Io non c’ero. A Roma il 4 novembre, mentre in 100.000, forse più, manifestavano contro la legge 30, la Riforma Moratti e la Bossi-Fini, ho scelto di restare nella mia città, a Torino, per una piccola iniziativa antimilitarista. Il 4 novembre è il giorno che lo Stato italiano ha scelto per festeggiare le forze armate. In questi tempi di guerra questa festa assume per i professionisti della morte al servizio dello stato una grande importanza simbolica e propagandistica. Le caserme aperte, la visita delle famiglie, il mestiere delle armi mostrato come opportunità di lavoro e di promozione sociale e, a seconda dei momenti e delle opportunità, pubblicizzato nella sua dimensione più propriamente bellica o gentilmente declinato sul versante umanitario.
Retorica patriottica e vergognosa litania tricolore per giustificare le bare che di tanto in tanto arrivano dall’Iraq e dall'Afghanistan, le cui popolazioni poco capiscono – ma non è colpa loro, poverini – della missione in armi dello Stato italiano. Ieri la chiamavano civilizzatrice oggi hanno coniugato in umanitaria l’attitudine a imporre con le armi la civiltà, la giustizia e la democrazia.
Ieri in Libia, Albania, Somalia, Etiopia, oggi in Iraq, Afghanistan, Libano. La musica che qui cantano a seconda della moda ha sempre la stessa atroce melodia per chi la civiltà, la libertà, l’aiuto umanitario li impara sotto le bombe, nelle prigioni-lager, nei rastrellamenti di case, nello stupro e nella tortura.
La scelta del 4 novembre come data per manifestare a Roma contro le leggi che hanno sancito la precarietà, lo strapotere dei padroni, il legame tra diritti umani e contratto di lavoro per i migranti, nonché la definitiva trasformazione della scuola in servizio per le aziende pareva molto opportuna.
Movimenti di lotta
e di governo
Nel giorno in cui lo Stato santifica il mestiere di assassino – mestiere ben pagato e garantito sin nell’accesso privilegiato ai posti nell’amministrazione pubblica – scendere in piazza contro i meccanismi legislativi che consentono caporalato, schiavitù, formazione ridotta ad apprendistato per tanti troppi giovani e meno giovani aveva una carica simbolica importante.
La data in sé era un messaggio. Almeno così pareva.
L’appello per la manifestazione scaturito da un’assemblea al Brancaccio viene stilato sin da luglio, mentre il parlamento decide il generoso rifinanziamento delle missioni italiane all’estero. Al cartello “stop precarietà” aderiscono come azionisti di maggioranza il PRC, la FIOM, l’ARCI e i COBAS.
Man mano che il tempo passa il riferimento alla data del 4 novembre viene gradualmente meno: troppo scomodo ricordare che il governo, sia pure con qualche debole mal di pancia di pochi senatori, aveva deciso la continuazione della guerra. Meglio mettere la sordina, meglio chiudere gli occhi e concentrarsi sulle faccende di casa nostra, anche perché, nel frattempo, la prima finanziaria del governo Prodi infila in bilancio un mucchio di soldi per le missioni all’estero, sottraendosi così all’obbligo periglioso del dibattito parlamentare semestrale.
Dimenticata la guerra esterna, la manifestazione si concentra su quella interna. Peccato che i tempi della politica siano a densità variabile, sì che da luglio a ottobre di acqua sotto i ponti ne passa parecchia. La fine dell’estate vede il tema del precariato tornare alla ribalta: gli ispettori del lavoro chiamati dai precari di Atesia, call center tra i più grandi e famigerati, fanno notare a Tripi, il padre-padrone di Atesia, uomo illuminato di stretta osservanza diessina, che in Atesia si strappano persino le larghissime e comodissime maglie della famigerata legge 30. Se il padrone viola le regole basterebbe obbligarlo a rispettarle. Ma le regole, si sa, sono scritte da chi comanda per favorire amici e parenti, e sono molto elastiche se a uscire dal seminato è un rispettabile imprenditore di area governativa. Lo spettro del fallimento, del licenziamento di massa, della chiusura viene agitato ad arte, per consentire al ministro del lavoro Damiano di scendere in campo col suo cavallo bianco.
Damiano, moderatissimo ex esponente della FIOM piemontese, blocca i suoi stessi ispettori facendola finita con i controlli nei call center e poi piazza in finanziaria il regalo per Tripi e soci. La precarietà selvaggia va superata, of course, ma, secondo il ministro del lavoro, gradualmente. Tradotto in italiano: che i precari abbiano pazienza, perché poco alla volta, fatti prima contratti subordinati a termine, la contrattazione sindacale garantirà loro l’accesso ad un rapporto di lavoro stabile.
Niente di nuovo sotto il sole. Chi lavora sotto padrone sa che non c’è diritto garantito per legge che non sia frutto di un rapporto di forza favorevole. Se non c’è la forza non c’è nemmeno il diritto, foss’anche scritto in una legge dello Stato. Con la benedizione di un ex sindacalista che fa il ministro del lavoro. Tutta roba che sta nell’ordine del mondo, un ordine che non si disfa se qualcuno non si prende la briga di smontarlo pezzo a pezzo.
Le imprese
del governo amico
L’autunno che si apre con la vertenza Atesia non pare portare promesse di primavera per i precari, per i migranti, per gli studenti. L’apparato legislativo messo in piedi da Berlusconi sulle fondamenta gettate prima di lui dal centrosinistra non entra mai nell’agenda del governo. Anzi. Le proposte di Amato in materia di immigrazione si limitano a dare una mano di calce sugli orrori da campo di concentramento che segnano come mappa di inciviltà la bell’Italia. La riforma Moratti regge al passaggio di consegne e, per quel che riguarda la legge 30 (figlia legittima del pacchetto Treu) si parla di correzioni, non di inversioni di tendenza.
In questo quadro viene presentata una finanziaria il cui importo continuerà lievitare. Nel balletto mediatico che subito inizia appare chiaro che i “ricchi non piangeranno”, nonostante il penoso manifesto rifondato con panfilo dalemiano in sottofondo.
Nei fatti, al di là della retorica e delle penose affermazioni del sinistro ministro Ferrero, che sostiene che la presenza nel governo del Prc ha permesso di “limitare i danni”, l’attuale compagine governativa, in perfetta linea con gli esecutivi che si sono succeduti negli ultimi anni, sta operando perché la flessibilità e precarietà entrino stabilmente nell’orizzonte esistenziale dei lavoratori. Il “mercato globale” lo esige, pena la marginalizzazione del sistema paese. Così, per non marginalizzare il sistema paese si mette sul margine della pagina la vita concreta di noi tutti. Tanto a far da capro espiatorio ci sono sempre i cinesi, quelli che il razzismo nostrano descrive laboriosi e sottomessi per natura, propensi al peggio e anche qualcosa in più. Lo spauracchio dell’invasione cinese fa da copertura alla distruzione dei diritti per tutti, compresi i soliti cinesi, a partire da quelli che vivono/lavorano/mangiano/dormono nei sottoscala e nelle cantine/laboratorio delle nostre città.
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Roma, 4 novembre 2006. Manifestazione contro il precariato |
Perché in tanti
a Roma?
A questo punto viene spontanea una domanda: cosa sono andati a fare a Roma centomila e forse più manifestanti?
Viene il dubbio che qualcuno avesse omesso di dire loro un paio di cosette. Niente di speciale, solo piccoli particolari. Che so? Che il Prc è al governo. Che altro? Che la Fiom gestirà, esattamente come il resto della Cgil, Cisl e Uil, il loro Tfr. Che, quindi, il sindacato diventerà un’impresa che si finanzierà grazie ai soldi dei lavoratori, che i sindacalisti non avranno bisogno di finire la carriera per divenire manager, poiché lo saranno in quanto sindacalisti.
La Finanziaria di Prodi, anticipando al 2007 l’applicazione della Riforma Maroni, fa sì che i sindacati di Stato, tali divengano sempre più, nei fatti, oltre che nell’attitudine politica. I fondi pensione, gestiti da Cgil, Cisl e Uil, fanno del sindacato un imprenditore a tutti gli effetti, capace di drenare e distribuire risorse economiche. Dal primo gennaio dell’anno prossimo i lavoratori saranno chiamati a decidere tra lasciar gestire il TFR maturando ad un fondo pensione o lasciarlo all’INPS e quindi allo stato per le grandi opere (TAV, ecc.). La padella o la brace per chi ama la scelta.
Cgil, Cisl e Uil sono sempre più apparati di potere, potere politico e potere economico, un potere che devono al loro ruolo di mediazione e assopimento del conflitto sociale.
Resta un fatto. Un fatto duro a morire, come spesso capita ai fatti. Decine di migliaia di precari, studenti, senza casa, che sfilano per le vie di Roma non possono essere considerati meri supporter sciocchi di chi li porta in gita sotto il Colosseo.
Sebbene la manifestazione romana del 4 novembre, come ben argomentava il Presidente del Consiglio, non fosse una manifestazione contro il governo, tuttavia era una manifestazione di opposizione. Un’opposizione che il (post)fascista nazionalalleato Landolfi definisce “metafisica”, visto che, data la presenza di ministri e sottosegretari, si tratta di una manifestazione “contro ignoti”. Come dargli torto? Sebbene i fascisti stiano per definizione dalla parte del torto la qualità politica e morale dei loro avversari fa sì che talora persino loro azzecchino la battuta giusta.
Un partito di governo, con un sindacato filogovernativo, con un’associazione di area governativa, con un sindacato di base noto per l’affiancamento critico alla sinistra di Palazzo – non mancano neppure parlamentari ed esponenti del governo – vanno in piazza per protestare contro la precarietà che questo governo certo non vuole cancellare. La vicenda di Atesia è troppo recente per poter essere dimenticata. Eppure i precari di Atesia erano, sia pur critici, in piazza anche loro.
Per amore di verità, anche se il fatto in se mi pare sostanzialmente irrilevante, occorre notare che un paio di settimane prima della manifestazione i Cobas, intuendo il rischio di essere seppelliti da una risata, hanno tentato di fare un allungo pubblicando sul Manifesto una manchette a pagamento per chiedere a gran voce le dimissioni del ministro Damiano, “amico dei padroni”. Ne è nata una vivace sceneggiata con tanto di svenimenti e minacce di rottura, poi ricomposta tra qualche mugugno.
Tutti insieme,
appassionatamente
Ad ognuno la sua parte. L’autonomia cobassata si è imbarcata sui treni a 10 euro che il Prc paga con il finanziamento pubblico ai partiti e che la Fiom, a partire dal primo gennaio 2007, farà uscire dalla rendita dei nostri soldi messi nei fondi pensione. E poi, ciascuno a modo suo, ma tutti insieme appassionatamente.
Restano e neppure loro possono essere cancellate le passioni politiche e l’impegno di tanti precari che certo non sono andati a Roma per sostenere il governo e neppure per appoggiare la modestissima proposta di riforma della legge 30 presentata dal Prc.
Si tratta, è del tutto evidente, di un tipico caso di “Sindrome da governo amico”. Si è sempre all’opposizione ma non si può certo mandare a casa il governo amico, il governo che ha sostituito l’orco Berlusconi.
Ed ecco quindi tutti in piazza a pungolare il governo amico, perché, anche quando si è al governo, si pensa di stare all’opposizione. Tutto ciò contrasta con una sana presa d’atto del principio di realtà, quello che dovrebbe a tutti mostrare quali siano concretamente le scelte degli amici al governo. Interessante lo striscione dei precari della pubblica amministrazione che vogliono dal governo il solito “qualcosa di sinistra”, chiedendo di essere assunti. La consapevolezza che quel che si chiama “sinistra” ha smarrito la propria identità e la propria origine si scontra con l’illusione che il rospo possa farsi principe, che la metamorfosi sia solo temporanea, frutto di un terribile ma transitorio maleficio.
Un mito
fuorviante
Tuttavia, pur addomesticate dalla cornice trista di questo 4 novembre narcotico, le tensioni e le passioni della piazza del 4 novembre erano forti e reali. Il rischio, ovvio, è che le sirene della destra populista possano domani suonare più seducenti che non oggi.
Il quadro che abbiamo di fronte mostra una debole autonomia dei soggetti sociali coinvolti dal tritatutto delle precarietà e una difficoltà obiettiva a costruire un’opposizione sociale capace di mettere alle corde il partito unico che ci governa.
Quello che si tratta di mettere in crisi non è tanto il governo, che con ogni probabilità potrebbe anche suicidarsi senza bisogno di assistenza, quanto un mito duro a morire, quello del popolo della sinistra, quello che contro il governo amico non si va perché altrimenti si favoriscono le destre, quello, ultimo ma non meno importante, che il sindacato, certo sindacato, è sempre dalla parte dei lavoratori. Quello che al governo puoi dare una spinta ma non uno spintone.
Questo mito sta portando via al movimento dei lavoratori il suo patrimonio più importante, la capacità di autonomia dal quadro politico, il saper essere protagonista del proprio presente per poter acchiappare un pezzo di futuro.