La criminalizzazione indiretta
In ogni stato del mondo il consumo delle sostanze definite “droga” è proibito, in alcuni casi in maniera diretta, in altri in maniera indiretta. Se in alcuni stati vige la proibizione penale dell’uso, nella maggioranza dei paesi l’uso è permesso da un punto di vista formale, ma proibito da un punto di vista sostanziale. Infatti, se l’uso di stupefacenti non è reato, ciò di per sé non equivale a dire che sia permesso, dal momento che vengono previste come altrettanti reati tutte le attività connesse in maniera più o meno inscindibile al consumo stesso. In altre parole, sebbene il consumo in sé sia un’attività che, sul piano teorico, ciascuno può compiere senza commettere alcun reato, dal punto di vista pratico è spesso pressoché impossibile compierla senza commettere reati.
La legislazione italiana – semplificando un po’ e guardando all’aspetto sostanziale – permette l’assunzione di droghe ma proibisce sia acquistarle che produrle in proprio. È assurdo anche solo pensare che l’intento non sia quello di proibire l’uso: se per fare X (che è lecito) devo per forza di cose fare Y e Z (che sono proibiti), fare X mi è possibile solo a patto che io faccia anche Y e Z e, di conseguenza, posso materialmente fare X soltanto se commetto (almeno) due reati. Se è permesso piantare chiodi con un martello ma è proibito sia comprare, che costruire, che detenere chiodi e martelli, chiunque pianti un chiodo è, giocoforza, colpevole o di commercio, o di fabbricazione, o di detenzione di chiodi e di martelli.
Principio paternalistico
Per quale ragione alcune legislazioni puniscono l’uso in modo diretto mentre altre lo fanno in maniera indiretta? Si può sostenere che le seconde applichino una forma di ipocrisia legislativa, che imbelletta un principio paternalistico nella forma della riduzione del rischio per i terzi. Un legislatore apertamente paternalistico non avrebbe alcuna difficoltà a promulgare una norma basata sul principio: “Non puoi fare questa cosa in quanto questa cosa è nociva per la tua salute”. Un legislatore che ammettesse di essere paternalistico (e che magari proprio sul paternalismo fonda la propria legittimazione) dovrebbe soltanto curare di conoscere la reale pericolosità di determinate azioni per la persona che le compie ma, una volta appurato che l’azione X è causa di danni o di pericoli per l’agente, non dovrebbe far altro che proibirla.
Il paternalismo, però, è un principio che non può trovare cittadinanza nel contesto di una legislazione ispirata a valori liberali, incentrati sul valore dell’autonomia della persona proprietaria di sé. E, davvero, un legislatore liberale autentico non avrebbe alcuna ragione per ricorrervi ma, al contrario, avrebbe mille ragioni per tenersene il più possibile lontano. Il punto, però, è che spesso i legislatori che si dichiarano liberali non lo sono davvero; anzi, la normalità è che questa autoqualificazione sia mera espressione di propaganda. Per vedere quanto ciò sia corretto, basti pensare al triste caso italiano, dove c’è un governo in carica che dichiara di agire in ossequio ai principi del liberalismo e che, nel contempo, dichiara di aver portato avanti una politica di governo ispirata ai valori cristiani.
Sebbene il paternalismo (e in particolare il paternalismo legale) possa assumere varie forme, in linea di massima può essere riassunto nel principio in base al quale il governante ha il preciso dovere-potere di proteggere le persone dalle azioni che potrebbero rivelarsi dannose per chi le compie. Il principio discende dall’idea che “il bene di una persona” possa essere non conosciuto, o non tenuto in giusta considerazione, dalla persona stessa. Compito del governante, più saggio e più accorto per definizione, è indirizzare le azioni dei singoli verso la realizzazione di ciò che è bene per ciascuno di loro, proprio come fa un padre con i figli (e, per questo, si parla anche di una “funzione pedagogica” del diritto, che avrebbe anche la funzione di “insegnare a vivere bene”).
Questa concezione del diritto risponde a una ben precisa concezione della persona, una concezione preilluministica tipica delle istituzioni assolutistiche, prima tra tutte quelle a fondamento religioso. Se l’illuminismo è, come sostiene Immanuel Kant, l’uscita dell’uomo dalla condizione di minorità, allora il conquistato status di “adulto” è quanto affranca dall’autorità paterna, famigliare o simbolica che essa sia. E, va da sé, che a ciò corrisponde la presa di distanza dalle politiche agite di stampo autoritario che, da parte loro, non hanno perciò mai fatto mistero di considerare l’illuminismo un nemico (si pensi, per fare soltanto un esempio, alla definizione ossimorica di “bieco illuminismo” data dal cardinale Coletti della sentenza del Tar Lazio dello scorso agosto con la quale si esclude che gli insegnanti di religione possano votare nei collegi didattici).
Ma davvero è paternalismo?
Una certa dose di paternalismo, come dicevo, è presente in pressoché tutte le legislazioni statali, comprese quelle che dichiarano di ispirarsi ai principi del liberalismo. La proibizione indiretta dell’uso di droga è un buon esempio di questo fenomeno, dal momento che le argomentazioni addotte per giustificare i divieti delle azioni strumentali al consumo (acquisto, detenzione, produzione) non reggono a un’analisi appena accurata. La più classica di queste ragioni è la prevenzione di rischi per i terzi: siccome il consumo di droga distorce la razionalità, chi è sotto l’effetto di stupefacenti può facilmente commettere crimini violenti, o compiere in genere azioni che mettono in pericolo l’incolumità dei terzi.
In Italia, nessuno può acquistare legittimamente stupefacenti in un negozio (e non esiste alcuna licenza che possa essere rilasciata per questo tipo di commercio). Allo stesso tempo, però, chiunque può entrare in un negozio di articoli sportivi e acquistare un pugnale da sub con una lama molto affilata lunga, mettiamo, trenta centimetri. La ragione che viene addotta per giustificare il divieto della vendita di stupefacenti è che le persone possono commettere reati violenti sotto l’effetto di droghe, e il governante intende tutelare il benessere del pubblico. Non so se questa giustificazione sia plausibile, ma mettiamo che, in astratto, lo sia. Tuttavia, è difficile negare che nessuno possa pugnalare un’altra persona se non dispone di un pugnale. Perciò, se la ragione della tutela del pubblico fosse una ragione che davvero il legislatore ha a cuore, allora dovrebbe proibire anche la libera vendita di pugnali da sub. Si dirà che la maggior parte dei proprietari di coltelli da sub non ha mai accoltellato nessuno, né è probabile che lo farà in futuro. Ma lo stesso vale per la maggioranza dei consumatori di droga, abituali o occasionali, che non ha mai commesso reati diversi da quelli collegati strettamente a questa loro attività (spaccio, detenzione, produzione).
Se la ragione della proibizione (diretta o indiretta) del consumo di droghe fosse la protezione del pubblico dai rischi, bisognerebbe allora concludere che il legislatore sia perlomeno distratto, dato che punisce alcune condotte in ragione della loro potenziale rischiosità ma sembra ignorare che anche altre condotte sono altrettanto rischiose, se non di più, per i terzi. A questo punto, se sgombriamo il campo da questa pretesa motivazione, rivelatasi inconsistente, sembra che non resti altro che il paternalismo. E di solito, infatti, si conclude dicendo che la vera ragione della politica repressiva in materia di stupefacenti è una ragione paternalistica: siccome le droghe fanno male, lo stato interviene nell’autonomia dei singoli e ne proibisce l’uso, al fine di tutelare “il loro bene”. Come vedremo subito: non è così.
Chi viene arrestato per motivi inerenti alla droga vede la propria vita cambiare in maniera drastica, proprio come avviene a chi è arrestato per altri motivi. Come prima cosa, è possibile – forse anche probabile – che trascorra qualche periodo di tempo in carcere in attesa di giudizio. Dopodiché sarà sottoposto a processo e, se riconosciuto colpevole, sarà condannato a una pena detentiva.
Le ragioni in virtù delle quali esistono norme che proibiscono e puniscono determinate condotte (la “ratio“, come si dice con linguaggio tecnico e un po’ ampolloso) non sono le stesse per tutte le norme penali. Le norme che puniscono le aggressioni e gli omicidi hanno la ratio di proteggere il diritto all’incolumità fisica e alla vita dei terzi, quelle che puniscono il furto hanno la ratio della protezione della proprietà, e così via. Le norme che puniscono (direttamente o indirettamente) l’uso di droga hanno, si sostiene, la ratio paternalistica di impedire che le persone facciano qualcosa che va contro il loro stesso interesse: norme che “ti proibiscono di fare una certa cosa per il tuo bene”. Tuttavia, la proibizione (diretta o indiretta) “per il tuo bene” non ha effetti diversi dalla proibizione “per il bene altrui”, come per esempio quella di rubare o di danneggiare le cose degli altri.
Alla fine, come sappiamo, si finisce in carcere sia per effetto di norme che hanno la loro ratio nel “bene degli altri” (furti, aggressioni, omicidi e così via) sia per effetto di norme che hanno la loro ratio nel “tuo bene”. Oltretutto, le pene previste per i reati di droga non sono affatto lievi. L’art. 73 del Testo unico sugli stupefacenti (D.P.R 309/90, modificato nel 2005 con inasprimento delle pene) stabilisce: «Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope [...] è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000». Il discrimine del c.d. “uso personale” (non sono punito se detengo droghe che intendo utilizzare io stesso) è un correttivo ben debole.
Già le considerazioni che si possono fare sulla determinazione di quale sia il limite della quantità di sostanza psicotropa detenuta o fabbricata (se c’è vendita, è ovvio che non si tratti di “uso personale”) fanno notare che si tratta di un criterio che lascia un tale spazio alla discrezionalità dei giudici da correre il rischio di divenire uno strumento di arbitrio: sono numerosi gli esempi di casi in cui ai detentori di quantità modeste di droga (un paio di grammi di cocaina) è stata negata dalle corti la qualifica di “uso personale”; ma è frequente anche il caso opposto, dove quantità decisamente più ingenti sono state considerate detenute per uso personale, in apparenza senza che tra i casi vi fossero differenze sostanziali (è recente, per esempio, una sentenza della Cassazione con la quale si è definita “per uso personale” la detenzione di 22 grammi di cocaina da parte di un soggetto che ha dichiarato di averne fatto scorta prima di trascorrere un certo periodo in una località nella quale gli sarebbe stato difficile procurarsela).
Comunque sia, quando viene riconosciuto l’uso personale (spesso a partire dalla considerazione della modesta quantità) le cose non vanno molto diversamente dal punto di vista della sanzione. Il successivo comma 5 dello stesso articolo, infatti, stabilisce che «quando, per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti [...] sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei a anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000», offrendo poi la possibilità al giudice di convertire la pena della detenzione con un uguale periodo di lavoro di pubblica utilità (comma 5-bis). Certo, sei anni sono meno di venti, ma è difficile pensare che mandarti in galera per sei anni, o anche solo per uno, possa essere per “il tuo bene”. È vero, l’art. 89 del medesimo Testo unico stabilisce che il condannato possa scegliere, se non ricorrono impedimenti, di essere affidato a una comunità di recupero dove curare la propria dipendenza, ma questo non stride meno con la pretesa ratio paternalistica della proibizione. Infatti, se davvero l’intento della legge è quello di “fare il tuo bene” perché tu non sei in grado di farlo, non si capisce per quale motivo la scelta tra il carcere e la cura sia poi affidata a te, che difetti di razionalità e di ragionevolezza al punto che il legislatore è costretto a intervenire per metterci quel cervello che a te manca.
In altre parole, se davvero la ragione è il paternalismo, allora la pena detentiva non dovrebbe neppure figurare tra le possibilità di sanzione (e meno che mai dovrebbe essere lasciata a te la scelta tra farti punire e farti curare), e la conseguenza della condanna potrebbe essere soltanto quella di una cura obbligatoria. Un legislatore paternalista, per di più, non avrebbe motivo per lasciare libertà di scelta, perché esclude che il singolo sia in grado di capire quale sia il proprio bene, e sarebbe perciò un controsenso che ponesse l’esito della sentenza del giudice (pena o cura?) in balìa di un soggetto tanto poco riflessivo, perché ciò equivarrebbe a svuotare del tutto di senso la propria stessa funzione.
La paternale e la morale
La ratio, la ragione della legislazione repressiva in materia di stupefacenti non è, perciò, il paternalismo, ma qualcosa che, dal punto di vista libertario o – più semplicemente – liberale, è perfino ben peggiore. L’intento repressivo non ha a che vedere con “il tuo bene”, con “il bene del pubblico”, con la “pericolosità sociale” generica e così via, in quell’affastellarsi di motivazioni che vengono accampate quando si tratta di giustificare una politica legislativa come quella sugli stupefacenti per dissimularne la reale ragione, che è una ragione morale, o meglio, moralistica.
Se la ragione fosse la difesa del pubblico, come si è visto, si dovrebbe concludere che, come minimo, il legislatore se ne preoccupa a intermittenza, dato che proibisce la vendita di droghe ma permette la vendita di coltelli (e di armi da fuoco, per la detenzione delle quali è richiesta solo una formale autorizzazione). Se la ragione fosse “fare il bene” di chi assume droghe, allora un legislatore che pensa di fare il bene di qualcuno mettendolo in galera per anni sarebbe, ricordando quanto scriveva Antonin Artaud, semplicemente un coglione.
Ma le cose, come ciascuno può ben vedere, non stanno così. La mia ipotesi è che la legislazione sugli stupefacenti sia incentrata sull’idea che la droga è immorale. Per questo, è importante, più che proibirne l’uso, punire chi ne usa. La punizione – non la cura, tantomeno la rieducazione – è lo scopo della legislazione sugli stupefacenti. La droga, l’uso di droga, contrasta con una specifica moralità positiva normativa, che il legislatore fa propria e impone con la forza della sanzione.
La mia ipotesi si fonda, oltre che sull’esame delle giustificazioni più familiari della politica legislativa repressiva (come abbiamo visto, deboli quando non inconsistenti o contraddittorie), sulle affermazioni che, in sede politica, vengono fatte in merito da parte dei sostenitori della proibizione o da parte delle persone designate per ricoprire la carica di Drug Czar. In tutti i casi, la necessità di mantenere la proibizione (o di inasprire le pene) viene espressa come un imperativo categorico, in maniera, cioè, impermeabile a ogni considerazione fattuale, a ogni osservazione empirica, a ogni evidenza scientifica, a ogni argomentazione di natura politica, a ogni riflessione di opportunità pratica, spesso in spregio di ogni ragione di semplice buon senso. Vediamolo con qualche esempio.
Non molti anni or sono si fece strada la proposta di avviare la sperimentazione di derivati della cannabis nella terapia del dolore dei malati terminali come sostituto di farmaci basati su principi attivi più “pesanti”, in modo di attenuare il dolore del paziente senza precipitarlo in stato di incoscienza. Quel refuso di Francesco Storace, che ricopriva la carica di presidente della regione Lazio, dichiarò che si sarebbe opposto a una simile sperimentazione nella “sua” regione, in quanto «la droga conduce alla morte civile e fisica», denunciando l’indegnità di “mettere sullo stesso piano” i malati di tumore e i tossicodipendenti (9 maggio 2002).
Qualche tempo fa, su queste stesse pagine, riferivo una dichiarazione di Carlo Giovanardi, per due legislature delegato del Governo per la lotta agli stupefacenti, che affermava che, se deve essere punito chi inquina l’ambiente, deve essere a maggior ragione punito chi inquina il proprio corpo con le droghe (8 aprile 2008). In un’altra occasione, lo stesso Giovanardi ha dichiarato che la morte di Stefano Cucchi (ammazzato di botte mentre era incarcerato in attesa di processo per detenzione e spaccio di stupefacenti) fu causata dalla droga: «La droga ha devastato la sua vita, era anoressico e tossicodipendente» (9 novembre 2009).
Va da sé che nessuna di queste dichiarazioni ha il minimo fondamento di ragionevolezza. Per Storace: proporre di somministrare derivati della cannabis in terapia del dolore non ha nulla a che vedere con il “mettere sullo stesso piano” alcunché; né ha senso dire che “la droga conduce alla morte civile e fisica” se si sta parlando di somministrarla al solo fine di attenuare le sofferenze di chi, per una ventura infausta, non ha alcuna guarigione nella quale sperare, ma soltanto molto dolore fisico dal quale essere protetto. Per Giovanardi: l’ambiente è di tutti ma il mio corpo è mio; e il fatto che una persona sia tossicodipendente non significa che questa sua condizione sia la causa di tutti i mali nei quali incorre. Chi pensa che ciò non sia abbastanza evidente, provi a individuare la causa della morte di un tossicodipendente seduto su una panchina del parco al quale, per ragioni mie, ho deciso di sparare.
William Bennett, il più celebre drug czar statunitense (ministro dell’istruzione, con Reagan, dal 1985 al 1988 e successivamente direttore del National Drug Control Policy, con Bush padre, dal 1989 al 1991), ha dichiarato spesso di ritenere molto più pericolosi i consumatori occasionali rispetto ai tossicodipendenti, in quanto sono soprattutto i primi che trasmettono il messaggio che usare droghe “sia Ok”. Ancora Bennett, durante il Larry King Live, rispondeva a un telespettatore che gli domandava se decapiterebbe gli spacciatori: «Legalmente, è difficile [...]. Moralmente, non avrei nessun problema» (15 giugno 1989). Il che significa, né più né meno, che, se la legge fosse un po’ più morale, chiunque potrebbe decapitare chi vende droga, così come la morale, a quanto pare, prescrive.
Sull’immoralità dell’uso di droga, Bennett è molto esplicito: «Usare droghe è sbagliato non semplicemente perché le droghe creano problemi medici; è sbagliato perché le droghe distruggono il tuo senso morale. Le persone dipendenti dalle droghe dimenticano i loro doveri».
Come si vede, il paternalismo non c’entra nulla. Se queste dichiarazioni contano qualcosa – e non vedo perché non dovrebbero – il principio all’opera è un principio moralistico ben più grave di qualsiasi paternalismo: usare droga è un crimine contro la morale, e chi lo commette, più che essere curato, deve soprattutto essere punito.
Questo principio, che punisce la violazione di uno specifico codice morale positivo, veniva già definito da John Stuart Mill un principio “mostruoso”, ben più grave di qualsiasi altra limitazione della libertà. Grave e pericoloso, perché, se introdotto tra le possibili giustificazioni di una legislazione (punitiva, in particolare), porta con sé un concetto di “danno alla morale” talmente ampio da travalicare gli steccati ragionevoli dell’offesa al pudore e del danno ai terzi. Se anche non offendo nessuno compiendo un atto immorale in privato, tuttavia danneggio la “pubblica moralità“ e arreco, perciò, un danno a tutti. Del resto, come scriveva lord Patrick Devlin negli anni Sessanta del secolo scorso, punisco i cospiratori anche se cospirano in segreto; compiere atti immorali in modo che nessuno ci veda, anche se non può offendere il pudore di nessuno, è cospirare contro la moralità pubblica. E, pertanto, è condotta da punire severamente.
Per questo vengono puniti
Credo che, al di là delle giustificazioni addotte dai governi, la ragione della proibizione sia questa. Il che è come dire che si tratta di una proibizione che non ha nessuna giustificazione razionale che, a sua volta, equivale a dire che è una proibizione del tutto ingiustificata. E che, ancora, significa che chi viene punito per un reato di droga riceve una punizione immotivata, anche sulla base del semplice buon senso.
“Ma i drogati rubano”. Male. Ma forse non punisci il furto? “Ma i drogati ammazzano”. Male, malissimo. Condannali per omicidio, allora. “Ma i drogati si mettono al volante e minacciano la vita degli altri”. È vero. Lo fanno anche gli ubriachi, e per questo li punisci: non perché sono ubriachi, ma perché guidano ubriachi. Il punto, però, è che la reale obiezione alla decriminalizzazione non è nessuna di queste, bensì “Ma i drogati si drogano”. E per questo, per questo soltanto, vengono puniti.