in via Rovetta per farmi raccontare da lui di questa amicizia e anche della sua vita.
Lorenzo Pizzica |
Prima di parlare di Pinelli e della vostra amicizia, raccontami di te.
Sono nato a Canosa di Puglia nel 1931, figlio di contadini. Nel 1939 mio padre ha deciso di trasferirsi a Milano, su consiglio di mio zio che già si trovava lì, nella speranza di migliorare le condizioni di vita della famiglia. Nel 1943 però è morta mia madre, per malattia, e mio padre ha deciso di tornare in Puglia.
Nel 1949 sono ritornato a Milano da solo. Mio padre aveva fatto una promessa a mia madre prima che lei morisse. Lei voleva che io non facessi il contadino. Così sono tornato a Milano, a casa degli zii, per fare un nuovo lavoro. Le cose però sono andate diversamente da come le avevamo pensate mio padre e io.
Avevo trovato un buon mestiere, tornitore meccanico. Mio zio aveva una sua attività, faceva lo straccivendolo, un lavoro allora redditizio. Sono stato costretto, per motivi che non sto qui a raccontarti, a lasciare il lavoro di tornitore e ad accettare quello che mi offriva mio zio. Nel frattempo, nel 1956, mi ero sposato con Annarosa. Siamo andati ad abitare da soli a Baggio.
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Giuseppe Pinelli |
Quando sei diventato anarchico? Lo eri già in Puglia o lo sei diventato a Milano?
Sono diventato anarchico a Milano. Casualmente. All’inizio degli anni Sessanta.
Non ricordo bene come sia accaduto. Mi ricordo però che stavo parlando con un operaio che faceva il mio stesso mestiere, quello di straccivendolo; ormai quello era il mio mondo. Non ricordo di quale argomento stessimo conversando. Ad un certo punto però lui mi ha detto “ma tu per caso sei anarchico?”. Sono rimasto perplesso. Non sapevo che cosa volesse dire anarchico, anarchia. Veramente avevo già sentito parlare di anarchia a Canosa da ragazzo, ma allora non mi interessavo di politica, così come a Milano. Lavoravo come un mulo e basta. Gli ho chiesto “chi sono gli anarchici?”, mi ha risposto “sono contro i padroni”. Allora va bene per me ho pensato. Vivevo una situazione difficile di sfruttamento, soprattutto da parte dei miei parenti, puoi immaginare…
Dopo un po’ di tempo ho conosciuto due anarchici, anche loro di Canosa di Puglia e straccivendoli, che mi hanno fatto conoscere «Umanità Nova», dicendomi che in Via Orefici c’era una compagna anarchica che gestiva un chiosco di giornali. Ci andavamo quasi tutte le domeniche mattina d’estate. Leggevamo «Umanità Nova» e discutevamo degli argomenti del giornale. Era il 1962.
Vicino a Piazza Cordusio poi c’era la bottega di un calzolaio anarchico, anche lui di Canosa di Puglia. Usava la sua bottega come una specie di sede. Ogni giorno teneva aperto fino a tardi, compreso la domenica. Era un punto d’incontro di compaesani e compagni di passaggio a Milano. Noi ci incontravamo il sabato sera o la domenica mattina a parlare di anarchia.
Quanti eravate?
Cinque o sei al massimo. Era un ambiente che mi piaceva. Respiravo aria di famiglia e mi sentivo a mio agio.
Mi legavano di più l’ambiente e le persone, non tanto l’anarchia di cui allora non sapevo nulla. Ero diventato anarchico più per istinto, perché l’anarchia era per me un’idea di riscatto contro lo sfruttamento e io che lo vivevo sulla mia pelle, pensavo che l’anarchia fosse cosa per me. Ho dovuto solo superare un ostacolo per sentirmi del tutto anarchico; quello della religione. Non ero un cattolico praticante, ma ero religioso. Mi dicevano che non potevo essere anarchico e credere in Dio. Mi c’è voluto un anno e diverse letture, soprattutto opuscoli anticlericali che leggevo dal calzolaio, per superare la cosa. Io volevo essere anarchico, volevo esserlo a tutti gli effetti. Alla fine ci sono riuscito.
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Milano 1968-69. Cesare Vurchio assieme a Pino Pinelli durante una conferenza al Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa |
Parliamo ora di Pinelli e della vostra amicizia. Quando l’hai conosciuto?
L’ho conosciuto nel 1965. Leggendo «Umanità Nova» sono venuto a sapere che ci sarebbe stata l’apertura del Circolo “Sacco e Vanzetti” in Viale Murillo, che si trovava vicino sia a casa sia al mio posto di lavoro. Era aprile. Il giorno dell’inaugurazione sono andato al Circolo. Ho trovato una sede piena di anarchici. C’erano almeno trenta persone, in gran parte giovani ma anche meno giovani. Io fino a quel momento non ne avevo visti più di cinque o sei. E c’era Pinelli. Naturalmente non sapevo chi fosse. Avevo però notato la sua figura di operaio, l’unico rispetto agli altri, eccetto me.
Quel giorno stesso, verso la fine della giornata, eravamo rimasti in quattro o cinque, Pinelli si è avvicinato a me e mi ha chiesto come mi chiamavo e che lavoro facevo. Ha poi voluto sapere se ero disposto ad aiutarlo a volantinare un giorno della settimana successiva. Io ho accettato subito, ma poi non c’è stato nessun volantinaggio. Forse voleva solo vedere come reagivo. È iniziata così la nostra amicizia.
Dopo un mese che frequentavo il Circolo, Pino mi ha proposto di far parte del Gruppo Gioventù Libertaria. Ho accettato con entusiasmo.
Al primo incontro però mi sono trovato molto a disagio. Il gruppo era composto da studenti. Io ho fatto solo la quinta elementare, di sera, non so se ti rendi conto… Non capivo nulla di quello che dicevano, usavano un linguaggio troppo difficile per me. Per fortuna c’era Pino. Operaio come me, ma molto preparato, era un ottimo autodidatta. Quando parlava usava un linguaggio semplice e chiaro, che anch’io capivo.
È soprattutto da quel momento che è cominciata la vostra breve ma intensa amicizia…
Sì. Da quel momento la nostra amicizia è diventata sempre più importante, per me e anche per lui. Gli ero simpatico e mi voleva molto bene. Lo stesso valeva per me. Pino aveva un carattere estroverso, allegro, faceva sempre battute spiritose. Parlava con tutti. Era per il dialogo. Sempre. Era anche un po’ confusionario nelle sue cose. Voleva fare tutto, poi non ci riusciva e s’incazzava. Quando si arrabbiava aveva un piccolo difetto, che a me faceva sorridere: “inciampava” con la lingua mentre parlava. Si arrabbiava con gli altri che si prendevano dei compiti, che poi non portavano a termine, costringendo lui a fare il loro lavoro. Si lamentava e diceva “e poi dite che sono io che voglio fare tutto”. Era vero anche questo. Ci vedevamo due, tre anche quattro volte a settimana facendo attività politica. Insieme a Pino e agli altri del Circolo facevamo e diffondevamo volantini, organizzavamo gruppi di studio. Nel 1967 siamo stati sfrattati e il Circolo si è trasferito in una nuova sede, trovata soprattutto grazie a Pino, in Piazzale Lugano, alla Bovisa: il Circolo Ponte della Ghisolfa, inaugurato il Primo Maggio del 1968. Mi ricordo che erano presenti almeno un centinaio di persone.
So che la vostra fu un’amicizia che andava ben oltre l’impegno militante. Vi frequentavate anche al di fuori del Circolo, insieme alle vostre famiglie. Ci puoi raccontare qualche cosa in proposito?
Come hai detto tu, la nostra è stata un’amicizia non solo militante, ma a tutto tondo. Una forte amicizia. Con Pino e la sua famiglia, Licia e le bambine, Silvia e Claudia, ci frequentavamo spesso. Anche io e Anna avevamo due figli piccoli all’epoca. Alle volte Pino si fermava a dormire da me. Sono state tante le domeniche passate insieme a pranzo e poi per tutto il pomeriggio. Pino sapeva cucinare benissimo. Mi aveva insegnato a fare il sugo di carne.
Mi ricordo di un piccolo episodio che descrive bene il carattere allegro di Pino. Durante una cena a casa sua, mentre stavamo commentando un incontro di pugilato, non ricordo quale, ci mettiamo a parlare della nostra capacità di autodifesa. Pino si alza dal tavolo e si rivolge ad Annarosa “vieni, ti faccio vedere come si tira un diretto e come si evita. Prova a colpirmi Anna, non aver paura di farmi male”. Il risultato è stato che Pino si prende un bel pugno. Scoppiamo a ridere tutti.
Molto spesso dopo le riunioni al Circolo io e Pino continuavamo a stare insieme. Andavamo al bar a bere qualcosa, a giocare a flipper o a biliardo. È lui che mi ha insegnato a giocare a biliardo. Spesso lo accompagnavo fin sotto casa e così lui faceva con me accompagnandomi fino a Baggio, dove abitavo. Ci confidavamo tutto: i nostri problemi familiari, i problemi sul lavoro oppure conversavamo liberamente dei nostri interessi, di quello che avremmo voluto fare nella vita, anche di sciocchezze.
Poi è arrivato quel maledetto 12 dicembre 1969.
Prima di parlare di quei giorni, che ricordo hai del clima politico e sociale di quell’anno? Qual era il tuo impegno e quello di Pino?
Era stato un anno difficile, il clima era molto teso, come ben sai. Era un anno di grande conflittualità sociale, di manifestazioni studentesche, lotte operaie. L’attività del Circolo si era intensificata, soprattutto l’impegno di Pino. A Milano era nato un movimento per il diritto alle case popolari di cui facevo parte. Avevo creato un comitato nel mio quartiere.
In quell’anno Pino aveva fondato la Croce Nera Anarchica per diffondere informazioni sulla repressione anti-anarchica nel mondo e organizzare l’aiuto alle vittime anarchiche in Spagna. Poi i fatti del 25 aprile, l’arresto di alcuni anarchici falsamente accusati degli attentati alla Stazione Centrale di Milano e alla Fiera Campionaria, avevano fatto concentrare l’impegno di Pino e di tutti noi sulla difesa politica e legale degli arrestati.
Passiamo a quel “maledetto” 12 dicembre, come lo hai definito tu. Cosa ricordi di quel giorno? Dove ti trovavi? Eri insieme a Pino?
Ero solo. Avevo finito di lavorare. Ero entrato in un bar, dove avevo sentito la notizia. All’inizio dicevano che era scoppiata una caldaia. Pochi minuti dopo, era entrato nel bar un giovane dicendo che era scoppiata una bomba a Piazza Fontana, morti e feriti.
Ero uscito per tornare a casa. Ero preoccupato. Immaginavo che avremmo avuto dei problemi per i fatti del 25 aprile, ma quando sai che non hai fatto mai niente di male… Non immaginavo però che sarebbe potuta finire in quel modo.
Dopo aver appreso la notizia al bar sei tornato a casa. Quando ti sono venuti a prendere e ti hanno portato in Questura?
Verso le due del mattino del 13. Hanno bussato alla porta. Dormivamo tutti. Anna mi ha svegliato, dicendomi di andare a vedere chi era. Ho detto “chi è?”, “la polizia”. Mi sono sentito un po’ scosso, anche se me lo aspettavo. Sono entrati in tre con la pistola in mano. Non hanno alzato la voce per fortuna. In soggiorno dormivano i ragazzi. Non li hanno svegliati. Sono uscito e sono salito sulla loro macchina. Quando siamo arrivati in Questura, in via Fatebenefratelli, mi hanno portato in un grande stanzone. Ho visto decine e decine di giovani intorno a un grande tavolo. Aspettavano che gli prendessero le generalità. Mi hanno lasciato lì. Ho aspettato più di mezz’ora. Dopo aver dato le mie generalità mi hanno spostato in un’altra stanza. Lì c’erano solo anarchici, tranne un piccolo gruppo, quattro o cinque persone, che non conoscevo e che conversavano con i poliziotti della stanza. Loro parlavano tranquillamente, a me avevano detto di far silenzio quando stavo scambiando due parole con un compagno che era seduto vicino a me.
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A. Bertolo, C. Cederna, P.C. Masini, C. Stajano
Pinelli
La diciassettesima vittima
BFS edizioni, in collaborazione con la Biblioteca Franco Serantini di Pisa e il Centro Studi Libertari/Archivio Pinelli di Milano hanno appena pubblicato questo libro di 80 pagine. Costa 10.00 euro.
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L’intervista di Lorenzo Pezzica a Cesare Vurchio, riprodotta in queste pagine della rivista, è tratta da questo libro.
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In Questura hai incontrato Pinelli? Com’è avvenuto il vostro incontro?
Ho visto Pino verso le cinque del mattino ed è stata l’ultima volta. Stava camminando in direzione della stanza dove mi trovavo, aveva in mano un cruciverba. Io mi sono alzato dalla sedia quando l’ho visto, per andare a salutarlo. Lui mi ha guardato, ha abbassato lo sguardo e ha svicolato. Allora ho capito che non voleva che ci vedessero parlare insieme. Da quel momento non l’ho più rivisto.
Dallo stanzone dove avevo visto Pino mi hanno portato in un’altra stanza dove c’era un funzionario che faceva domande. Mi ha chiesto nuovamente le generalità e poi mi ha fatto vedere un sacchetto che conteneva dei pezzi di metallo. Mi ha chiesto che cosa fossero, se li avevo mai visti. Non li avevo mai visti, non capivo nemmeno che cosa fossero. Dopo ho saputo che erano spolette e altri pezzi per innescare bombe.
Dopo ci hanno messo in gruppi di sette otto persone nelle celle e lì ho passato la notte.
La mattina dopo mi hanno rilasciato e sono tornato a casa. Avevo sentito che Pino non era uscito con noi, che era stato ancora trattenuto in Questura. Mi ero preoccupato ma pensavo che comunque prima o poi sarebbe uscito anche lui. Sono tornato a casa stanco morto, non avevo dormito niente in cella.
Hai più avuto notizie di Pinelli in quelle ore? Avevi cercato di informarti su quanto stava accadendo?
No. Era difficile per me sapere qualcosa in quel momento. Fino alla notte tra il 15 e il 16 dicembre non ho saputo più nulla di cosa stava accadendo a Pino. Poi è arrivata quella telefonata. Erano le due. Una voce, non mi ricordo più chi, mi ha detto “chiamo dalla casa di Licia. Sei tu Cesare?”. Gli risposi di sì e secco mi ha detto “guarda che Pinelli è morto”. Ho sentito un tuffo al cuore. Non sapevo che dire in quel momento. Quando hanno detto che si era gettato dalla finestra non ci ho creduto. Impossibile. Un incubo. Mi è venuto in mente l’episodio di Andrea Salsedo (1). La notte l’ho passata con la febbre.
E poi cosa è successo, che hai fatto?
La mattina del 16 sono uscito. Giravo come un fantasma. Spaventato, preoccupato, incredulo. Non sapevo che fare. Nel pomeriggio mi sono incontrato con altri compagni in Conca del Naviglio. Dopo il 25 aprile avevamo capito che sarebbe potuto accadere qualcosa di grave. Sapevamo che le continue provocazioni, gli attentati pseudo-anarchici preparavano a qualcosa di più grave. Mi ricordo che Pino, Amedeo Bertolo e altri avevano scritto, detto già da tempo queste cose, intuendo la possibilità di una “strage di stato”, una “strategia della tensione”. Fino a quel momento, fino alla strage, alla morte di Pino, io non pensavo che sarebbero potuti arrivare a tanto. Quel giorno ne ero sicuro anch’io.
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Cesare Vurchio |
Cosa hai pensato in quei giorni sulla morte di Pino?
Ho già detto che non ho creduto mai alla versione del suicidio… e poi il “malore attivo”. No. Ancora oggi resto convinto che Calabresi sia responsabile. In quei giorni ripensavo a Calabresi e alla sua conoscenza con Pino. Lo avevo conosciuto anch’io Calabresi, ma non gli avevo mai rivolto la parola.
Calabresi e Pino si erano conosciuti per i fatti del 25 aprile. Il Circolo Ponte della Ghisolfa era sotto stretta sorveglianza da quel giorno. Lo sapevamo bene, perché era stato lo stesso Pino a dircelo. Calabresi chiedeva di vederlo ogni tanto e Pino una volta ci disse, ridendo, che gli aveva proposto di diventare suo informatore.
Sapevamo di essere sorvegliati. Pino ci raccontava dei suoi incontri con Calabresi. Ci diceva di come era cambiato il suo atteggiamento. Prima gli chiedeva se lo poteva incontrare, poi aveva iniziato a ordinarglielo. Pino gli faceva presente che se continuava a doverlo incontrare nell’orario di lavoro avrebbe rischiato di perderlo il lavoro, ma a Calabresi non importava. Aveva capito però che non poteva contare sulla collaborazione di Pino e questo lo infastidiva. Mi ricordo che una volta, era il settembre del 1969, durante una manifestazione di protesta davanti al carcere di San Vittore per chiedere la liberazione dei compagni ingiustamente accusati per le bombe del 25 aprile, Calabresi si era avvicinato a Pino e gli aveva ordinato di sciogliere il picchettaggio. Pino gli aveva risposto che non poteva farlo e che, anche se avesse potuto, non lo avrebbe fatto. Calabresi si era irritato per quella risposta e gli aveva detto “Pinelli, questa me la paghi!”.
Che ricordo hai dei funerali di Pinelli?
Sono stati incredibili. Ti puoi immaginare quale poteva essere il mio stato d’animo. Ero addolorato, disperato, arrabbiato, ma al funerale c’erano centinaia e centinaia di persone, c’erano tutti.
Solo una cosa non mi era piaciuta, mi aveva fatto male. Era stata quella di vedere la bara di Pino con la croce. Non so perché c’era. Mi ricordo però che l’avevamo coperta subito con una bandiera anarchica.
Avevamo organizzato poi, nelle settimane successive, una grande manifestazione che ebbe molto successo e subito c’eravamo attivati per la contro-informazione: per dimostrare l’innocenza di Valpreda, come poi è stato dimostrato, che la strage di Piazza Fontana era una “strage di Stato”, come poi è stato dimostrato, che Pino era stato assassinato.
Lorenzo Pezzica
1. Il 3 maggio 1920 Andrea Salsedo, tipografo, sindacalista anarchico
e amico di Bartolomeo Vanzetti, “vola” da una finestra al quattordicesimo piano del Dipartimento di Giustizia di New York. Era stato fermato due mesi prima da agenti federali, perché sospettato di aver stampato opuscoli sovversivi, e trattenuto, senza una specifica accusa, negli uffici del Dipartimento.
Un grazie di cuore
Ho conosciuto Cesare nel marzo 1968, quasi 39 anni fa. Io ne avevo da poco compiuti 16, lui 36. Con Pinelli, era uno dei due “vecchi” anarchici del Circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” che io, studente del liceo classico “Carducci”, cominciai allora a frequentare.
C’erano naturalmente allora a Milano anarchici della generazione che aveva “fatto” la Resistenza, di vari decenni più anziani. Ne conobbi, quando si incontravano al Circolo, in piazzale Lugano 31, di domenica mattina. Ma del gruppo “Bandiera Nera” e in generale tra i militanti più attivi, Cesare e Pino erano i più anziani. Due caratteri molto diversi: tanto Pino era estroverso, chiacchierone, espansivo, quanto Cesare mi apparve subito taciturno, riflessivo, “concreto”.
Dopo le drammatiche vicende di fine ’69 decisi di chiedere l’adesione al gruppo “Bandiera Nera” e fui accolto. Divenni compagno di gruppo anche di Cesare. E le molte vicende che da allora si sono susseguite fino ad oggi, hanno visto noi del gruppo di allora restare sostanzialmente vicini.
Quando una quindicina di anni fa Cesare andò in pensione, dopo una dura vita di lavoro nel settore della carta straccia, decise di dedicare quotidianamente una parte del proprio “tempo libero” alla militanza. Da allora tutti i giorni, al pomeriggio, Cesare è presente nella sede del Centro Studi Libertari e dell’Archivio Pinelli, sempre disponibile per quel che c’è da fare: archiviare vecchie testate anarchiche, classificare i libri, preparare le spedizioni per Elèuthera, imbustare le circolari e via discorrendo.
La sede della nostra redazione è al piano superiore rispetto al Centro studi libertari e dunque Cesare dà una mano anche alla nostra rivista.
Quando verso sera riprende la metropolitana per tornare a casa, dalla sua Anna che abbisogna delle sue cure e che lui con silenziosa dedizione accudisce, Cesare ha sempre in mano il pacchetto con la corrispondenza che la mattina dopo andrà a spedire dall’ufficio postale della sua zona.
Negli ultimi anni, con la realizzazione dei prodotti legati a Fabrizio De André, dei numerosi dossier (ultimo quello su Emilio Canzi), ora del 2Dvd sugli Zingari, il volume delle nostre spedizioni postali è di molto aumentato. E se riusciamo a essere tempestivi e precisi nel recapitare i nostri materiali, il merito è anche suo.
Approfittiamo dunque della pubblicazione su “A” di questa intervista
fattagli da Lorenzo per dare pubblicamente a Cesare quel che è di Cesare. In poche parole, anzi in una sola: grazie!
Paolo Finzi |
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