L’Orto dei Tu’rat è un progetto pilota che si pone tra i suoi obiettivi quello di realizzare un ecosistema autosostenibile. Tale ecosistema ruota intorno alla costruzione di strutture arcaiche in pietra a secco a forma di mezza luna di cui abbiamo utilizzato il nome arabo “Tu’rat”, strutture che hanno la funzione di captare e riutilizzare l’umidità contenuta nei venti in modo da consentire l’irrigazione di un orto botanico senza apporto meccanico di acqua.
Si tratta di un progetto che nel suo piccolo vuole dare un contributo al dibattito sui temi della desertificazione del pianeta ed è, in sé e per sé, un manifesto a cielo aperto contro l’ingerenza degli interessi privati nella gestione del bene acqua che riteniamo un bene non privatizzabile in quanto diritto umano universale.
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Fasi preliminari |
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Gli operai |
Il volto della campagna
Per spiegare più approfonditamente la natura del progetto potrei partire dalla descrizione tecnica delle strutture Tu’rat ma preferisco partire invece da un poeta salentino che visse e si formò a Bologna negli anni settanta, gli anni della contestazione più viva. Si tratta di Antonio Verri, un poeta incredibilmente ancora escluso dalle antologie dei poeti nazionali, che tornò in Salento per fare i suoi “fogli di poesia” (“fate fogli di poesia, poeti, insultate il damerino, l’accademico borioso”) tornò per questo e per riallacciare un dialogo con la sua terra che un incidente stradale interruppe nel 1992.
È lui che guardando il paesaggio salentino scrive: “Continua il dialogo con la terra, con una realtà di volta in volta essenziale, lineare, un po’ amara, un po’ magica ... Molte le cose che da simile cultura (magra, fatata) ho avuto, cose che hanno fatto la mia vita...(…) poveri oggetti (stilizzati, essenziali, ma solidi), situazioni le più umili”.
Credo che nella sua poetica si possano riconoscere tutti coloro che vivono il legame con il territorio come un dialogo perennemente aperto, come un tentativo costante di confronto e di scambio da contrapporsi al modello di cittadinanza oggi imperante che è fatto di passiva rassegnazione a una realtà politica e sociale data e immodificabile.
Scrive Antonio Verri: “Cambia, cambierà di molto il volto della campagna, degli aggregati umani, di interi paesi: è cambiato dal dopoguerra ad oggi, cambierà ancora tra due, tre generazioni. E cambieranno naturalmente anche abitudini, modi di lavoro, rapporti…, ecco, quello che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi, con accanto sentinelle silenziose gli alberi d’argento”.
È proprio per mantenere vivo questo dialogo con la terra che abbiamo dato vita all’ Orto dei Tu’rat, un dialogo fatto di pietre, di pietre che parlano al vento, di vento che rilascia acqua grazie all’antica arte dei muretti a secco, consentendo alle piante di crescere in terreno arido.
È un dialogo che Mino Specolizzi, fondatore dell’Associazione Orto dei Tu’rat, ha avviato sottovoce, riflettendo in un primo tempo da Bologna sulla prospettiva della campagna arida che avrebbe trovato scendendo d’estate in quella che per lui è la casa d’origine. Quella campagna che fino agli anni ottanta suo padre aveva coltivato a ulivo e a vigna e dove oggi non si vede altro che il secco avanzare inesorabile come una canzone: “Malinonicu canto, allegro mai. E cacciala fore sta malincunia…” Un avanzare di desertificazione che, agli occhi distratti di tanti, potrebbe sembrare circoscritto a un contesto locale, ma che si inserisce invece in una nostra profonda convinzione. La convinzione che ogni storia locale, quando tocca l’ambiente, riguarda inevitabilmente tutti noi. Che il pozzo del contadino salentino, che di colpo pompa acqua salata non è un problema esclusivo di quel contadino. Lui sta lì, con la sua incredulità ma come la può “cacciare fore la malincunia”? È la malinconia di un’intera epoca di trascuratezza.
Allora noi ci abbiamo ragionato sopra fino a che non abbiamo deciso di “cacciarla fore” dando vita ad un progetto. Piccolo, eppure al tempo stesso ambizioso per il ricorso all’alfabeto arcaico della terra che prova a rimettere in uso e per il significato più ampio che intende rivestire.
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La scelta del materiale |
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La struttura prende forma... |
L’acqua potabile scarseggia
Mi spiego. È convinzione di tutti i componenti dell’Associazione Orto dei Tu’rat che sul tema dell’acqua si giochi oggi il futuro dell’umanità.
L’acqua potabile scarseggia in modo sempre più allarmante tanto è vero che, a guardare gli ultimi dati in materia, un miliardo e duecento milioni di persone, più di un abitante su cinque della Terra, non ne ha a disposizione la quantità sufficiente per vivere. Ne consegue che per malattie connesse alla mancanza d’acqua muoiono circa 3 milioni e mezzo di persone all’anno, soprattutto bambini.
Questo dato, imputabile in parte ai cambiamenti climatici, agli sprechi, all’inquinamento che contamina le falde, sarebbe modificabile grazie a una seria politica ambientale e di redistribuzione mondiale della risorsa idrica.
Il fatto che ciò non accada è ovvia responsabilità dei governi nazionali i quali, invece di prodigarsi in strategie di limitazione degli sprechi e di pianificazione redistributiva, si stanno orientando verso una politica che specula sulla scarsità di questa risorsa, trasformandola in un mero bene di mercato nelle mani delle multinazionali.
Tale politica economica il cui unico fine è l’accumulazione di grandi capitali finanziari è per sua propensione riluttante a interessarsi del dato umano, la sua natura astratta ed autoriferita gli impedisce di curarsi del fatto che andando avanti di questo passo, nel 2020, più di tre miliardi di persone rimarranno senza possibilità di bere con di tutte le catastrofiche conseguenze per la vita che possiamo immaginare.
A conferma di quello che sto dicendo, basta considerare che a tutt’oggi siano caduti nel vuoto tutti gli appelli messi in atto dai Movimenti Water Justice, i movimenti per l’acqua nati in ogni parte del mondo, da Cochabamba a Plachimada, Hasankeyf e Namada Valley, e da tutte le realtà che hanno creato quel bellissimo documento che è “Il Contratto mondiale dell’acqua” attraverso il quale si chiede l’attuazione di strategie integrate in grado di assicurare nel giro di un decennio l’accesso di tutta l’umanità all’acqua potabile.
Ma a chi lo si chiede? Che razza di interlocutori poco umani sono quelli che occupano i ruoli deputati alle risposte? E d’altra parte qualcuno di noi si è forse stupito del fatto che i Governi partecipanti alla Conferenza di Copenhagen sul Clima (7-18 dicembre 2009) non avessero messo il tema dell’acqua all’ordine del giorno dei lavori? E perché avremmo dovuto stupirci?
Sappiamo benissimo che i governi sono disposti a operare scelte di politica ambientale solo se intravedono la prospettiva di un tornaconto economico, così come sappiamo che nelle società a capitalismo avanzato l’unico intervento che la classe dirigente può ritenere praticabile intorno all’acqua è quello di privatizzarla per immetterla nel mercato con tutto il suo carico di competitività , secondo i dettami cialtroni di un “fasullo” libero mercato.
Alla luce di questo va da sé che l’Italia, con la sua classe politica riverente agli interessi delle superpotenze e delle grandi lobby di interesse privato, abbia varato un decreto che apre anche da noi le porte a tale processo di privatizzazione selvaggia dell’acqua.
Volendo poi avvicinare il campo di osservazione a quello che succede nella società civile, colpisce notare come un numero esorbitante di italiani, noncuranti dei problemi mortali relativi alla carenza d’acqua nel resto del mondo, siano però ben addestrati ad una sfiducia cronica verso la nostra rete di acquedotti nazionali. La cosa curiosa è che, invece di scendere in piazza per manifestare e pretendere che i soldi pubblici vengano destinati al risanamento della rete idrica (e non a opere di facciata come le Tav o i ponti allucinanti sugli stretti) noi italiani ci rassegniamo a questo stato di cose e ci asserviamo a contribuire in modo determinante ad alimentare un giro d’affari di 2500 miliardi di euro l’anno, tanti quanti girano intorno all’imbottigliamento dell’acqua minerale.
Siamo infatti tra i primi consumatori al mondo di acqua minerale con 160 litri a testa: l’acqua da bere per noi deve essere rigorosamente in bottiglia e un italiano su due beve solo acqua minerale.
Come mi faceva notare un amico, la nostra sconfitta prima a ancora che economica è culturale. La grande vittoria del secolo scorso fu l’acqua nelle case. Oggi abbiamo accettato di ritornare indietro e vaghiamo per la città con i nostri carrelli stracolmi di bottiglie d’acqua pagate a caro prezzo. Ce le carichiamo sulle spalle e ci spacchiamo la schiena per genufletterci ai dettami delle multinazionali dell’acqua che ci invitano a restare giovani bevendo solo certe marche spacciate per acque di lunga vita.
È un problema tremendamente serio, che dimostra come manchi una cultura dell’acqua, acqua come bene comune, come patrimonio dell’umanità da salvaguardare e risparmiare e depurare perché da lei dipenderà nei prossimi anni lo sviluppo sociale ed economico dei popoli.
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Un momento di riposo |
Un contatore per il vento?
È facendo queste amare considerazioni che, partendo da un’idea di Mino Specolizzi e dai suoi studi sulle teorie di Pietro Laureano, un gruppo misto di salentini e bolognesi, ha deciso di guardare negli occhi la questione e di reagire tirando fuori le proprie risorse creative, grazie alle quali si è scesi in Salento, in una zona a tre chilometri dal mare, per avviare questo progetto.
Come alcuni forse già sanno, il Salento è una delle regioni d’Italia a maggior rischio di desertificazione. Non ha fiumi, e le falde sono ormai prevalentemente salinizzate.
È una terra che, a ben guardare, potrebbe rappresentare l’ avanguardia della catastrofe, ma che al tempo stesso ci offre l’occasione per tentare soluzioni, sperimentando percorsi di risanamento ambientale.
Così abbiamo dato vita a un sistema di captazione dell’acqua secondo una tecnica che abbiamo mutuato dal deserto del Negev, un sistema che sfrutta l’acqua contenuta nei venti, venti a cui facciamo trovare barriere di pietra a secco contro cui sbattere rilasciando molecole di acqua che per percolamento scendono a terra sotto forma di rugiada.
Questa acqua, capace di irrigare e nutrire la terra, ha per noi un significato politico straordinario perché è per sua natura un acqua non privatizzabile. Almeno fintanto che non decideranno di mettere un contatore per farci pagare il vento.
E questa impossibilità di installare contatori è per noi la rivendicazione di un’economia “della vita”, un’economia che è in contrapposizione a quella svilente e imperante della produzione e dell’accumulo di profitto. Un economia che partendo dal rispetto dell’acqua mette al primo posto il valore dell’ambiente e della vita di tutti senza distinzioni.
È purtroppo invece una nostra frequente esperienza sentire le persone, pur affascinate dall’Orto dei Tu’rat, rivolgerci questa domanda: Ma avete fatto tutto questo per avere quale tornaconto?
È una domanda che imbarazza perché presuppone una risposta di cifre e plusvalore che noi, per il nostro modo di concepire il progetto, non siamo proprio in grado di formulare.
Basti considerare che tutt’ora il progetto non ha usufruito di nessun finanziamento pubblico e tutto quello che al suo interno è stato realizzato è frutto di assoluta autotassazione. Il tornaconto, se ci sarà, sarà quello di vedere le piante dell’orto botanico che intendiamo impiantare crescere rigogliose, sarà quello di vedere le persone avvicinarsi incuriosite alla nostra sperimentazione e motivarsi, ciascuna a suo modo, a dare un proprio personale contributo.
Spero che i lettori di “A” abbiano occasione prima o poi di venire di persona a visitare l’Orto e in quell’occasione sono sicura che avranno modo di verificare come, essendo le Tu’rat in assoluta sintonia con il paesaggio e l’atmosfera ambientale, lo scenario che se ne ricava sia di una bellezza disarmante.
Entrando nell’Orto ci si trova infatti di fronte a dodici mezze lune di pietra a secco immense, costruite con pietra di Alessano, e la prima cosa che a tutti viene spontanea è il silenzio. L’idea immediata di un vivere con lentezza, la suggestione di una natura impalpabile che respira e si mostra senza alcuna vanità.
Vi ricordate quel brano di Fossati?
Ci si inginocchia su questo sagrato immenso, dell’altopiano barocco d’oriente, per orizzonte stelle basse.
È la stessa suggestione che può cogliere di fronte a certe imponenti costruzioni arcaiche di cui neanche capiamo la funzione e che arrivano tramandate a noi dal mistero dell’antichità.
Faccio ricorso ancora una volta alle parole di Antonio Verri, il quale, come tutti i veri poeti, fu anticipatore dell’oggi al punto che, in una sua poesia, fece parlare una misteriosa mezzaluna : “Apre la mezzaluna un suo discorso: (…) credo fermamente nei mille rapporti con tutte le culture possibili , credo nei voli, amo le mongolfiere”
E infatti le nostre mezzelune amano le mongolfiere perché si può arrivare a dire che le Tu’rat sono a tutti gli effetti un volo, nel senso che pur essendo così pesantemente ancorate alla terra sono il tentativo di coniugare la politica e la creatività. Il tentativo di rendere possibile l’impossibile, di volare sopra l’ipocrisia imperante per dire che l’acqua è un diritto di tutti e che nel nostro orto, come dovrebbe essere in tutto il resto del mondo, noi l’acqua non la paghiamo. Almeno fintanto che le istituzioni non decideranno di quotare il vento.
È per sottolineare questo che abbiamo deciso di organizzare all’interno del’Orto una serie di eventi culturali che consentano alle mezzelune di avere una visibilità e al tempo stesso di mettere le persone nella condizione di poterci aiutare a portare avanti l’idea.
Idea che poi, nella sua forma poetica è quella di poter riuscire a spremere acqua dalla pietra. Azione poetica, questa, che caccia le unghie nella carne della terra per dire che anche nel 2010 noi vogliamo fare una poesia di lotta, una poesia di pietra che sia testimonianza di qualcosa. Per questo siamo aperti alla possibilità di creare uno scambio privilegiato con gli artisti e i movimenti che si occupano delle tematiche dell’ambiente e dell’acqua. L’Orto dei Tu’rat sarà così un luogo in cui le idee e le esperienze si possono scambiare.