Rivista Anarchica Online


multiculturalità

Alta e bassa cucina
di Carlo Oliva

 

Uno strato di cous cous, uno di tortellini, un altro strato di cous cous, un altro di tortellini. Dietro la contaminazione e la mescolanza alimentare può celarsi qualcosa di positivo. Andatelo spiegare a Gianni Alemanno e a Magdi Cristiano Allam…

 

Leggo sul “Manifesto” dello scorso 22 maggio che a Bologna hanno chiesto agli alunni delle scuole elementari cosa pensano della introduzione, nel menù delle loro mense, di un certo numero di piatti, come si dice oggi, “etnici”. Alcune risposte hanno suscitato qualche sorpresa. In particolare, un giovane di origini marocchine, ha risposto che sì, il cous cous della scuola era buono, ma il migliore restava quello fatto a casa dalla sua mamma. “E come lo prepara la tua mamma?” gli ha chiesto, ovviamente, l’intervistatore. “Ci mette uno strato di cous cous, uno di tortellini, poi uno di cous cous, uno di tortellini...” e così via, è stata l’inattesa risposta del giovinotto.
Una mamma anticonvenzionale, dunque, e un ragazzino intelligente, che ha capito una cosa che, alla sua età (ma anche alla nostra) non tutti riescono ad afferrare, cioè che la contaminazione, la mescolanza, la ricerca di combinazioni nuove e inedite, in campo gastronomico o altrove, possono rendere la vita più divertente e piacevole. E che anche senza giungere a tanto, il semplice fatto di allargare l’offerta può avere delle valenze positive, anche se non sempre si manifestano appieno (da un’analoga indagine svolta a Milano, per esempio, risulta che ai bambini del capoluogo lombardo il cous cous non piace, o, più probabilmente, che preferiscono non affrontare la novità che rappresenta).
Pazienza, comunque, se l’iniziativa delle mense bolognesi non sarà stata motivata da finalità puramente edonistiche, ma intendeva – suppongo – rispondere a una più banale esigenza di correttezza “politica”, mettendo la tradizione alimentare di etnie cui appartiene, ormai, una percentuale rilevante dei fruitori del servizio allo stesso livello di quella nostrana. Già questa è una motivazione legittima, come dimostra, a contrario, il fatto che a Roma uno dei primissimi provvedimenti dell’orrido Alemanno sia stato quello di cancellare i menù plurietnici da quelle stesse mense, per privilegiare, dice lui, i piatti della “tradizione locale”. In ogni caso, lo scambio e l’allargamento delle esperienze non possono che fare un monte di bene, aiutando tutti a capire quanto futili e irrilevanti siano le distinzioni culturali tra i gruppi umani e quanto facilmente, con un poco di buona volontà, le si possano superare. Per non dire che il cous cous con i tortellini deve essere ottimo e non vedo l’ora di prepararmelo anch’io, una delle prossime sere, o con l’harissa o con il ragù, o magari con tutti e due.

Imposizioni e divieti

Il cibo, tuttavia, con i vari modi riconosciuti di prepararlo e consumarlo resta un forte elemento di affermazione identitaria ed è normale che venga utilizzato per delle operazioni che con l’identità hanno comunque a che fare. L’iniziativa di Alemanno, per esempio, si inscrive nel progetto – fin troppo ovvio, visto il tipo – di privilegiare le componenti, diciamo così, originarie della cittadinanza, mettendo gli allogeni di fronte alla scelta di assimilarsi, se ci riescono, o perire. Ed è per lo stesso motivo, naturalmente, che le autorità religiose di mezzo mondo si compiacciono tanto di imporre ai propri fedeli una serie di prescrizioni e tabù alimentari che, se considerati in rapporto a quel “mistero dell’esistenza” e a quei “fini ultimi” della nostra vita di cui le religioni, in teoria, dovrebbero occuparsi, non possono che far ridere, come se l’astenersi dal consumo di molluschi o di bevande alla caffeina possa avere qualcosa a che fare con la beatitudine o la dannazione. Oltre a esprimere il piacere, tipico di quelle autorità come di tutte le altre, di rompere i coglioni ai propri accoliti, quelle imposizioni e quei divieti non rappresentano altro che una sorta di marcatori, attraverso i quali è più facile tenere unita (e quindi più soggetta a controllo) tutta la comunità.
Così, il noto Magdi Cristiano Allam – per chiamarlo con il nome completo che si è scelto – è passato, come ognun sa, da una religione che di imposizioni di quel genere è assai ricca a un’altra che, al contrario, ne prevede pochissime, ma qualcosa con sé deve essersi portato dietro. Di fatto, di fronte ai dati di Milano Ristorazione, la struttura che prepara 70.000 pasti al giorno per gli asili, le materne, le elementari e le medie della sua e mia città, che ha comunicato come nel 2008 le diete di tipico etico-religioso siano passate dalle 2.045 al giorno del 2004 alle attuali 4.385, il novanta per cento delle quali riguarda ragazzi musulmani, si sente in dovere di esprimere, in prima pagina del dorso locale del “Corriere” di martedì 24 maggio , il proprio parere in materia. Non può scrivere, ovviamente, quello che a rigor di coerenza dovrebbe pensare, cioè che se tutti i musulmani facessero come ha fatto lui il problema sarebbe già bello e superato, e si rifugia nella constatazione, ovvia, che “di fatto sul tema specifico della scelta del cibo si potrebbe dire tutto e il contrario di tutto”, sul che è difficile dargli torto. “Ma” aggiunge “non si potrebbe dire altrettanto sulla condivisione della cultura quale fondamento della civile convivenza.” In fondo, spiega, i bambini e i ragazzi della scuola dell’obbligo fanno “i primi passi di un lungo cammino” per conoscere il mondo e acquisire i valori che gli consentiranno di diventare “protagonisti della propria esistenza” ed “ecco perché abituare i nostri figli e i figli degli immigrati a mangiare italiano fa bene sia alla salute sia alla cultura della pacifica convivenza, che si basa sul rispetto e sulla valorizzazione di ciò che rende l’Italia appetibile a tanti nel mondo, anche per l’eccellenza della sua cucina”. E conclude che “se vogliamo che le nostre scuole siano a tutti gli effetti il veicolo principale dell’integrazione, ebbene affermiamo convintamente e con orgoglio il primato del menù italiano.”

Intolleranza, razzismo e violenza

Be’, se non altro abbiamo scoperto che cosa muove tanti disperati a rischiare la vita nel tragitto tra la Libia e Pantelleria: vengono perché qui la cucina è migliore. Ma a parte il fatto che il concetto di “tradizione italiana” in questo campo è meno facile da definire di quanto si possa pensare, visti gli scarsi rapporti che intercorrono tra la zuppa alla valpelllinentze e la tiella con le cozze, e che gli amici leghisti del buon Magdi Cristiano potrebbero muovere qualche obiezione alla pasta, che, oltre a essere tipicamente meridionale, ci è giunta dalla Cina, o al pomodoro, ortaggio di importazione sudamericana, o rendersi conto, chissà, che persino il riso, prima di acclimatarsi in Padania, proveniva, via la Sicilia, dal mondo arabo-persiano, a parte tutto questo, dico, non c’è una gran differenza tra la linea testé riassunta e quella, per intenderci, di Alemanno. Allam non invita ai raid, ci mancherebbe (non lo fa, d’altronde, neanche il sindaco di Roma), ma certamente rivendica una superiorità e non si rende conto – speriamo – che una volta affermata una superiorità in un settore qualsiasi, sia pure quello culinario, è difficile tenercela circoscritta e che è appunto dalla fede nella propria superiorità reale o presunta che nascono l’intolleranza, il razzismo e la violenza. La mamma marocchina di Bologna, quella che mescola i tortellini con il cous cous, non farà forse dell’alta cucina, ma di fronte a certe operazioni di bassa cucina giornalistica i suoi sforzi sembrano degni di un Escoffier.

Carlo Oliva