Si dice, e io concordo, che i periodi o le fasi di combattività sociale e/o sindacale di basso profilo siano propizi, per chi opera e milita in campo rivoluzionario, per una seria riflessione critica sulle forme del conflitto che comunque si danno, sull’apparato concettuale e teorico di cui disponiamo, sulla nostra prassi militante e, infine, sulle forme organizzative di cui ci avvaliamo. Non dunque uno sterile esercizio di saperi e di alchimie verbali, ma una riflessione cosciente e matura, capace di fare i conti anche con i nostri percorsi individuali.
Fatta questa premessa, forse superflua, mi vorrei cimentare con alcune tematiche sottese a due articoli, apparsi sui numeri precedenti di “A”. Mi riferisco a Cosimo Scarinzi (Fuoco e fiamme, “A” 348) e a Maria Matteo (Lavoro senza rete, “A” 349).
Al di là dei punti di partenza e dell’ambito delle riflessioni, mi pare che entrambi gli articoli esprimano da un lato la preoccupazione per il degrado della coscienza politica della working class in tutti i suoi settori, dall’altro, più o meno esplicitamente, il senso di inadeguatezza delle attuali strutture sindacali di base nei confronti dei “nuovi soggetti” che popolano o gravitano intorno al mondo del lavoro (precari, immigrati). Non saprei che altro dire sul primo punto, è, purtroppo, un dato di fatto. Concordo anche pienamente sull’inadeguatezza, anche se il fenomeno non ha nulla di misterioso.
Il variegato mondo del sindacalismo alternativo non è nato né ieri, né l’altro ieri. Diciamo che le sue prime espressioni organizzative hanno ormai ben più di venti anni. Percorsi molto diversi e origini altrettanto diverse: pensiamo solo ai primi Cobas Scuola, allo Slai, a RdB, alla Flmu per finire al vecchio Comu. Però, al di là delle vicissitudini presenti e passate, alle varie scissioni e/o ricomposizioni, un tratto comune l’hanno sempre avuto, ovvero l’essere baricentrate sul lavoratore tradizionale, quello a tempo indeterminato con un certo livello di garanzie, ancora fruitore di un discreto livello di Welfare. Le forme organizzative sindacali alternative si sono perciò modellate, di conseguenza e senza grandi rotture di continuità, con il sindacalismo confederale, concertativo o di Stato che dir si voglia. Diritti del lavoratore, diritti sindacali, struttura del salario, modelli di contrattazione, forme di rappresentanza, pensioni, trattamento di malattia, ecc., ecc., (cito alla rinfusa), tutto ciò è stato assunto come un quadro di riferimento immutabile ereditato dalle battaglie e dalle vittorie degli anni ’70. Un sistema di garanzie e di diritti da difendere a oltranza, una sorta di Piave su cui attestarsi.
La struttura del sindacato
Poca attenzione si è dedicata al fatto come la composizione della working class sia profondamente mutata e stia tuttora mutando, che il lavoratore IG (italiano e garantito) non sia più la figura dominante nel mondo del lavoro. È vero che il sindacalismo di base negli anni ha dedicato crescente attenzione ai “nuovi soggetti”, ma l’ha fatto come un compitino supplementare assegnato, con diligenza, ma senza la necessaria comprensione dell’argomento.
Paradigmatica in questo senso è stata la lotta degli addetti agli LSU (Lavori Socialmente Utili) qualche anno fa, organizzata (con impegno e un discreto successo, va riconosciuto) da RdB. Ebbene la mobilitazione e la lotta sono state condotte sì nelle specificità rivendicative di questi lavoratori, ma come fossero un corpo separato e, soprattutto nell’indifferenza (in qualche caso l’ostilità) dei lavoratori IG, anche di quelli iscritti a RdB. E qualche responsabilità in ciò la avuta anche l’organizzazione sindacale.
Si tratta, in definitiva, di un quadro concettuale (quello della separatezza fra IG e non-IG) che si nutre non solo di cause psicologiche, ma che trae alimento dalla struttura stessa del sindacato, dal suo modello formale, abituato a compartimentare i lavoratori in categorie piuttosto che a esaltarne l’appartenenza ad una stessa classe, sia pur dai connotati da ridefinire.
Non si può non rilevare la congruenza di questo problema (mutatis mutandis) con il dibattito che attraversò il sindacalismo americano negli anni precedenti la prima guerra mondiale e segnatamente la sua avanguardia rivoluzionaria: gli IWW. Si discuteva allora della struttura del sindacato, del rapporto fra lavoratori skilled (lavoratori specializzati) e unskilled (non specializzati e quindi manovalanza con altissima mobilità) e della contrapposizione fra le sezioni dell’Est industriale plasmate sul sindacalismo di fabbrica e sulle rivendicazioni dei primi e le mixed-sections dell’Ovest costruite su base territoriale e quindi propense ad accogliere e a considerare sullo stesso piano skilled e unskilled.
Certo, qualcuno sorriderà con aria di sufficienza di fronte a questo accostamento e farà rilevare che quel contesto (gli USA del primo novecento in pieno take-off capitalistico) poco ha a che spartire col capitalismo maturo nel quale viviamo e contro il quale lottiamo. Facciamo solo rilevare che se ciò è vero è altrettanto vero che molti compagni, acuti critici del capitalismo e delle sue fasi, accettano con naturalezza le sue profonde trasformazioni variamente connotate (post-fordismo, globalizzazione, finanziarizzazione dell’economia, turbocapitalismo, ecc.), i relativi salti di paradigma necessari alla loro piena comprensione e che sono dispostissimi sul piano politico a recitare requiem sulla morte della forma-partito novecentesca o comunque delle forme di organizzazione rivoluzionaria coeve, risultano stranamente impacciati nel fare i conti (teorici, ma anche e soprattutto pratici) con l’inadeguatezza di un modello sindacale che è (in tutte le sue varianti, comprese quelle più radicali) sostanzialmente immutato da oltre un secolo. Se è vero che “fare sindacato” è esercizio di realismo, di mediazione nella vendita forza-lavoro alle migliori condizioni, ci si dovrebbe comunque interrogare su che tipo di “realismo” si pratica quando si incentrano piattaforme rivendicative generali quasi esclusivamente su: la difesa e l’aumento del salario fisso quando questo è stato quasi smantellato e per molti non esiste; la difesa e l’aumento delle pensioni in un mondo dove ad andare in pensione saranno sempre meno; la difesa dei diritti sindacali e della contrattazione quando il rapporto di lavoro è sempre più individuale e parcellizzato; e via discorrendo. Potremmo dire, con facile battuta, un realismo molto “realistico” perché si applica alla fascia dei lavoratori in grado di pagare regolarmente quote sindacali non trascurabili...
Abbandonare
il “fabbrichismo”
Ma, al di là della provocazione, qual è il senso di questa pressante riaffermazione e richiesta di ripristino di “diritti dei lavoratori” che se raggiunta riguarderebbe solo una parte della working class? Forse non sono gli attuali “diritti dei lavoratori” la codificazione di rapporti di forza raggiunti dopo le grandi battaglie unitarie che una working class molto più omogenea di oggi, condusse negli anni ’70? Forse non è vero che questi “diritti” per i non-IG sono: 1) inapplicabili alle loro condizioni di lavoro; 2) culturalmente estranei? C’è dunque, e infine, un modello acquisito di sindacato che è valido sempre e a prescindere dalle condizioni oggettive e dalle trasformazioni politico-sociali (e antropologiche) della classe alla quale si rivolge?
Domande semplici, risposte forse difficili. Comunque la modesta opinione di chi scrive è che sia molto più velleitario (e dannoso) continuare ad alimentare (e a praticare) la concezione di un sindacato “fabbrichista”, categorializzato, piramidale e quindi passabilmente verticista, che iniziare a ripensare ad un’organizzazione economica dei lavoratori in grado di accogliere con pari dignità le aspirazioni e le rivendicazioni di tutti i segmenti della working class e di sintetizzarle in una progettualità di completa emancipazione sociale. Una battaglia disperata contro i particolarismi, i settorialismi e la mancanza di coscienza? Può darsi, ma almeno una battaglia e non una lunga agonia contro il disastro che avanza. Un improponibile ritorno a una mitica âge d’or del movimento operaio? Sempre meglio che un improbabile ritorno a l’âge du vil argent che stiamo abbandonando.