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Sperimentare, provare, vivere il sogno

Fra le tante immagini alle quali, nel sentire popolare, viene associato il termine “anarchia”, c’è, senza dubbio, per la sua forza evocativa, anche quella delle comuni e delle colonie utopistiche, generalmente intese come realizzazioni senza luogo e senza tempo, aspirazioni di un ideale “perfetto” ma, proprio per questo, irrealizzabile. Questo luogo comune, del resto, ha indubbiamente una sua ragion d’essere, perché il movimento libertario, nella sua lunga storia, ma soprattutto a cavallo fra Ottocento e Novecento, ha spesso dibattuto su questi progetti di sperimentazione ideale E per opera di libertari particolarmente motivati ha anche tentato, con discreta frequenza, di dar vita a comunità isolate e autosufficienti, nelle quali fosse possibile sperimentare, e dimostrare, la validità e la fattibilità del progetto anarchico.
Il più famoso di questi esperimenti sociali, in ambito propriamente anarchico, fu quello della Colonia Cecilia, la comunità agricola che l’agronomo pisano Giovanni Rossi, assieme a un pugno di accoliti entusiasti, fondò, sul finire dell’800, nei pressi della località di Palmeira, nella provincia brasiliana del Paraná. Esemplare e quanto mai ricca di spunti, nella sua travagliata storia, per una riflessione approfondita sulle possibilità operative dell’ideale anarchico, la Colonia Cecilia destò un forte interesse nella vasta comunità socialista, italiana e internazionale di fine ottocento, suscitando una serie di dibattiti e riflessioni che andarono ben oltre l’immaginazione popolare. Uomini “illustri” della sinistra dell’epoca, come Turati, Bissolati, Ferri, Costa, Malatesta, Gori, si interrogarono sull’utilità di simili esperimenti e relativi fondamenti teorici, e pur nella diversità delle ipotesi e delle risposte – se fosse meglio sperimentare nuove strade ma in situazioni di sostanziale isolamento o mantenere una presenza all’interno dello scontro di classe – il dibattito si mantenne sempre all’altezza della serietà con la quale i “coloni” portavano avanti la loro avventura. Del resto il sogno dell’utopia comunitaria e comunista, in anni che ancora non avevano conosciuto, né avrebbero potuto immaginare, certe mostruose aberrazioni del “socialismo reale”, era patrimonio comune a tutte le scuole del socialismo, come sta a dimostrare, ad esempio, il significativo successo che riscosse l’opuscolo Un sogno di Andrea Costa nelle sue molte edizioni. L’autore, già parlamentare socialista, vi ipotizzava una società di liberi ed uguali, senza servi né padroni, senza dio né stato, nella quale (tanto per dare un’idea della nuova organizzazione sociale) le chiese diventavano magazzini collettivizzati di generi di consumo. Il sogno cooperativo che si realizzava, dunque, non in alternativa ma a fianco di altri esperimenti come le Comuni. Del resto Costa era romagnolo e non a caso il movimento cooperativo delle origini, quello davvero cooperativo, vide il suo massimo sviluppo proprio nell’Emilia Romagna.

Alone di romanticismo
Tornando a Giovanni Rossi e alla Colonia Cecilia, è facile immaginare come tale esperimento colpì la fantasia popolare, non solo per i suoi aspetti più propriamente politici e sociali, forse, a volte, nemmeno compresi compiutamente, ma anche per quell’inevitabile alone di romanticismo ed esotismo che circondava quegli uomini e quelle donne che avevano deciso di vivere una vita libera, e anche un po’ selvaggia, nelle lontane foreste del lontanissimo Brasile. Del resto, in un periodo nel quale una percentuale considerevole di italiani di tutte le regioni e di tutti i ceti sociali, decideva di abbandonare le proprie case per cercare migliori opportunità di vita in paesi stranieri, è naturale che il tema dell’emigrazione, nei suoi differenti aspetti, coinvolgesse fortemente il paese. E ne sono ricca testimonianza le canzoni, le raffigurazioni artistiche, i bozzetti sociali dedicati a questa vicenda. Solo più tardi anche la storiografia, finalmente attenta alla storia dell’“utopia”, si dedicherà allo studio di questo esperimento, analizzando con il rigore della ricerca scientifica gli echi e gli sviluppi che ebbe nella società italiana in quegli anni e in quelli successivi.
Recentemente mi è capitato fra le mani un libro uscito in Italia nel 1958 (Alfonso Schmidt, Colonia Cecilia, Siena, Casa editrice Maia, 1958, ed. or. Colonia Cecilia. Uma aventura anarquista na America, São Paulo, 1942) nel quale l’autore, un giornalista brasiliano, riporta in forma romanzata la storia della colonia, rifacendosi alle memorie di prima mano scritte dallo stesso Giovanni Rossi sotto l’usato pseudonimo “Cardias” nei due bozzetti Cecilia. Comunità anarchica sperimentale e Un episodio d’amore nella Colonia Cecilia, usciti a Livorno nel 1893. Anche se la qualità letteraria non è certo eccelsa, quest’opera ha comunque un suo indubbio interesse, sia per la capacità dell’autore di raccogliere e riproporre le vive parole di Giovanni Rossi, contestualizzandole appropriatamente nella realtà brasiliana in cui operò, sia perché proprio questo testo avrebbe poi fatto nascere la “leggenda” dell’aiuto che l’illuminato imperatore del Brasile Pedro II (lo stesso che aveva dichiarato fuori legge lo schiavismo nel suo paese) avrebbe concesso all’impresa, donando circa mille ettari di terra vergine ai coloni. Se fosse vera, questa improbabile vulgata sarebbe evidentemente molto importante per il contesto e viene data per certa sia da Afonso Schmidt sia dall’anarchico Alessandro Cerchiai, per poi essere ripresa anche da diversi storici e in particolare da Pier Carlo Masini nella sua Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta. Ma Rosellina Gosi, nel suo denso saggio Il socialismo utopistico. Giovanni Rossi e la colonia anarchica Cecilia (Milano, Moizzi, 1977) ha cominciato a porre i primi dubbi, e Isabel Felici, ne La colonia Cecilia. Fra leggenda e realtà, apparso sul n. 2 del 1996 della Rivista Storica dell’Anarchismo, ha smontato decisamente e senza alcuna incertezza tale ipotesi.
Sia come sia (non è certo questo il luogo per entrare nel merito di tale disputa storiografica) Colonia Cecilia resta un’opera decisamente stimolante, poiché racconta con sincera ed emozionata adesione tutte le vicissitudini dell’esperimento: dalla sua ideazione, dopo i primi incerti e irrisolti tentativi comunitari nelle campagne lombarde ed emiliane alla sua preparazione, nella Milano del 1889; dalla partenza per l’America, nel 1890, dei primi coloni sul piroscafo “Città di Roma”, alla nascita del piccolo villaggio di capanne chiamato “Anarchia”; dalla realizzazione di una azienda agricola sempre più funzionante, alle difficoltà di ogni genere, personali ed ambientali, tanto interne alla comunità quanto esterne, che ne turberanno la serenità. E che porteranno, dopo quattro anni di intensa passione, alla fine dell’esperimento.
Giunta nelle terre assegnate, la piccola comunità inizia subito il duro lavoro dei campi, riuscendo in breve tempo a garantirsi l’autosufficienza alimentare ed economica. Basandosi sulle regole classiche del comunismo anarchico, da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo i propri bisogni, il gruppo di anarchici si dota di una sorta di codice comportamentale, ovviamente non scritto ma fatto proprio in piena consapevolezza, in base al quale tutta la vita della piccola società può svolgersi nel rispetto reciproco e nell’assoluta mancanza di divieti coercitivi. L’anarchia si realizza giorno per giorno nella pratica assembleare, nel riconoscimento delle prerogative di ciascheduno, nell’educazione libertaria fornita ai fanciulli e si manifesta, simbolicamente, nella gigantesca bandiera rosso e nera issata su una palma. Il continuo arrivo di nuovi coloni richiamati dalla spontanea adesione all’esperimento – si arriverà a circa 250 persone – permetterà il ricambio necessario alla sopravvivenza e allo sviluppo della Cecilia. Personaggi curiosi, improbabili macchiette e generosi idealisti affollano le pagine del romanzo, e fra questi spicca Ciccio, un ex recluso proveniente dalla malavita milanese, che scopre nella libertà consapevole della colonia lo stimolo per ritrovare la propria dignità, e per donare così, anima e corpo, tutta la propria prestanza fisica alla realizzazione del sogno.
Non mancheranno, ovviamente, in quella comunità ristretta ed isolata, le tensioni personali, ed esemplare fu quella che vide coinvolti sentimentalmente, e di riflesso anche ideologicamente, lo stesso Rossi, la giovane Elena e il fidanzato di questa Annibale. Si può ben comprendere come il principio del libero amore, inteso come libera espressione dei sentimenti amorosi slegati da ogni forma di coercizione e legame istituzionale, fosse uno dei capisaldi delle basi teoriche e delle aspirazioni pratiche dei coloni, e difatti, quando la vita della giovane coppia fu scossa dalla evidente attenzione di Rossi per Elena, tutti e tre cercarono di trovare una risposta razionale al “problema”, senza ricorrere, come sarebbe stato normale in un’altra situazione, alle ipocrisie ed ai sotterfugi della morale borghese. Ovviamente, come è facile immaginare, la vicenda non fu del tutto indolore, ma anche in quell’occasione l’intento di tutti, anche dell’intera comunità a cui fu pubblicamente sottoposta la questione, fu di arrivare a una risoluzione che potesse soddisfare non solo i protagonisti della vicenda, ma anche, cosa ben più importante, i principi dell’ideale.

Tasse, Chiesa, defezioni
Come si sa, le cose, alla fine, non andarono bene. La strisciante repressione delle autorità brasiliane, spaventate dalla propaganda di emancipazione degli anarchici e sobillate dalle sempre più inquiete gerarchie ecclesiastiche, la pressante e strumentale richiesta di esosissime tasse per l’occupazione del suolo, la defezione fisica e morale di alcuni coloni – tra questi il cassiere che si eclissa con i soldi destinati ad onorare il debito con lo stato –, lo scoppio di una tragica epidemia che porterà via molte delle più giovani vite, tra cui due figliolette di Rossi, porteranno lentamente ma inesorabilmente alla fine della colonia costringendo così molti dei partecipanti a trasferirsi altrove, sia in altre parti del Brasile sia di nuovo in Italia. Lo stesso Cardias, dopo alcuni anni trascorsi esercitando la sua antica professione di agronomo, farà ritorno nella natia Toscana dove vivrà ancora a lungo, staccandosi gradualmente dalla militanza attiva, ma portando sempre nel cuore il sogno dell’antica esperienza e del grande ideale.
Che dire, a questo punto? Che valenza dare a quell’utopia realizzata, come inquadrarla nel contesto storico e sociale nel quale ebbe a svilupparsi? Come si accennava all’inizio, quell’esperienza, così come le numerose altre che fiorirono nel vasto campo socialista di qua e di là dall’oceano, non trovò sempre una valutazione positiva, essendo molti quelli che ritenevano che altro non fosse che una fuga dalle difficoltà poste dall’impegno quotidiano, qui ed ora, nella lotta contro lo sfruttamento e per l’emancipazione. Valutazioni, queste, senza dubbio valide e serie, piene del buon senso di chi preferisce mantenere i piedi per terra e non abbandonarsi al sogno e al desiderio. Ma che non tengono conto, a mio parere, della necessità insopprimibile, per individui portati ad anteporre a tutto l’esigenza di dar corpo alla propria fantasia, di sperimentare, di provare, di tentare anche l’intentabile e l’impossibile, non per una opportunistica evasione ma per dimostrare che una società di liberi e uguali era possibile allora, è possibile oggi, sarà possibile sempre. E, soprattutto, realizzabile.

Massimo Ortalli

In copertina la foto con Giovanni Rossi,
in piedi a destra, insieme ad alcuni
contadini della Cooperativa La Cittadella
di Stagno Lombardo, l’on. Giuseppe Mori
e il fattore Giuseppe Boselli seduti

In una società differente
I pionieri erano intellettuali, professori, medici, ingegneri, o operai di Milano, o contadini di Lombardia. Questi ultimi abituati a curare un suolo coltivato già da millenni, campi di grano o di carote, alberi di mele e di pere. Tra i vari elementi della colonia, v’era un vecchio svogliato, abulico di natura, i cui modi non facevano sperare in una qualsiasi collaborazione personale alla causa comune. V’era anche un individuo tarchiato di piccola statura, testa irrequieta e braccia lunghe, oltrepassanti le ginocchia. Forte, allegro, scherzoso, aveva i modi di un fanciullone. Lo chiamavano Ciccio. La sua conversione all’idea degli attuali compagni era avvenuta in carcere, dove gli arrestati politici erano tenuti negli stessi cameroni dei delinquenti comuni.
Ciccio, colpevole di assassinio, di furti e di scassinamenti, aveva scontato lunghi anni di pena. Aderendo all’anarchia aveva posto a servizio dell’ideale l’energia che fino allora aveva speso tanto male. Fu tra i primissimi a rispondere all’appello inserito nelle pagine de Lo Sperimentate e di altri settimanali simpatizzanti, con una somma raggranellata in vari mesi di lavoro in una panetteria di Corso Loreto.
Egli agognava sinceramente una vita nuova e onesta, in una società differente. La sua dedizione alla causa era profonda. Timoroso di errare, non prendeva l’iniziativa di risoluzioni, ma, una volta segnalatogli il cammino, andava sino in fondo, a qualunque costo. Non esistevano per lui difficoltà che non potessero esser superate: «Era — scrive Cardias — il più abile, il più forte, il più volenteroso lavoratore del gruppo».

Con grande fede
Cardias era imbarazzato. Non riusciva a capire perché quell’uomo e sua moglie, abituati a una vita confortevole, quasi lussuosa, avessero potuto abbandonare la proprietà, la clinica, tutto il loro mondo, per ingolfarsi in quell’avventura.
La sua curiosità che, anche se non manifestata, era visibile, faceva sorridere i due nuovi venuti.
Ad un certo punto, non riuscendo più a contenersi, Cardias domandò:
— Scusate, ma come è avvenuta la vostra decisione?
Il conte e sua moglie che fino a quel momento avevano riso, cambiarono di umore all’istante. Con la sua domanda, Cardias aveva sconvolto le loro anime, ridestando una piaga dolorosa. Piegarono il capo rannuvolandosi in viso, e la voce del conte si fece udire, come un gemito:
— Nostra figlia è morta, tutto è finito...
Nessuno ritornò più sull’argomento.
Cardias, frattanto, credeva che quella coppia non si sarebbe abituata a vivere in quella plaga sconfinata. Viceversa, non solo si abituò, ma prese parte attiva alla vita della colonia. Ambedue lavoravano con grande fede, perfettamente integrati nella collettività. Basti dire che non disdegnarono di lavorare i campi, adoperando la zappa con sicurezza e quasi con disinvoltura, come se non avessero mai fatto altro in vita loro. E un giorno, anni dopo, furono tra gli ultimi a ritirarsi. La contessa ebbe occasione di confessare che aveva trovato nella colonia una felicità insperata; sembrava che la figlia adorata li avesse seguiti e che si aggirasse d’intorno, che giocasse con altri bimbi. Mancava soltanto vederla, perché ormai la sentivano dappertutto...

Il caso sentimentale
La riunione di quel sabato fu sensazionale. Il modesto baraccone assunse un aspetto solenne, che contrariava gli ortodossi. Non mancò un segretario, nella persona del giornalista Lorenzini che, abituato a queste cose, si sedette al tavolo dinanzi a enormi fogli di carta, maneggiando agilmente la penna. Impiegò quasi un’ora a preparare la lista dei quesiti, formulando una requisitoria speciale per ognuno dei personaggi coinvolti. Nel frattempo, i presenti formavano gruppetti e chiacchieravano di tutto un po’. C’era nel modesto baraccone un’aria di tribunale speciale, molto speciale, però, e differente dalla tetraggine solita dei consessi che ricevono questa definizione. Nella sala non v’erano giudici per giudicare, e molto meno per condannare. Personaggi e pubblico erano allo stesso livello. Si trattava di esaminare, con carattere scientifico-sperimentale, il caso sentimentale sorto fra elementi della colonia. Non per il caso in sé, ma per le osservazioni che, sotto l’aspetto sociale, esso avrebbe permesso di fare.
Quando Lorenzini, il giornalista-segretario, alzò gli occhi, s’accorse che aveva dinanzi a sé un’autentica assemblea. I tre personaggi del dramma erano presenti: Elena chiacchierava in un gruppo di donne; Cardias, seduto all’estremità d’una panca, sembrava pensieroso, e Annibale attendeva, apparentemente estraneo, accoccolato in un angolo in fondo alla sala. Vi era gente dappertutto: nelle panche di fronte al tavolo collocato al centro della sala, sui davanzali delle finestre, e in piedi, pigiata lungo l’unica parete laterale. Altri ancora erano seduti sull’impiantito, con la testa in sú come tante lucertole. Una giovane coppia d’innamorati arrampicatasi ad una trave del soffitto, con le gambe penzoloni, si manteneva estranea a quanto la circondava e tubava tranquillamente.

Afonso Schmidt
(da Colonia Cecilia, ed. Maia, 1958)

Frontespizio della prima edizione
di Cecilia comunità anarchica
sperimentale
e Un episodio d’amore
nella colonia «Cecilia»
, Livorno 1893

Non beviamo alcolici
Ci alziamo presso a poco al sorgere del sole; alcuni un pò prima, altri un pò dopo. Una volta avevamo una specie di sveglia, perché urgendo certi lavori, avevamo pregato il compagno più mattiniero di chiamarci. Ed egli passava davanti alle casette chiamando a mezzavoce «Oh turchi!»; ma poco dopo risuonavano nel paesetto altre voci più clamorose: «Alla vigna! Alla vigna! » Uscendo di casa, ciascuno si reca al suo lavoro, e intanto le donne preparano la colazione nella cucina comune. Dopo un’ora o due di lavoro mattutino, alla spicciolata, a gruppi, tutti forniti di ottimo appetito, accorriamo al refettorio, ove si prende caffè e latte – un po’ lungo ma abbondante – con polenta arrostita e con pane di segale. Torniamo al lavoro verso il mezzogiorno; a quell’ora altra visita al refettorio per il minestrone – anche questo poco saporito ma abbondante – e poi ci prendiamo un paio d’ore di riposo, tanto da fare il chilo e da fumare una sigaretta. Torniamo poi al lavoro fino al tramontare del sole, e la nostra cena consiste in polenta con insalata, con legumi, e qualche rara volta con ragù di pollastro o di carne suina. Non beviamo alcoolici di nessun genere; prima perché le nostre finanze non ce lo permettono, poi perché turbando i cervelli si turba la pace sociale.
La nostra vita intellettuale è povera cosa. Le conversazioni durante il lavoro e durante i pasti, le riunioni serali, la lettura di giornali socialisti e politici o di qualche libro, la scuola per i bambini aperta un po’ saltuariamente. Istruzione, musica, teatro, balli, passatempi di varie specie li desideriamo ardentemente, ma non ci sono stati ancora possibili. Il lavoro produttivo ci ha assorbiti intieramente. Non abbiamo ancora potuto provvedere neppure alla ornamentazione del nostro villaggio, che assumerà aspetto ben più simpatico quando sarà fronteggiato da boschetti e da aiuole fiorite.

Giovanni Rossi
(da Cecilia comunità anarchica sperimentale. Un episodio d’amore nella colonia «Cecilia», BFS edizioni, 1993)

Cardias: “un comune socialista”
Io sedeva in un salotto vicino a Cecilia, carezzando le bionde sue trecce. Si ragionava di amore, di Socialismo. Ella mi guardava con maggior tenerezza, pareva mi preparasse qualche dolce sorpresa. A un tratto un rumore immenso ne colpisce le orecchie. Cecilia balza in piedi e grida:
— È il popolo, è il popolo che viene!
Non era un grido di terrore. Era un grido di entusiasmo, di gioia, di vittoria.
Corre nel suo salottino da lavoro e ne ritorna con una stupenda bandiera rossa.
Sul serico drappo aveva ricamato in oro queste parole:

Socialismo
Amore – Libertà – Lavoro

Essa vuole consegnarmela, ma
— A te, Cecilia, le dico, a te depositarla nelle mani del popolo.
E uscimmo incontro ai nostri fratelli.
Abbracci, baci, strette di mano, pianti di gioia… immaginatevi quella scena, perché io non posso descriverla.
E la rossa bandiera del Socialismo sventolava trionfante sulle nostre teste. I raggi di un sole primaverile la baciavano, l’accarez?zavano le aure inebrianti cariche di profumi campestri.
Per tutta la giornata fu un gridare:
— Socialismo, Socialismo, viva il Socialismo!

Cardias
(da Un Comune Socialista, Bozzetto di Cardias, 2ª edizione, 1881)