Il mondo sembra sempre più distante dagli ideali anarchici. Specularmente, la visone anarchica di come dovrebbero evolversi gli assetti sociali, in questa fase del divenire storico, appare molto lontana dal poter diventare qualcosa che possa interessare concretamente un’evoluzione possibile. Il mondo si sta rotolando su se stesso, sulle sue involuzioni, le sue contraddizioni, le assurdità di cui è allo stesso tempo causa e vittima. Ciò che aleggia sulle genti, sul bio/contesto, sull’ordine omeotelico (1) naturale che garantisce il mantenimento degli equilibri complessi, sono una progressiva disgregazione e un aumento continuo del tasso di precarietà esistenziale che stanno favorendo spinte distruttive e antisociali.
Non mi sembra più sufficiente scaricare tutta la colpa esclusivamente sull’azione devastante dei poteri dominanti, proponendo una visione manichea che vorrebbe semplicemente criminalizzarli assolvendo i senza potere. Il guazzabuglio della degenerazione in atto è talmente intricato e complesso che ogni tentativo di racchiuderlo in un’astratta dicotomia che identifica il bene da una parte e il male dall’altra non può che apparire risibile e ridicolo. Per tendere a vivere in libertà ci vorrebbe uno spirito comunitario volto a volere la libertà. Non sembra proprio che questo spirito sia diffuso. Anzi! La predisposizione a cambiare le cose in senso libertario appare molto lontana, mentre l’antica intuizione di De La Boétie, “la servitù volontaria”, sembra farla da padrona.
Parodia della democrazia
L’incremento costante di una cultura xenofoba, a tratti razzista, il permanere, addirittura l’aumento, di un consenso generalizzato a culture e pratiche politiche di destra, la difficoltà ad essere accolti per messaggi e pratiche solidali e di accoglienza, sono tutti segnali inequivocabili di una regressione culturale che avanza verso logiche e tensioni legate all’accreditamento di una cultura invasiva del dominio. Quando ci sono opposizioni o ribellioni, e ce ne sono tante (molto probabilmente destinate ad aumentare dato l’andazzo), sono quasi tutte invariabilmente segnate dal rifiuto di arretrare o dal bisogno di cambiare condizioni di vita sempre più inaccettabili. Mancano segnali di volontà di emancipazione. La sostanza del presente non appare in discussione. Ciò che viene contestato sono le condizioni contingenti di disagio, senza però il suffragio di una prospettiva desiderante una vera e sostanziosa alternativa di sistema.
Già questa consapevolezza dovrebbe indurre a capire che perde ogni senso qualsiasi richiamo “alle armi” per abbattere il nemico che impedirebbe la liberazione. Il presunto nemico non può impedire ciò che non viene richiesto, o che addirittura non si vuole. Sono sempre più convinto che oggi il problema vero di ciò che resta dell’anarchismo sia proprio questo: nella grande generalità le genti non aspirano a liberarsi fino in fondo dalle catene in cui si trovano imbrigliate. Aspirano senza dubbio a stare meglio di come stanno, però dal punto di vista delle condizioni materiali che sono costrette a subire, non sul piano di un cambiamento radicale del senso e del modo di vivere. Quando qualcuno trova la maniera di migliorare le proprie condizioni di vita, se non quei pochissimi motivati da raffinate propensioni culturali che offrono uno sguardo ad ampio raggio, si considera soddisfatto e non gl’interessa più opporsi e protestare. Nella massima parte dei casi i potenti sono contestati, fino ad essere odiati, solo perché possiedono ciò che i più non hanno, mentre i più aspirerebbero al benessere materiale dei potenti che aborrono.
Senza una tensione e una propensione ideali, proiettate verso utopie desideranti, è molto difficile parlare di anarchia, tanto meno provare a proporla. Ciò che normalmente le persone vogliono risolvere sono i problemi immediati e non interessa una futuribile società diversa, nient’affatto a portata di mano da costruire insieme. Questa parodia della democrazia che ci stiamo godendo è riuscita a infondere talmente bene uno spirito diffuso di delega che la principale richiesta di massa che aleggia è di essere governati bene. Tutto il problema politico di cui continuamente si discute è come governare e soprattutto chi deve farlo. Non è minimamente in discussione la possibilità della esistenza di una situazione condivisa in cui nessuno abbia il potere di governare, in cui le decisioni comuni verrebbero prese collettivamente attraverso strumenti di partecipazione diretta. Si contesta chi governa e chi manipola capitali perché agisce per il proprio personale interesse, ma non è in discussione il fatto che ci debba essere chi ha il potere sia di governare sia di manipolare capitali.
Una società fondata sull’assenza di poteri centrali e di gerarchie che comandano non fa parte del dibattito politico. Non è nelle proiezioni immaginarie della stragrande maggioranza degli individui, i quali invece sono portati a desiderare di vivere un gradino più sopra di quello cui sono costretti o a sognare di entrare a far parte dell’elite che vive nel lusso sfrenato. Come si può sperare di agire e lottare per una società alternativa, che aspiri ad essere emancipata dalla subordinazione politica e sociale e dallo sfruttamento economico, finché avrà prevalenza egemone una tale propensione immaginaria? Come può sperare l’anarchismo di diventare un faro di luce che illumina la strada per procedere verso un domani luminoso, veramente libero e sorretto dalla solidarietà universale?
Inesauribile bisogno di giustizia
Se vogliamo essere realisti e renderci conto in pieno dello status di cui godiamo, non possiamo che accettare la realtà della nostra esigua contingente condizione politica: noi anarchici viviamo in un luogo criptico, sia di fatto sia dal punto di vista simbolico, con ben poche speranze di riemergere. In questa fase, che nessuno è in grado di prevedere quanto durerà, siamo esclusi dalle possibilità accreditate di poter incidere in modo significativo ai fini di un cambiamento radicale. Dobbiamo anche accettare la consapevolezza che all’origine di questa condizione di emarginazione, che ha tutta l’apparenza di essere diventata endemica, non ci sta soltanto l’azione malefica, reazionaria e conservatrice dei poteri e delle oligarchie dominanti. Una buona dose di responsabilità ce l’abbiamo noi stessi. Da troppo tempo non riusciamo a rinnovare le proposte del tipo di società che vorremmo, continuando in una maniera o nell’altra a rimanere ancorati a strategie di lotta e a proposizioni ormai obsolete, vecchie almeno un secolo e mezzo. A differenza di noi il mondo è cambiato e continua a cambiare, incurante dei problemi che ci affliggono.
Eppure l’anarchismo è sorto per esigenze che non sono affatto esaurite. Anzi! È nato spinto da un inesauribile bisogno di giustizia ed eguaglianza sociali, tuttora lontane più che mai, spingendo fino alle radici la sua critica al sistema di dominio vigente, cercando al contempo di proiettare un immaginario utopico da proporre come alternativa radicale. Ciò per cui è sorto è la determinazione di agire e pensare al fine di costruire assetti sociali radicalmente alternativi, che ripudiano sistemi di potere atti a comandare opprimere e sfruttare, capaci di realizzare un’effettiva situazione di libertà, uguaglianza e solidarietà, identificando il nesso per le sue auspicate realizzazioni in una gestione politica non autoritaria, paritaria e antigerarchica e in forme di economia collettiva solidale. Questo è l’anarchismo fin dalle sue origini e questo è il senso denotativo per cui dovrebbe lottare e sperimentare come realizzarsi concretamente.
Fin dall’inizio, quando cominciò ad operare come movimento di lotta al sistema, l’anarchismo nel suo complesso, tenendo anche conto della pluralità di visioni e ipotesi differenziate che lo ha sempre caratterizzato, ipotizzò una strategia di sostanza abbastanza semplice da definire nelle sue linee di fondo. La società dev’essere liberata dalle catene dello stato e di qualunque altro potere centralizzato che le impediscono di organizzarsi liberamente e autonomamente. Lo stato sul piano politico e il capitalismo su quello economico sono i mostri oppressori da combattere senza tregua e da abbattere definitivamente. La rivoluzione insurrezionale fu subito identificata come il mezzo fondamentale per portare a compimento il progetto di liberazione generale. Per decenni, in varie maniere, tutte le energie spese dagli anarchici sono state legate a questa prospettiva di massima, la cui sostanza è l’abbattimento degli impedimenti, lo stato e i padroni del capitale, per permettere alla società di organizzarsi spontaneamente in modo libero e autonomo.
Purtroppo col succedere degli eventi la situazione si è dimostrata molto più complicata e intricata di quanto questa semplificazione ideologica aveva supposto, fino a farla diventare lontanissima dalla realtà, al punto che non è errato definirla ormai astratta. Di rivoluzioni e insurrezioni nel frattempo ce ne sono state a sufficienza per poter affermare, sorretti dalla dimostrazione dei fatti, che non possono più rappresentare l’elemento di riferimento fondante per un agire che voglia essere funzionale ai nostri ideali. O sono state sconfitte, permettendo al dominio di riuscire a restaurare il proprio nefando potere, o quelle che hanno vinto hanno generato altri poteri che nulla avevano da invidiare a quelli abbattuti. Le rivoluzioni insurrezionali finora sperimentate, invece di essere la via per la liberazione libertaria, com’era nell’illusione dei compagni che ci hanno preceduto, si sono dimostrate o mezzo di restaurazione o mezzo per instaurare nuove terrificanti dittature.
I motivi di fondo per cui la rivoluzione insurrezionale si è dimostrata del tutto inadeguata come mezzo per la liberazione anarchica sono sostanzialmente due. Primo perché affida soprattutto allo scontro, quindi alla logica di guerra, gli strumenti di azione per i suoi scopi, mettendo in secondo piano ogni altro mezzo. La logica di guerra, si sa, implicitamente accetta che ha ragione chi vince e si dimostra il più forte sul campo, di conseguenza i vincitori sono condotti ad imporsi sui vinti coi mezzi che ritengono più opportuni. Secondo perché sottovaluta, fino a non tenerne conto, l’elemento che personalmente ritengo più decisivo per mettere in atto un’alternativa riconducibile all’anarchia: la costruzione di un immaginario di libertà e la diffusione di una coscienza collettiva che voglia effettivamente la libertà.
Una prospettiva nuova
Fortunatamente tra gli anarchici oggi è in aumento la diffusione del disincanto rispetto al mito insurrezionale e rivoluzionario che dovrebbe abbattere lo stato. Ma ho l’impressione che questo disincanto ci sia semplicemente perché ci si rende conto della sua impraticabilità contingente. Moltissimi compagni, pur non credendo nell’immediato alla sensatezza di determinare lo scontro finale coi poteri costituiti, restano però ancora avvolti da quell’immaginario di lotta originario. Lo dice il fatto che si muovono in una prospettiva essenzialmente oppositiva, cioè agiscono soprattutto spinti dal bisogno di rifiutare il presente, senza curare l’aspetto della costruzione dell’alternativa e dell’immaginario che porta a desiderarla.
Una prospettiva nuova, in sintonia coi tempi, dovrebbe abbandonare ogni velleità di strategia di guerra, per muoversi, attraverso il pensiero che produce e le pratiche con cui si misura, con l’intento di diffondere una cultura libertaria. Dovrebbe tendere a espandere nella collettività il senso di società in cui crede e concentrarsi sulla qualità del tipo di proposta che sostiene. La visione strategica non dovrebbe più essere concentrata su come abbattere i poteri vigenti, ma su come costruire assetti sociali radicalmente alternativi, su come riuscire a praticare forme di autogestione sociale, in modo che non si sia più governati da elite di comando, i cui interessi sono di estorcere consenso per imporsi, né si continui ad essere oppressi dall’enorme potere di oligarchie finanziarie, il cui scopo è d’impoverire fino allo stremo le masse escluse per ingrassare sempre di più. Ricerca, sperimentazione, pratiche e proposte di autogestione egualitaria, praticabilità di una politica di libertà governando insieme tutti attraverso liberi accordi senza gerarchie al comando.
Dobbiamo preoccuparci di dimostrare che è possibile, ma soprattutto che è auspicabile, perché ci farebbe star meglio di come stiamo ora. Se non riusciremo a far accettare questo messaggio desiderante, tanto meno riusciremo a convincere che bisogna sacrificarsi per abbattere il potere.