Era il novembre 2005 quando ebbi modo di compulsare, per la prima volta, il testo di questa autobiografia, voce inaspettata dal “nostro” Novecento, testimonianza a futura memoria affidata in gelosa custodia perché fosse poi lasciata “nelle mani di compagni sicuri”. La copia fotostatica del documento, ora a disposizione del pubblico presso il Centro Studi Libertari / Archivio G. Pinelli di Milano, mi era stata consegnata direttamente dalla detentrice originaria Giovanna Gervasio Carbonaro, figlia dell’indimenticato organizzatore Gaetano Gervasio (sodale di Sassi). In tutto questo c’era stata la complicità di Paolo Finzi, compagno e amico, che mi aveva individuato come il destinatario “naturale” di quelle carte. Ed è stata per me una vera emozione leggere quelle pagine scritte in una grafia che ormai avevo imparato a riconoscere.
È una narrazione autobiografica dai toni fieri, ma anche leggeri ed ironici, che si dipana fra Emilia Romagna, Brasile e Valdarno. Nel racconto di quelle vicende sociali collettive davvero “epiche”, intrecciate con altre a dimensione “microstorica”, hanno in un certo qual modo cortocircuitato le mie identità. È certamente un fatto in sé risibile, ma fra i cinquemila minatori valdarnesi che con Sassi avevano conquistato temporaneamente, nel 1919, la giornata di sei ore e mezza “a bocca di galleria”, c’erano degli appartenenti alla mia comunità familiare, e molti loro amici che, ovviamente, non ho mai conosciuto, ma di cui sentivo parlare da bambino. Ho potuto così ritrovare un’altra traccia importante di quelle storie che, ossessivamente, non ho mai cessato di inseguire, anche nella mia attività di ricercatore.
Inoltre, incontrando Giovanna, ho potuto finalmente conoscere di persona, non solo la redattrice di quel foglio battagliero, “Gioventù Anarchica”, che fu la voce bella ed effimera di una generazione di coraggiosi negli anni del dopoguerra, ma anche la pedagogista libertaria attiva e oggi stimata nella “sua” Firenze. Nella casa in collina di Bagno a Ripoli i ricordi risalgono a prima dell’alluvione del ’66. Un pacchettino con alcuni volumi mi viene offerto in dono prima di congedarci. Sono “libri di Antonio”, il suo compagno di vita scomparso da alcuni anni, docente universitario e sociologo dalla vasta produzione scientifica, anche lui con un background anarchico.
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Attilio Sassi |
Che film la vita! E quante strade e quante storie, distanti, sconosciute oppure solo immaginate, finiscono poi per incontrarsi ed alimentare il presente!
Il volume che qui abbiamo messo insieme è frutto di un intenso lavoro collettivo, dove Bob (Zani) e Tom (Marabini) hanno avuto un ruolo centrale, sotto tutti i punti di vista. Ma è anche la risultante di una intensa attività di ricerca in progress che viene da molto lontano. Credo che queste pagine (cui si aggiunge un ricco CD), per la loro articolazione complessiva plurale e per la connessione dei generi, possano validamente costituire sul piano metodologico – modestia a parte – anche un possibile modello euristico, utile magari per la didattica. Lo so, i manuali di storiografia ci invitano ad un uso prudente e integrato di questo tipo di fonti. Ed è quello che abbiamo fatto, affiancando all’autobiografia i saggi storici in forma tradizionale e le fonti di letteratura insieme ad altri strumenti di conoscenza: fonti orali, interviste, verbali di riunione, carte di famiglia e documenti da varie tipologie di archivi pubblici e privati.
Come tutte le visioni autobiografiche neppure questa è solo rivolta al passato. Scritta a Roma, presumibilmente alla fine degli anni Quaranta, essa, manifestando in modo intrinseco una dimensione progettuale dell’avvenire, pare piuttosto evocare il cambiamento. Così la narrazione della propria vita è essa stessa laboratorio di creazione per l’attribuzione di senso e di significati. La memoria soggettiva intrecciata con quella collettiva funziona da vaglio degli eventi selezionati, producendo, da una parte oblio, dall’altra trasformazione dei ricordi, influenzati questi anche dalle storie di vita altrui. La sfera emozionale, dove i ricordi possono essere, inconsciamente, anche “riadattati” all’economia del racconto, assume sempre una valenza primaria. La rivisitazione eventualmente “creativa” dell’agito individuale niente potrebbe però togliere a quella attendibilità che la forma autobiografica possiede in sé quale strumento cognitivo della psicologia del narrante. Già in sé l’atto del raccontare crea e ricerca legami, insieme alle connessioni perdute. Il soggetto si trova immerso in un flusso diacronico, con il continuo scorrere tra passato, presente e futuro, dimensioni che caratterizzano le fasi esistenziali di ogni individuo. È una sorta di gioco dialettico / conflittuale che ogni soggetto sperimenta con l’attraversamento sincronico di tempi eterogenei e molteplici. L’oralità vive di suggestioni, suscita emozioni. La memoria si dipana attraverso una trama che si racconta fin nelle intenzioni recondite delle azioni dei protagonisti, nei significati sequenziali delle storie. Il modello narrativo presenta valenze metaforiche, mitiche e simboliche. Il metodo autobiografico promuove desideri di conoscenza e trame di storie capaci di educare e stupire al tempo stesso.
L’uso in storiografia, sempre meno occasionale, di questo tipo di fonti, un tempo aborrite e successivamente ammesse con riserva, ci induce a ritenere forse superata la lunga fase di “paura della storia contemporanea” che ha caratterizzato gli ultimi decenni.
“È l'interpretazione – scriveva Marcello Flores – cioè la scelta selettiva del passato e delle domande da porgli, il necessario intreccio tra la loro selezione e spiegazione, a essere resa difficile nella storia del Novecento”.
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Attilio Sassi (a sinistra) |
A maggior ragione questo è vero per le fonti di memoria, che, utilizzando gli ambiti magmatici “esistenziali” della soggettività, dell'autobiografia ecc… mettono definitivamente da parte l’antica concezione del primato assoluto del documento ufficiale quale garante unico della “oggettività”. Il nesso storia e memoria si fa quindi obbligato, sebbene irto di rapporti conflittuali e complessi.
Giorgio Sacchetti
Attilio Sassi detto Bestione
Autobiografia di un sindacalista libertario (1876-1957)
autori: Tomaso Marabini, Giorgio Sacchetti, Roberto Zani
a cura di Giorgio Sacchetti
introduzione di Giovanna Gervasio Carbonaro
edizioni Zero in condotta, Milano 2008 / collana Anarchici e movimento operaio
www.zeroincondotta.org • zeroinc@tin.it
in collaborazione con Archivio storico della FAI – Imola;
Centro Studi Libertari / Archivio Giuseppe Pinelli – Milano
pp. 238 + CD allegato € 17,00
La narrazione autobiografica si svolge fra la natia Romagna, il Brasile e la Toscana mineraria. Nel racconto vicende sociali collettive davvero epiche sono intrecciate con altre a dimensione microstorica. Attilio Sassi (1876-1957), anarchico e prestigioso dirigente sindacale dei minatori in Valdarno, prima con l’USI poi con la CGIL (ri-fondatore della Camera del Lavoro di Arezzo nel 1944), racconta la sua vita. All’autobiografia commentata si aggiungono saggi storici e schede.
Marabini e Zani hanno redatto la corposa sezione del volume dedicata all’Emilia Romagna ed all’emigrazione: giovinezza, attivismo, partenze e ritorni (1876 – 1917). A seguire: un’accurata intervista di Zani alla figlia Edera e al nipote Cesare; Poeta sociale, versi di Sassi in italiano e in dialetto romagnolo; una completa scheda bio / bibliografica curata da Sacchetti e Zani.
Nel CD allegato è contenuta la trascrizione degli interventi di Sassi nei Comitati Direttivi della Confederazione Generale Italiana del Lavoro, dal 1945 al 1954 (reperiti presso l’Archivio storico nazionale della CGIL). La preziosa documentazione, supportata da note esplicative e di commento redatte da Giorgio Sacchetti, evidenzia le battaglie di minoranza e il ruolo di dirigente di Sassi, insieme agli intendimenti della storica corrente classista e libertaria, fautrice dell’autonomia del movimento operaio. |
“Il proletariato darà una buona lezione…”
L’ultimo intervento di Attilio Sassi in un congresso della CGIL
La sua tempra di combattente avrà modo di mettersi in evidenza ancora una volta al IV Congresso della CGIL (Roma, 27 febbraio – 4 marzo 1956). La corrente anarchica di Difesa Sindacale interviene in questa occasione con un proprio articolato documento. In esso si affermano alcune essenziali linee di principio: che la ‘distensione’ di cui si parla ad ogni piè sospinto deve essere ricondotta nell’analisi della dimensione economica nel quadro internazionale; che le formule “apertura a sinistra” e “interesse nazionale”, inserite nelle istanze rivendicative, spostano di fatto l’azione sindacale verso interessi e categorie politiche partitiche; che occorre, causa il vigente ordine economico monopolistico, contrastare ogni indirizzo produttivistico della Confederazione; che sono maturi i tempi per lanciare la battaglia delle 36 ore settimanali per tutti; per le libertà sindacali negate nei posti di lavoro; per una maggiore democrazia nella CGIL, contro ogni tendenza al controllo politico e per il rispetto dell’art. 8 dello statuto confederale che vieta l’intromissione dei partiti....
Con grande energia l’anarchico romagnolo, il dirigente dei minatori, l’ottantenne Sassi denuncia quelli che ritiene essere gli errori più gravi commessi dall’organizzazione, nell’accettazione della scala mobile (“miseria stabile”), del regolamento per le commissioni interne, nell’impostare le lotte “con un minimo di sacrificio, con la speranza vana di un massimo risultato”. Sulle nazionalizzazioni, un tema che ormai pare acquisito in tutta la sinistra sindacale e politica, e sulle nuove funzioni confederali prospettate, da “sindacato del controllo”, avanza serie riserve.
- “[...] Voi dite che siete sempre per la lotta di classe, ma coi vostri apprezzamenti la lotta di classe è fatta di Ma e di Se. Che cosa si pretende dal governo quando si parla di controllo dei monopoli? Impegni e garanzie giuridiche? Quando il governo ha bisogno di mezzi ricorre al monopolio industriale e finanziario e quando mette le materie prime del sottosuolo a loro disposizione è il governo stesso che crea, alimenta e protegge i monopoli. I monopoli hanno ridotto le officine a caserme. I carabinieri non vanno a cercare i delinquenti, vanno alla ricerca dei cittadini onesti per il solo fatto che reclamano e vanno anche nelle case ad impressionare i familiari, a turbare quel briciolo di quiete nelle famiglie. Voi parlate di nazionalizzazione. Anzitutto nazionalizzazione è una parola impropria; si dovrebbe dire statalizzazione. Poi lo Stato sarebbe il peggiore dei padroni e farebbe dirigere le industrie statizzate da politici incompetenti e non da capaci tecnici [...]”.
E conclude:
- “[...] I lavoratori hanno tradizioni di lotta e di sacrificio e non si deve, come fanno i generali, attribuire agli eserciti le perdite provocate dagli ufficiali. Quando si parla di ripresa ci sono dei dirigenti che affermano che la classe operaia non risponde. Date delle indicazioni e abbiate delle iniziative ben preparate e vedrete che il proletariato darà una buona lezione a tutti i temporeggiatori”.
La lotta delle miniere ha forgiato anche dirigenti sindacali di prim’ordine, non solo è stata serbatoio di reclutamento per quadri politici. Miti come quello di Attilio Sassi, saranno davvero destinati a durare nel tempo, a costituire un vero esempio di autonomia critica e di indipendenza. Contro le “illusioni parlamentari” di un sindacato che ha privilegiato in certi frangenti il terreno istituzionale a scapito dell’iniziativa di classe. |