società
Contro la velocità
di Gabriele Guccione
Quanti conoscono il pensiero dell’economista austriaco Leopold Kohr? Eppure le sue analisi sociali, in particolare della negatività del mito della velocità e del suo impatto sulla nostra vita quotidiana, sono di grande attualità. Nelle metropoli come in Val Susa.
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Si fa un gran parlare di alta velocità, soprattutto dopo che la questione – complice la tornata di elezioni regionali – è tornata alla ribalta in Val di Susa. Addirittura si inventano, da un giorno all’altro, «movimenti» a favore della ferrovia ad alta velocità. In contrapposizione ai No Tav che da anni lottano per difendere il proprio territorio, lo hanno chiamato «Si Tav», senza accento, ché a loro l’ortografia gli fa un baffo.
A mancare però non sono solo gli accenti (che pure sarebbero importanti, dato che ormai gli slogan sembrano gli unici strumenti di riflessione politica e sociale) quanto piuttosto una valutazione profonda, nel merito, sulla «velocità». La velocità sembrerebbe cosa naturale – quantomeno necessaria – e infatti il problema non sembra porsi. Tanto che ogni discorso sulle «prospettive di sviluppo», comprese le analisi più o meno sensate sull’opportunità economico-finanziaria di realizzare oppure no la Tav, è intriso di luoghi comuni dati per scontati, per definizione insindacabili perché propri della «maggioranza».
Può sembrare un problema filosofico, e forse lo è, ma si sente forte la mancanza di un’analisi delle categorie che diamo per scontate (in questo caso la «velocità»). Un grande economista austriaco Leopold Kohr (1909-1994), nei suoi studi sullo sviluppo urbano di Portorico (isola nella quale si trovò a insegnare dal 1955 al 1973, dopo la fuga dall’Austria nazista), definì la velocità la «più profonda causa della moderna congestione urbana» (1).
Kohr si definiva un «anarchico filosofico» (2) e, sebbene in Italia sia quasi del tutto ignorato, è stato il maestro e l’ispiratore diretto di importanti studiosi, come Ivan Illich e Ernst F. Schumacher. Nel suo libro, La città a dimensione umana (1976), che raccoglie una serie di articoli e saggi sull’urbanistica a partire dalla realtà portoricana, ad un certo punto affronta nello specifico il tema della «velocità» (3).
La velocità causa di tutti i mali
L’economista austriaco parte dall’osservazione che del traffico non esiste soltanto una quantità, ma anche una qualità – sempre elusa nei calcoli ufficiali e tale per cui la «velocità» si trasforma nella «più profonda causa della congestione urbana». Occorre «intendere – spiega Kohr – anche la frequenza degli spostamenti; non solo il tragitto fino alla fabbrica a cinquanta miglia all’ora, ma anche il fatto che questa distanza venga coperta due o quattro volte al giorno. Non solo la quantità, ma la qualità del traffico» (4).
Questa constatazione porta al distinguo tra popolazione numerica e popolazione effettiva. Perché «la velocità ha sulla gente lo stesso impatto che ha sulle particelle della materia. Aumenta, cioè, la loro massa effettiva. Fa sì che una folla che si sposta rapidamente risulti, agli effetti pratici, più grande di un’altra che magari è più numerosa, ma si muove più lentamente» (5).
Kohr intende far comprendere appieno il ragionamento e le logiche, apparentemente nascoste, che regolano gli agglomerati sociali, politici, urbani, ecc. E a partire da queste considerazioni, egli formulò la sua «teoria delle dimensioni», dove la «proporzionalità» è un elemento fondamentale dell’analisi sociale.
«L’elemento che depriva le città del loro ossigeno, sia dal punto di vista letterale sia da quello figurato – spiega meglio Kohr – non è il numero delle persone ma la loro velocità. Non c’è alcun problema di sovrappopolazione a New York, Londra o San Juan all’una di notte, quando la velocità è praticamente zero. Comincia a sorgere alle sei o alle sette del mattino, aumenta durante la prima ora di punta, regredisce, aumenta di nuovo, regredisce e, finalmente, svanisce ancora una volta quando la città si prepara per la notte» (6). E conclude secco: «È quindi la velocità, e non il fatto che vi siano troppe persone, la radice di nostri peggiori problemi urbani». E individua una possibile soluzione: provvedimenti che portino alla «diminuzione della velocità alla quale la gente si muove» (7).
Ma come si fa a ridurre la velocità? «I nostri moderni pianificatori del traffico devono ancora convincersi – scriveva Kohr negli anni ’70 – che ogni nuovo svincolo, superstrada o autostrada urbana che costruiscono (allora i treni ad alta velocità non esistevano, ndr), aumenta la pressione che essi vogliono diminuire, intensificando l’effetto della velocità (a sua volta causa dell’aumento di volume), la cui continua accelerazione non è affatto impedita bensì facilitata dall’estensione spaziale dei loro stessi progetti» (8).
Che fare allora? Imporre dei limiti non è una soluzione, «perché tendono a seguire la velocità in aumento», aumentano di pari passo con il progresso tecnico che consente la fabbricazione di automobili più sicure e comode. Nemmeno si può vietare la costruzione di automobili («almeno finché gli automobilisti avranno diritto di voto»). Quale soluzione allora per affrontare il problema alla radice? «Ridurre non la velocità del movimento, o i mezzi con cui questo avviene, ma i motivi stessi del movimento» (9). E qui sta la proposta autenticamente libertaria e «rivoluzionaria» (più attuale che mai nella sua inattualità) di Kohr, frutto di una profonda critica dello sviluppo in chiave economico-politica, il cui esempio maggiore è rappresentato dalla sua sostanziosa e allo stesso tempo agile e leggera opera The Breakdown of Nations (pubblicata in Italia nel 1960, e mai più ristampata, dalle olivettiane Edizioni di Comunità).
Perché il signor Rossi corre tanto?
Kohr compie la semplice operazione, frutto di quella ragionevolezza che può apparire al contempo utopia e discorso da bar – ragion per cui non è mai presa in considerazione seriamente dalla partitocrazia e dai poteri economici – di porre una domanda: «Perché il signor Rossi corre tanto?». Già, perché? – ecco la domanda che non «bisogna» porsi. La domanda che accomuna i filosofi ai bambini, quando giunge l’«età dei perché», che tanto «rompe» il mondo degli adulti.
«Che cosa spinge la gente a muoversi con una velocità incrementante il volume e tale da trasformare, quasi ovunque, popolazioni di dimensioni normali in sovrappopolazioni?» (10). Il trasferimento in zone residenziali periferiche, lontano dal lavoro ha creato una difficoltà in passato inesistente, una «distanza tecnologica», una distanza artificiale – dice Kohr – dovuta non ad esigenze economiche ma al progresso tecnologico. E così si è troppo lontani dal mercato dove fare la spesa, dai campi di calcio dove giocare, dalla scuola, dalle strutture ricreative, dalle osterie, ecc. Questo ha reso necessario l’uso dell’auto, per andare lontano sempre più velocemente. «Paradossalmente ci vuole più tempo ora per fare qualunque cosa in macchina, di quanto ce ne volesse prima a piedi», chiosa Kohr.
«Dobbiamo smetterla di incoraggiare la ‘deportazione statistica’» (11), attraverso la costruzione di strade super veloci e altre infrastrutture. Occorre «concentrare il nostro spazio vitale, contrarre le nostre città». Un ritorno, dalle periferie agli «spazi conviviali», dai suburbi alle città «a misura di pedone», all’interno delle quali si possono concentrare tutte le funzioni e le attività umane, dal lavoro al divertimento, dalla partecipazione civica allo studio.
Sarebbe facile interpretare l’analisi di Kohr, e di chi come lui dice «no velocità», come una rivendicazione nostalgica che guarda al medioevo – e molti non mancano di farlo continuando ad affermare ancora oggi, a 40 anni di distanza da Kohr, da Illich, da Ellul, da Pasolini, l’avanzata dello sviluppo – che in realtà è solo «sviluppismo». Quello stesso progresso tecnologico ormai inarrestabile contro il quale ogni voce sembra rimanere inascoltata e priva di «ragionevolezza». Perché la «ragionevolezza», quella «vera», abita le menti di coloro i quali – guarda caso – vivono in quella porzione di mondo ricco e «già sviluppato» che volge le spalle a quei paesi perennemente «in via di sviluppo». Minoranza di una minoranza, che si crede maggioranza.
Gabriele Guccione
Note
- L. Kohr, La città a dimensione umana. Pianificazione, bellezza, convivialità nella città policentrica, Como, 1992, pag. 46 (ed. orig. The City of Man: The Duke of Buen Consejo, Editorial de la Universidad de Puerto Rico, University of Puerto Rico, 1976).
- Ad un certo punto scrive Kohr: «Se i gusti del pubblico o le norme urbanistiche sono contrari al buon senso, sacrifichiamo non il buon senso ma norme e gusti del pubblico. Questo non significa che le norme vadano violate. Da anarchico, seppure soltanto in senso filosofico, io sono in favore della loro abolizione. Tutto ciò che un sindacato deve fare per mandare in malora una società o una ditta, è di ‘applicare le norme’. Perciò non citate norme o piani regolatori quando si tratta di restaurare case o città. Una pianificazione dovrebbe fare le regole, non ubbidirvi». Ivi, p. 98.
- Il saggio in questione si intitola Popolazione numerica contro popolazione effettiva, ivi, pagg. 46-54.
- Ivi, p. 47.
- Ibidem.
- L. Kohr, op. cit., p. 48.
- Ibidem.
- Ivi, p. 49.
- Ibid.
- Ibid.
- Kohr utilizza il termine «deportazione statistica» perché, sebbene le persone coinvolte nell’esodo vi partecipino volontariamente, non c’è alcuna libertà di scelte per quanto riguarda la dimensione collettiva della quota. A una data velocità, una qualunque società può mantenere solo un certo numero di persone. Se la insostenibile popolazione eccedente di Portorico, prodotta dalla velocità, non partisse per New York, la morte per fame deporterebbe nell’aldilà la stessa massa statistica». Ivi, nota a pag. 54.
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