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Milano, Circolo anarchico “Ponte
della Ghisolfa”, 1968. Giuseppe Pinelli |
Oggi avrebbe 77 anni: era nato nel popolare quartiere di Porta Ticinese nel
1928. Sarebbe di sicuro un nonno super-affettuoso: le sue adorate bambine sono,
da anni, madri. Ma la storia, si sa, non si può mai scrivere al condizionale.
Eppure io ho l’intima convinzione – indimostrabile, certo – che se fosse ancora qui, sarebbe ancora “nel giro”. Sarebbe ancora attivo nel nostro movimento: a fare che cosa, non importa. Trentasei anni sono tanti, e in questi 36 anni quanta gente che pure è stata attiva ed entusiasta, o almeno lo pareva – è scomparsa alla fine nel nulla, si è svaccata, sistemata, allontanata. Quante cose sono successe, quante speranze sono appassite, quante facce sono comparse e scomparse in questi 36 anni!
Ma chi ha conosciuto Pino difficilmente potrebbe immaginarselo diverso da quello che era negli ultimi anni della sua vita – in quegli anni ’60 che, ancor prima del ’68, avevano visto una progressiva crescita del movimento anarchico a Milano. Niente di travolgente, d’accordo. Eppure, accanto ai compagni vecchi e di mezza età – molti dei quali passati attraverso l’esperienza della Resistenza e poi ritrovatisi intorno al giornale “Il Libertario” ed al suo redattore Mario Mantovani – si era affacciata una manciata di giovani, con i quali Pino – di almeno un decennio più vecchio di loro – aveva subito legato.
Lui che, finite le elementari, aveva dovuto andare a lavorare, prima come garzone, poi come magazziniere, aveva però colmato le lacune della mancata istruzione scolastica con la lettura di centinaia e centinaia di libri, ammirevole esempio di autodidatta.
E poi, nel ’44/’45, men che diciottenne, aveva partecipato alla Resistenza come staffetta partigiana, in uno dei vari raggruppamenti anarchici che operarono efficacemente dentro e intorno alla metropoli lombarda.
Poi la Liberazione, l’entusiasmo per la ritrovata libertà, il rapido gonfiarsi delle fila libertarie con l’afflusso di tanti giovani. Tempo qualche anno e l’euforia del dopoguerra è solo un ricordo: il riflusso dell’ondata rivoluzionaria postbellica “sgonfia” il movimento anarchico. Pino è tra i non molti giovani a rimanere, convinto ed attivo.
Nel ’54, vinto un concorso, entra nelle Ferrovie come manovratore. L’anno successivo si sposa con Licia Rognini, incontrata ad un corso di esperanto.
Il circolo,
la sua seconda casa
Nel ’63 si unisce ai giovani anarchici della Gioventù Libertaria, due anni dopo è tra i fondatori del circolo “Sacco e Vanzetti” – finalmente una sede anarchica, dopo che per un decennio i compagni erano “costretti” a chiedere ospitalità ai repubblicani o ad altri. Nel ’68, dopo che lo sfratto costringe alla chiusura il “Sacco e Vanzetti”, il 1° maggio (pochi giorni prima che scoppi… il Maggio) si inaugura un nuovo circolo, in piazzale Lugano 31, a pochi metri dal ponte della Ghisolfa.
Il clima sociale è surriscaldato e tale rimarrà anche per tutto l’anno successivo. Al circolo si succedono cicli di conferenze, riunioni di studenti, assemblee. Vi si riuniscono alcuni dei primi comitati unitari di base, i “mitici” CUB che segnarono la prima ondata, in quegli anni, di sindacalismo di azione diretta, al di fuori delle organizzazioni sindacali ufficiali. Pino è tra i promotori della (ri)costituzione della sezione dell’Unione Sindacale Italiana (USI) l’organizzazione di ispirazione sindacalista-rivoluzionaria e libertaria.
Il circolo diventa per Pino la sua seconda casa (a volte la prima, si lamenta Licia, che lo vede sempre meno). È lui a promuovere l’organizzazione della biblioteca (e poi, dopo tante arrabbiature, a mettere i lucchetti agli armadi per farla finita con la “scomparsa” dei libri – tutti con la loro copertina nera, tutti schedati ed ordinati). Alla domenica mattina quando nel circolo si ritrovano i “vecchi” (e qualcuno lo era davvero: 90 anni, ed anche di più), Pino c’era quasi sempre: lui che era il più vecchio – con Cesare – tra i giovani, ma certamente un giovane tra quei vecchi spesso attivi prima del fascismo, prima cioè che lui fosse nato.
Ma questa volta
era diverso
Negli ultimi mesi della sua vita, poi, Pino è particolarmente coinvolto dalle attività connesse con gli arresti dei vari anarchici accusati delle bombe esplose il 25 aprile ’69 a Milano, alla Stazione Centrale ed alla Fiera Campionaria. Ai compagni detenuti a San Vittore (saranno poi assolti nel giugno ’71, dopo aver trascorso – alcuni di loro – 26 mesi di carcere) Pinelli assicura l’invio di soldi raccolti tra compagni ed amici, fa arrivare pacchi di cibo, vestiario e libri che lui stesso porta alla portineria del carcere. Nell’ambito della appena costituita Crocenera Anarchica, si impegna nella costruzione di una rete di solidarietà e di controinformazione, che possa servire anche in altri casi simili.
Quando, verso le 7 di sera del 12 dicembre, Calabresi e gli altri dell’ufficio politico piombano nella seconda sede anarchica milanese – in fondo al secondo cortile di via Scaldasole 5, nel cuore del quartiere Ticinese – Pinelli è appena arrivato per lavorare un po’, con un altro compagno, alla sistemazione dei locali, in vista della prossima inaugurazione.
Pinelli viene invitato a seguire i poliziotti in questura, anzi a precederli sul suo motorino. C’era già stato tante volte, in via Fatebenefratelli: conosceva bene le regole del gioco, interrogatori, lusinghe e minacce, richieste di nomi, indirizzi, informazioni. Ma questa volta era diverso.
Tre giorni dopo, il corpo di Pino veniva scaraventato giù dalla finestra di una stanza dell’ufficio politico, al quarto piano della questura. Era la fine di una vita, l’inizio di una tragica farsa politico-giudiziaria. Alla fine della quale, lo Stato è uscito con l’immagine a pezzi. Pino, invece, no.