Enrico Franceschini in un articolo su “La Repubblica” del 13 ottobre riprende un’inchiesta del settimanale britannico “New Scientist”, che ha interpellato un gruppo di autorevoli scienziati per descrivere minuziosamente le conseguenze di un’eventuale scomparsa dell’umanità. Il settimanale ha interrogato gli scienziati perché provassero a raccontare, sulla base delle loro conoscenze e competenze, come sarebbe la terra senza la gente, titolo messo in copertina, nel caso fantascientifico, non escludibile ma del tutto improbabile nell’immediato, che improvvisamente la nostra specie sparisse d’un colpo dalla faccia della terra.
Le risposte, unanimi, di primo acchito possono risultare sorprendenti, ma in realtà confermano sensazioni che da tempo si sono installate silenziosamente dentro di noi, comunque agghiaccianti per il loro spietato realismo probabilistico.
In pochissimo tempo si riprenderebbero la maggior parte delle 15.000 specie animali minacciate oggi di estinzione. In 24 ore sparirebbe l’inquinamento acustico. In 48 ore finirebbe l’inquinamento luminoso. In 3 mesi diminuirebbe in modo significativo l’inquinamento atmosferico. In 10 anni scomparirebbe il metano dall’atmosfera. In 20 anni villaggi e strade rurali si troverebbero coperti dalla vegetazione. In 50 anni le acque di fiumi e laghi sarebbero ripulite da nitrati e fosfati e i mari e gli oceani si ripopolerebbero. Le strade urbane e le città sarebbero ricoperte dalla vegetazione entro 100 anni. Ponti e strutture di metallo andrebbero in collasso entro 200 anni. Le barriere coralline si rigenererebbero in 500 anni. Entro 1.000 anni gli edifici sarebbero definitivamente scomparsi e l’anidride carbonica tornerebbe nell’atmosfera ai livelli preindustriali.
“Paradiso
terrestre”
Per usare una metafora futuribile, nel giro d’un millennio, che sarebbe un’inezia rispetto alle età geologiche e al percorso degli astri che si misurano in miliardi di anni, la terra, ora quotidianamente martoriata dall’agire nostro, tornerebbe ad essere quello che è stata per milioni di anni, il noto “paradiso terrestre” delle mitologie occidentali. Per meglio però chiarire fino in fondo, sempre secondo le previsioni degli eminenti scienziati, la totale scomparsa del nostro disastroso passaggio sarebbe molto più lunga. Vetro e plastica impiegherebbero 50.000 anni a dissolversi del tutto. La memoria della presenza umana si ridurrebbe a qualche rovina archeologica nel giro di 100.000 anni. I residuati chimici ci metterebbero 200.000 anni per scomparire definitivamente, mentre per le scorie nucleari ce ne vorrebbero 2.000.000. Giusto per dare un’idea dell’entità del danno che stiamo provocando.
Curioso che in fondo alla stessa pagina dell’articolo venga riportata l’opinione del noto autore di fantascienza Ray Bradbury, il quale sostiene che non ha molta fiducia su quello che lasceremo, perché abbiamo imparato a conservare, ma tendiamo a tramandare non necessariamente le cose più belle e interessanti. Fa intendere che molto di ciò che potrebbe essere interessante per davvero verrà appositamente messo nel dimenticatoio (dal potere che decide s’intende, aggiungo io). Subito dopo aggiunge che con buona probabilità saremo noi a lasciare questo pianeta e andremo a colonizzarne degli altri (una volta massacrato per benino questo andremo ad esportare la nostra infaticabile “preziosa” opera in altri pianeti che riteniamo utili allo scopo, aggiungo io).
Cinque giorni dopo, il 18 ottobre, sempre su “La Repubblica” e sempre Franceschini, accompagnato da servizi su altri giornali e sui telegiornali, riporta, tra il divertito e l’ironico, l’opinione del professor Oliver Curry, ricercatore del Centro di Filosofia Naturale e Scienze Sociali della London School of Economics. Commissionatogli da una rete televisiva, lo studio dello scienziato sostiene cose veramente fantascientifiche, che non a caso coincidono in gran parte con ciò che è scritto nel noto romanzo di H.G. Wells La macchina del tempo del 1895.
Entro il 3006, cioè fra esattamente mille anni, non ci saranno più differenze di razza e apparterremo tutti ad un’unica razza color all’incirca caffelatte, saremo tutti alti intorno al metro e novanta, gli uomini belli e atletici con grandi spalle e voci profonde (tutti come i palestrati stereotipati dei film d’azione), le donne (tutte gran fiche da celluloide) con occhi chiari, seni prominenti e splendide capigliature (ma la scienza non aveva ultimamente dimostrato che le razze non esistono?). In altre parole Hollywood sarà l’unica realtà possibile.
Ma non è finita qui. Il nostro fantasmagorico professor Curry, con tutta l’autorità della sua scienza riconosciuta, proietta la sua preveggenza fino all’anno 100.006, esattamente fra un centinaio di migliaia di anni. Ci dice in tutta serietà che lo stato di grazia hollywoodiano non durerà perché la caffelatte monorazza umana si troverà divisa in due grandi tribù. Una “superiore”, di alti magri belli e intelligenti, in grado di vivere fino a 120 anni. L’altra “inferiore”, di bassi grassi poco intelligenti e brutti, che vivranno poco perché perennemente in pessime condizioni di salute. Condivido il commento di Franceschini: … il professore conosce il cinema di Sergio Leone, sarà la storia del buono, del brutto e del cattivo. Mi sembra di poter dire che siamo ormai alla scienza di celluloide.
Lo stato
del pianeta
Una settimana dopo, il 24 ottobre, è stato reso ufficiale il Living Planet Report 2006, il rapporto annuale col quale, attraverso studi e dati scientifici aggiornati, il WWF fa conoscere al mondo lo stato del pianeta e le proiezioni di previsione se la tendenza e le cose non muteranno. Sono anni che il WWF, assieme a tutte le altre associazioni di ispirazione ecologista e ambientalista, denunciano il dominio incontrollato sul patrimonio terrestre e il modo in cui la nostra specie lo depreda e lo violenta sistematicamente e senza tregua.
Ne risulta un quadro ulteriormente sconcertante ed agghiacciante, che in realtà è una conferma annuale perché già ampiamente conosciuto. Se il ritmo di sfruttamento delle risorse naturali, col suo progressivo aumento costante, rimarrà inarrestabile, come continua a succedere senza nessun serio ripensamento, entro il 2.050 la voracità umana avrà raggiunto il suo acme, perché avremo esaurito la capacità delle risorse di essere sfruttate. Per sopravvivere avremo allora bisogno di un altro pianeta, perché la ricchezza residua del nostro basterà a malapena alla metà dell’umanità, ovviamente non con l’abbondanza attuale (le altre specie saranno in buona parte già estinte per cui non avranno bisogno di usufruirne).
La pressione dell’umanità sul pianeta che la ospita può essere equiparata a una continua richiesta di prestito che non viene mai restituito. E mi riferisco alla somma pura e semplice senza contare gli interessi, che invece normalmente le banche pretendono. Insomma consumiamo spudoratamente e basta, contravvenendo al principio principe di qualsiasi sistema ecologico, che invece è fondato sullo scambio e la reciprocità. A un certo punto, per rimanere nella metafora bancaria, non potremo più pretendere prestiti, né piccoli né grandi, perché non ci saranno più soldi disponibili. In altre parole ci stiamo comportando da meri parassiti, efferati colonizzatori arroganti e aggressivi.
Quattro giorni dopo, il 28 ottobre, appare su alcuni quotidiani la notizia, non certo enfatizzata come richiederebbe, che gli scienziati hanno scoperto che la Corrente del Golfo, che da millenni determina il clima mite dell’Europa e del Mediterraneo, ha affievolito drasticamente il suo flusso come conseguenza dell’effetto serra. Ma la notizia veramente drammatica è che nel novembre del 2004 un braccio di questa Corrente, indispensabile per gli equilibri climatici mondiali, si è fermato per una decina di giorni all’improvviso e senza spiegazioni identificate. Sedici stazioni di rilevamento subacqueo, distribuite nell’Atlantico a diversa profondità tra Florida e Nord Africa, confermano che la tendenza ad affievolirsi ulteriormente persiste assieme al pericolo, a questo punto sempre incombente, di altri fermi dei flussi ancora più lunghi.
Se e quando ciò dovesse accadere, le conseguenze sarebbero disastrose e, è il caso di dirlo, del tutto agghiaccianti. Ci sarebbe un abbattimento di diversi gradi della temperatura globale, dando inizio ad una nuova incipiente era glaciale. Sembra lo scenario apocalittico del film L’alba del giorno dopo, guarda caso uscito in concomitanza col reale blocco avvenuto della Corrente del Golfo, che preconizza una glaciazione devastante. Gli scienziati assicurano che non avverrebbe in quei termini hollywoodiani, ma molto più gradatamente, intaccando però in modo irreversibile e definitivo l’equilibrio climatico che da milioni di anni garantisce la sopravvivenza delle specie sul pianeta terra.
Siamo
alla frutta
Ho scelto queste informazioni perché le ritengo emblematiche di una situazione e di un divenire in atto, ma c’è da scommetterci che notizie avvenimenti e allarmi di questo tipo saranno d’ora in poi sempre più frequenti. Ciò che mi preme mettere in evidenza è lo spostamento dell’immaginario che ne consegue. Oltre a denotare uno stato delle cose che prende sempre più forma, si tratta anche di segnali che denotano un progressivo diverso collocamento, simbolico e territoriale insieme, degli esseri umani nell’habitat in cui sono ospitati. Quando si comincia a prefigurare, avvallati dalla autorevolezza di eminenti scienziati, che in un tempo relativamente breve senza la presenza umana il pianeta tornerebbe ad essere il mitico eden dei primordi mitologici, oppure che nel giro di un millennio la specie si uniformerebbe a una futuribile monorazza color caffelatte con caratteristiche estetiche da star del cinema, fino a sfociare entro centomila anni in una differenziazione tribale tra belli e brutti e buoni e cattivi, vuol dire che ci si proietta immaginativamente verso il futuro perché il presente comincia a non interessare e a non stimolare più.
Quando poi si comincia a constatare con sempre più frequenza che è in atto una trasformazione dell’habitat di proporzioni planetarie e bibliche, dovuta alla colonizzazione dell’ingerenza umana, dominata com’è dal costante incontrollabile impulso a consumare e inglobare tutto ciò che è a portata di mano, allora vuol dire che siamo veramente alla frutta. La conseguenza dello stato di cose che stiamo attraversando è un sempre più diffuso senso di precarietà, che genera uno stato sempre più apatico di rassegnazione di fronte all’incapacità di por fine al nichilismo congenito che ci attanaglia. Il presente in cui ci siamo forzatamente immessi è sempre meno interessante, oltre ad essere vieppiù terrificante. Facciamo perciò dei voli mentali verso un futuribile che ce lo fa superare immaginativamente, dal momento che non riusciamo a superarlo di fatto nel presente.
Detto in breve: il problema si è trasformato velocemente da politico in biopolitico. Non riguarda più semplicemente il sistema di relazioni all’interno della polis, ma più in generale il sistema stesso della vita. Il sistema di dominio che ci attanaglia non vuole e non può mutare il corso degli eventi, perché troppo invischiato nel sistema d’interessi che lo motiva e lo tiene in piedi. Sfido a trovare qualcuno, di destra di sinistra di centro, che sia soddisfatto dal tipo di vita che è costretto a condurre. Questo mondo non piace più. Ma come reazione, sembra, non si riesce ad immaginare altro che l’annullamento di sé come specie o imminenti catastrofi. La politica che continua a opprimerci non riesce ad interpretare la biopolitica che abbisognerebbe. Invece di affrontare e riflettere sui seri problemi che incombono, continuiamo a costringerci ad occuparci delle bagatelle governative nostrane, delle follie del fondamentalismo, degli estremismi guerrafondai degli stati, delle corruzioni dovunque scorre denaro, dell’impossibilità di curare le ingiustizie, ecc.
Mutare il corso
delle cose
Eppure saremmo ancora in tempo a mutare il corso delle cose. Bisognerebbe però trovare la forza e la volontà collettive di identificare il modo e il come bloccare il presente sistema globale che domina noi tutti e la natura. Bisognerebbe trovare la capacità, diffusa socialmente, di riappropriarsi dal basso della conduzione dell’operato umano nel mondo, delegittimando l’alto di potere che attualmente lo governa, seguendo consensualmente e concordemente una nuova adeguata filosofia dell’esserci, ed istituendo nuove modalità e nuove strutture di decisone e di esecuzione, controllate e gestite da tutti, non più, com’è ora, dai pochi che possono tutto a detrimento di tutti gli altri.
Per riuscire in questa impresa, che gli eventi ci suggeriscono sempre più urgente, bisogna attivare un nuovo immaginario, che prefiguri, progettandolo, come e cosa si dovrebbe fare, ed al contempo attivare fin da ora processi di realizzazione e di gestione del nuovo modo di stare al mondo, biopoliticamente, esistenzialmente e psicologicamente.