Rivista Anarchica Online


politica

La politica in movimento
di Andrea Papi

 

Bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima.

 

La politica istituzionale italiana si sta ridefinendo. Evidentemente, mi piace aggiungere, perché gli assetti e i posizionamenti che si erano impostati negli ultimi decenni non riescono più a reggersi in piedi, se non con sforzi che si stanno dimostrando poco produttivi sia sul piano economico che in quello del consenso. I partiti, che ha sempre meno senso continuare a definire tradizionali, e le forze politiche momentaneamente in campo vivono da tempo uno stato di precarietà permanente, che non li può far sentire a proprio agio, né può permetter loro di riuscire a far comprendere le ragioni del loro esistere a chi li sostiene. Lo stato di confusione, condiviso e diffuso al massimo grado, sembra insomma essere il comun denominatore dello stato della politica del “una volta belpaese”.
Il “nuovo” partito democratico ha finalmente preso avvio. Non se ne poteva più della continua messa in scena di un artefatto dibattito mediatico, che fingeva di cercare d’identificare il senso e il valore di un partito che ancora ufficialmente non c’era, come se la voglia di metterlo in piedi fosse scaturita da una volontà di base di massa e non dai vertici delle burocrazie di Ds e Margherita. In realtà, anche dopo la decantata partecipazione alle primarie che ha investito Veltroni a suo segretario, la struttura dirigente del partito democratico ci appare una marmellata rifatta di ex (comunisti e democristiani soprattutto, cattocomunisti d’animo, et similia). Un amalgama che, non più di sinistra in senso “classico”, ma nemmeno di destra, aspira ad essere centro, non però democristiano vecchio stampo né tanto meno forzaitaliota, con sfumature e tradizioni sinistreggianti da conservare e mettere a frutto. Dà tutta l’idea di aspirare ad un democraticismo liberaleggiante di tradizione americana, senz’essere però americano, ma ben collocato nell’italianità. Qualcosa insomma con l’apparenza del nuovo, ben impostato coi “sani” vecchi metodi di potere di strutturazione e veicolazione delle “idee” (si fa per dire).

Una “nuova” sinistra

Ma il Pd, nuovo di zecca e con una confezione al passo coi tempi, non è l’unica novità nell’approntamento in atto del mercato politico. Dini, che all’inizio della seconda repubblica partì con Berlusconi per passare subito col centrosinistra su posizioni “centrodestriste”, ha fondato il partito liberaldemocratico; la cosa comica è che più o meno tutti si definiscono liberaldemocratici, ma ben pochi faranno parte del partito che si autodefinisce così. Dopo una serie di manovre più o meno riuscite, finalmente Boselli è riuscito a rifondare il partito socialista, riuscendo pure ad annettervi De Michelis e il prestigioso Gavino Angius, fino all’altro ieri capo dei senatori ds. Mastella e Casini stanno lavorando per provare a rifondare la DC: anche se non lo dichiarano, lo fanno intendere democristianamente con giochini verbali del tipo «…qui lo dico e qui lo nego…». Dall’altro lato dell’ormai agonizzante bipolarismo si continua a cianciare di fondare un nuovo unico partito di destra, senza però troppa convinzione (forse c’è qualche problema di leadership, visto che è difficile intravedere “idee” in questo “tramescamento” in divenire).
In affanno accentuato sembra invece l’insieme variegato della sinistra ora al governo, che si trova costretta a ripensarsi dall’insorgere sulla scena del nuovo Pd. Tutta la bagarre in movimento della cosiddetta sinistra radicale, infatti, cerca d’impegnarsi e sta lavorando, a mio avviso in gran confusione, per fondare una “nuova” sinistra, visto fra l’altro che la parola “sinistra” è scomparsa definitivamente nel definirsi del “nuovo” Pd, per ora ancora di centrosinistra. Magari anch’essa si pensa democratica a tutti gli effetti, però non vuole né può sganciarsi, almeno nel nome, dalle aspirazioni delle tradizioni di sinistra. Da ciò che si intravede con uno sguardo intuitivo sembra che abbia le pretese di rifondare il socialismo, che però si vuole distinguere da quello boselliano, anche se non si è ancora capito come.
Questa ridefinizione generale alla dichiarata ricerca del nuovo, certamente richiesto dall’opinione pubblica, che però continua a riproporsi con lifting più o meno vistosi su facce ed apparati, a voler esser buoni piuttosto anzianotti, ha molto l’aspetto di un gioco delle parti. Assomiglia più che altro a una redistribuzione delle parti per riuscire a determinare un assetto un minimo stabile, in grado di assicurare fette di potere saldo a tutte le componenti che riescono a mettersi in gioco col consenso tacito di ognuna di esse. Potremmo dire, senza scadere in una facile satira, che ha molto l’aspetto di un gioco di scambio di consensi, di voti, d’influenze e, chissà!… di favori, nel mercato, più che libero ormai senza controllo, dell’arte di sapersi aggiudicare quantità consistenti di consensi e di simpatie.
È come un cane che si mangia la coda, una spirale che gira attorno a se stessa. Che senso ha dirsi di destra o di sinistra se non si è collegati a diverse visioni del mondo? Se le nostre adesioni non sono mosse da aspirazioni di realizzare tipi di società profondamente differenziate per gli scopi che vogliono perseguire? Ho l’impressione che si stia perdendo, se non addirittura che già non la si sia persa del tutto, la memoria del senso per cui hanno preso forma e concretezza operativa queste differenze di collocazione politica.
Val la pena ricordarlo brevemente. Nel parlamento della rivoluzione francese del 1789 la destra rappresentava la volontà dichiarata di restaurazione dell’ancien régiment, l’aristocrazia monarchica sconfitta, mentre la sinistra la realizzazione delle istanze di emancipazione popolare che la rivoluzione aveva fatto insorgere, liberté fraternité égalité. Nel tempo, chiaramente, questo significato genetico si è allargato, assumendo più ampio respiro e non rimanendo agganciato al momento storico specifico del suo sorgere. È però rimasto intatto il senso primario e profondo del suo definirsi. Ci si trova così all’interno di logiche di destra quando si perseguono politiche di restaurazione e conservazione, mentre si è all’interno di visioni di sinistra quando si pensa e si agisce per superare le logiche dei poteri vigenti, in funzione della costruzione di relazioni sociali fondate sull’uguaglianza di considerazione e di possibilità, sulla solidarietà reciproca e sulla libertà fattiva nel riconoscimento pieno della dignità di ogni individuo.

Pensiero unico

Oggi i linguaggi e le scelte si mescolano in un magma sempre più ibrido e indistinto. Ascoltiamo dichiarazioni di uomini di destra che usano linguaggi tradizionalmente di sinistra e viceversa. Oppure assistiamo a politici che provengono da partiti di sinistra che fanno scelte istituzionali che si attagliano perfettamente a tradizionali logiche di destra. Fino a non molto tempo fa “legge e ordine” era uno slogan che, giustamente, qualificava scelte di destra, mentre la sinistra, nelle sue varie sfaccettature, si muoveva all’insegna della costruzione di luoghi della solidarietà sociale e della emancipazione economica, perseguendo logiche di lotta allo sfruttamento, nelle sue diverse forme, e all’oppressione politica, combattendo la repressione poliziesca e l’uso restaurativo delle leggi. Oggi “garanzia della sicurezza”, aggiornamento linguistico del vecchio “legge e ordine”, è uno slogan indistinto che appartiene indifferentemente a uomini di destra o di sinistra.
Gli obiettivi e le istanze politiche di gestione della società si sono livellati e nella sostanza sono gli stessi indistintamente per tutte le forze istituzionali. Non si propugnano più differenti tipi di società, una volta anche contrapposte. La società attuale, come sistema di potere sia economico che politico, nella sostanza non è più in discussione. In questo senso vige un pensiero unico, che è quello di un’accettazione omologata dei sistemi di potere vigente. Le differenze che ci sono, non più ormai secondo classici criteri di destra e sinistra, si riferiscono a tecniche e tecnologie di gestione diversificate e sono inerenti a come amministrare il presente, mentre è del tutto scomparso il come superarlo e il come riuscire a sostituirlo. Stanno cioè scomparendo il pensiero e le pratiche che perseguivano l’emancipazione sociale dallo sfruttamento economico e dall’oppressione politica, sostituite da proposte di tecnologie gestionali per rendere efficiente ciò che c’è.
Non essendoci più vere differenze d’idee, corrispondenti a vere differenti visioni della società, il tutto si muove in un pantano allo stesso tempo variegato e indifferenziato. A livello di fruizione, il potere vigente è riuscito ad omologare la politica a se stesso mistificandone le ragioni dell’esistere, che era di riflessione e stimolo al cambiamento. Qui nulla muta se non le modalità procedurali e operative dell’amministrare, mentre la struttura fondante, causa prima dello stato confusionale di precarietà permanente, rimane salvaguardata e non è più in discussione. La ridefinizione della politica è così tutta all’insegna della ricerca di posizioni che possano permettere di conquistare il governo, per fare alcune cose invece di altre certo, ma soprattutto per andare al governo. Dietro non ci stanno idee vere di cambiamento del sistema presente, bensì semplici ipotesi di gestione per governarlo, non più in discussione in quanto sistema. Solo i modi della sua gestione sono in discussione e spesso, fra contorti arzigogolamenti, si spendono proposte che pensano di rifarsi a logiche di destra o di sinistra, ma che in realtà convergono sempre di più.

La radice della parola “partito”

Per quanto attiene a quella che ancora si definisce sinistra, fra l’altro radicale, non sono più in gioco né l’andata al potere né la presa del potere, per affossarlo e sostituirlo com’era secondo le vecchie strategie della sinistra autoritaria, bensì la conquista democratico-rappresentativa dei governi istituzionali (una volta si diceva borghesi) per diventarne i gestori e tentare di mantenerne il potere. L’azione socialdemocratica di insinuamento nelle istituzioni da fatto tattico è diventato strategico. Non si vuole più creare una situazione favorevole a un ribaltamento strutturale. Il fine vero cui oggi aspira è quello di gestire il sistema vigente, mentre l’avrebbe dovuto abbattere secondo i principi su cui è sorta. Non tenta più di governare lo stato “borghese”, nell’illusione di instaurare il socialismo. In modo dichiarato invece si propone tout-court come forza di governo di questo stato, che così ora si trova del tutto legittimato a livello etico e politico. È soprattutto per queste cose che la sinistra non sa più cosa è, cosa fare ed è in evidente stato di confusione.
Per comprendere ancora meglio basta riflettere su come sono sorti i partiti e cosa significavano: la radice di partito deriva da pars, parte, e contemporaneamente indica che è partito, si è cioè messo in moto. I partiti sono nati così come organizzazioni di parte, intendendo che sono sorti per rendere operative le idee che li ispiravano. In altre parole, prima si aderiva agli ideali della repubblica, del socialismo, dell’anarchia, del comunismo, ecc., poi si fondava il partito, l’organizzazione che avrebbe dovuto realizzare quell’idea di società. Essendo praticamente scomparse le idee di società diverse, oggi i partiti residui si sono ridotti a puri apparati che, in omologazione col pensiero di società unica, si propongono unicamente in modo tecnico per gestirla e regolarla.
Siamo praticamente rimasti noi, gli anarchici, soli e cocciuti, a propugnare un piano ideale che ci spinge a continuare a sognare e a tentare di praticare un tipo di società che si fonda su una reale alternativa al presente stato di cose. Ma… ahimé!... ci troviamo immobilizzati e sembra che non troviamo né la forza né le modalità per uscire dalla “cuccia” residuale in cui ci ha cacciati il sistema di potere in atto. Per tentare di uscirne, penso che dovremmo provare, molto seriamente e in modo molto convincente, a proporci e proporre il tipo di società che secondo noi permetterebbe di realizzare, nei metodi e nelle aspirazioni, la giustizia e l’uguaglianza sociali, assieme all’eliminazione dello sfruttamento e dell’oppressione politica. Dovremmo invitare, più che a lottare contro il sistema, ad agire e lottare per un altro modo di essere società… spiegando, sperimentando, resistendo in modo intelligente alle provocazioni e alle pressioni del potere dominante.
Lo spazio potenziale e simbolico c’è. In qualche modo lo dimostrano anche le ultime grandi partecipazioni di massa a manifestazioni, referendum, votazioni primarie. Solo che lasciare questa voglia di partecipazione in balia dei partiti che riescono ad evidenziarla, senza alternative efficaci di contrasto, vuol dire lasciarla convogliare in una permanente delega di massa al sistema in atto, che spinge a partecipare solo per scegliere chi ci deve comandare tutti, ben lontano dal scegliere di gestirci da soli come noi auspicheremmo.

Andrea Papi