Introduzione
Luglio 2008. Un portatile offerto a «prezzo irripetibile» mi attende in un centro commerciale. È sabato mattina, fa molto caldo e parcheggiare è la solita impresa. Ma come varco l’Eurotorri di Parma precipito in un freezer: con una stretta allo stomaco mi prende uno strano malessere. Che monta, appena entro nel Media World. E cresce via via che attraverso la marea di frigoriferi, lavatrici e telefonini, e imbocco il corridoio dell’hi-fi. Lì dove, tra autoradio e lettori cd che sparano a tutto volume e le centinaia di tv accese che si intravvedono sullo sfondo, il cuore accelera e comincio a sudare. Non mi era mai successo. Ma più mi ripeto di stare calmo, più cresce l’agitazione. Cerco di controllarmi, ma davanti a un’enorme piramide di macchine espresso ho il crollo. Sento di non reggere più la situazione, l’ambiente, l’affollamento. Infatti lascio perdere il portatile, perché devo al più presto uscire. Scappare, guadagnare l’aria aperta e la luce del giorno. Non corro solo perché ho l’impressione che tutti mi stiano guardando. Però mi affretto e solo quando sono fuori ricomincio a respirare.
Per farla breve, è da questa spiacevole esperienza e dall’idea che altri, forse tanti altri, avessero provato o potessero presto provare qualcosa di simile, che è scaturito questo libro. Perché era da un po’ che riflettevo sul «di tutto, di più», raccogliendo dati e ritagli stampa. Precisamente da quando, all’inizio del 2006, ricevetti le mail di due lettori. Due lettere che prendevano spunto da un mio ironico articolo di quotidiano sui fasti della pubblicità e le miserie del marketing. «Mi sono sempre considerato un lettore forte, un amico de libri» scriveva il primo, «ma alcuni giorni fa, entrando in una megalibreria, un Feltrinelli Village, di fronte a troppe copertine e troppo colorate, per la prima volta ho sentito i libri ostili. Dei nemici». Il secondo lettore, invece, mi comunicava l’esistenza di un nuovo disturbo da shopping, evocante però non i best sellers della Kinsella bensì una classica patologia. «Come Stendhal, sopraffatto dalla visione di troppi capolavori artistici, sabato scorso ho temuto di svenire all’ipermercato. Però non davanti a un quadro di Raffaello, ma nel mezzo del corridoio ‘latte, latticini e derivati’… Colpito dalla bolla di freddo, ma ancor più frastornato dal turbinio di merci e gente, a un certo punto ha cominciato a girarmi la testa e tutto quello che mi stava intorno… Ho dovuto fermarmi, chiudere gli occhi e cercare il braccio di mia moglie».
Tuttavia non avrei cominciato a scrivere se non fossi stato materialmente risucchiato in quel gorgo merceologico che ormai soffoca la nostra vita quotidiana. Ma che non dà segni di rallentamento. Anzi, sempre più velocemente guadagna spazio ben oltre i confini del cosiddetto mondo sviluppato, contribuendo così alla globalizzazione dell’eccesso, che si manifesta anche in negativo, cioè per sottrazione e mancanza. Visto, ad esempio, che aumentano in ogni luogo del pianeta sia la ricchezza che la povertà, sia i consumi che i rifiuti, sia gli affamati che gli obesi. Nel contempo anche il clima dà segno di muoversi da un estremo all’altro. Il 2007 e il 2008 sono infatti stati due anni fra i più torridi e siccitosi, ma pure fra i più piovosi e alluvionali di sempre. Mentre si prevede che i prossimi dieci anni saranno particolarmente freddi, nonostante che la tendenza al surriscaldamento del pianeta sia pienamente confermata.
Ma strano o paradossale che sia, è la realtà nel suo complesso che procede a picchi, se è vero, per fare esempi estremi, che non c’è moda planetaria (le Crocs), pandemia del secolo (il virus A-N1H1) o allarme epocale (dall’atomica iraniana al riscaldamento globale) che, così come è già accaduto con il millennium bug, in breve volgere di tempo possano essere ridotti a impresa fallimentare, febbre stagionale, problema risolvibile, «bufala» cosmica. Con la stessa logica e velocità con cui in ogni ambito non c’è più limite che non venga continuamente superato. Probabilmente perché, con la complicità crescente dei media, abbiamo interiorizzato l’eccesso, che per sua natura è famelico, insaziabile. Visto che non c’è silenzio o vuoto che non venga prontamente riempito e cancellato, così come luogo affollato o volume altissimo che non possa essere ulteriormente incrementato. Ad aggravare una situazione di per sé tragica provvede l’estrema rigidità del sistema, lentissimo nell’accogliere le innovazioni che peraltro tutti auspicano: lavoro mobile, formazione a distanza, orari flessibili, spesa online, telemedicina, vacanze scaglionate, partenze intelligenti.
È così che le nostre esistenze, anziché fluidificarsi, si ingorgano ulteriormente. In primo luogo perché non ci sono più ore di punta o picchi di affollamento, essendo ormai ogni angolo della città in ogni momento del giorno trafficatissimo. In secondo luogo perché la nostra quotidianità si organizza in tempi e spazi (di vita, di lavoro, di divertimento) sempre più densi e intensi, che non conoscono più pause, cesure, confini netti. In terzo luogo perché abbiamo fatto l’abitudine all’ingorgo quotidiano. A restare imbottigliati nel caos urbano, incolonnati sull’autostrada, in fila per il check-in aeroportuale, in coda per entrare in teatro, al cinema, nel ristorante. Da ultimo perché continua a fare testo un uso primitivo di internet, incapace di utilizzare le enormi capacità della rete di riorganizzare, distribuire e decentrare le tante funzioni materiali che fanno da tappo e saturano le nostre esistenze.
Parimenti, si sprecano gli inviti a consumare meno e più consapevolmente, e tuttavia il numero di marche e prodotti, allo stesso modo delle dimensioni e delle superfici di ipermercati e centri commerciali, aumenta ogni anno. Mentre ovunque, e non più solo nello sport, si afferma una tendenza spasmodica al record. A eccedere non solo con le vitamine, il numero di canali televisivi, le mostre d’arte, i corsi universitari, ma anche nell’abuso di iperboli, se è vero che perfino una pastiglia da lavastoviglie, una merendina, un dentifricio, per ritagliarsi uno spazio nella mente dei consumatori, devono essere super, ultra, extra, mega. Insomma, siamo sovrastati dall’offerta di merci di ogni tipo e afflitti da gigantismo cronico. Anche se l’eventualità di un crollo, di uno scoppio, di un esaurimento che finisca con il coinvolgere e travolgere l’intero sistema e tutti noi, compresi figli e generazioni a venire, è sempre meno remota. Anzi incombente e molto concreta. Stando almeno alle cronache della «grande depressione» che si è materializzata tra il 2008 e il 2009.
Ecco: questo libro vuole contribuire a diffondere la consapevolezza che il «mondo nuovo» che si sta preparando sarà sicuramente migliore se un po’ di sobrietà e senso della misura torneranno a ispirare i nostri pensieri e a guidare i nostri comportamenti.
Di tutto e di più. Anche il suo contrario
Insalatona, tramezzone, regalone, quizzone: termini orribili, ma che, allo stesso modo di una Mokona e di un Illyssimo o dei 2.300 miliardi di sms spediti nel 2008, esprimono una realtà quotidiana entrata di gran carriera nell’era dell’eccesso. Della vorticosa moltiplicazione e lievitazione di ogni cosa. Della riduzione dell’iperbolico e dell’inimmaginabile a evento ovvio, probabile, verosimile. D’altra parte, se la pubblicità promette che «tutto è possibile» (Volkswagen) e «niente impossibile» (Adidas), i mass media confermano il collasso dei tradizionali ed elementari punti di riferimento. Che significa infatti dire, oggi, piccolo o grande, alto o basso, scarso o abbondante, lontano o vicino nella società delle reti (internet, cellulari, telefonini) e dell’abbondanza, dove si può essere (virtualmente) in più posti, ma dove in uno stesso posto, un ipermercato, ci stanno 40.000 referenze merceologiche; dove i jumbo jet diventano giganteschi, le navi da crociera enormi, i grattacieli più alti e i centri commerciali sterminati, ma nello stesso tempo i notebook diventano sempre più piccoli e leggeri e si afferma l’infinitesimamente piccolo delle nanotecnologie; dove, insomma, il senso della misura e della realtà sembra, ovunque, irrimediabilmente perso?
Non c’è infatti fenomeno sociale, ambito economico, settore produttivo, modalità di consumo o pratica quotidiana che non presenti situazioni di crescita anomala. Perché, ci si trovi in auto o davanti alla tv, a tavola oppure sulla spiaggia, a una conferenza o a uno snack-bar, in volo o alle prese con il carrello della spesa, la realtà con cui si deve fare i conti è invariabilmente segnata dall’enormità. Che è tale anche quando si manifesta come estrema penuria o addirittura assenza. Ossia quando il troppo (di rumore, turisti domenicali, siti internet, mostre d’arte, festival) è troppo; ma anche quando il poco è pochissimo. Potendo pure accadere che risulti contestuale questo doppio movimento, apparentemente inconciliabile. Ossia che cresca sia il livello dei redditi sia quello dei debiti; sia i multimiliardari sia i nullatenenti; sia il mercato del lusso sia quello del low cost; sia le professioni specializzate sia il lavoro despecializzato; sia i denutriti sia i sovrappeso; sia i consumi di acqua minerale sia il numero di persone alle quali non è garantito il diritto all’acqua. Oppure che, in modo altrettanto paradossale, il vortice di notizie e messaggi commerciali al quale siamo quotidianamente costretti finisca con il rendere sempre più indistinguibili gli emittenti e disattenti i destinatari.
D’altronde, se le inezie sono ormai sensazionali, le cose eclatanti devono essere incommensurabili, se è vero che gli italiani hanno bevuto 43 miliardi di tazzine di caffè nel 2008 e si sono scambiati 420 milioni di e-mail giornaliere nel 2009 (nel mondo 200 miliardi); che al cittadino di una media città europea servirebbero 820 anni per provare tutti i prodotti in commercio; che un telefonino, ancorché super come l’iPhone, offre 50.000 applicazioni; che la cifra di 1.100.000 libri presenti su Kataweb.it nel 2004 è diventata di 3.745.000 libri su Webster.it nel 2009. Ciò esageratamente in linea con tendenze di più lungo periodo: come l’incremento del mercato dei falsi del 1.000% dal 1993 al 2003 e dei consumi energetici mondiali cresciuti in un secolo, dal 1900 al 2000, del 1.480% (1). «Cent’anni di moltitudine», per usare una parafrasi letteraria, hanno cambiato profondamente, in molti casi rivoluzionato, usi, costumi e consumi. Ma la percezione di costante e progressivo miglioramento che ha accompagnato questa rivoluzione ha ormai ceduto il passo a un preoccupato disincanto. Al concreto timore che perfino la «società mobile», che già procede a tutta velocità, annunciata come un potente fattore di liberazione da incombenze e costrizioni di ogni tipo, si riveli un ulteriore fattore di immobilità. Visto che al momento la teorica capacità di fluidificare la vita di tutti, attraverso le possibilità offerte dalla tecnologia di «esserci senza andarci», di vedersi senza incontrarsi fisicamente, cioè teleincontrarsi e telelavorare, materialmente si traduce nel crescente aumento di auto, aerei, merci e persone circolanti sulle strade e nei cieli. Dunque in un acceleratore di congestione dell’ambiente fisico e di contrazione dei tempi di vita personali, familiari e amicali.
L’altra caratteristica, singolarmente negativa e più propriamente sociale, è che l’estrema mobilità che caratterizza l’ipermodernità, dal punto di vista strutturale e organizzativo, e non solo comunicativo o tecnologico, contrasta assai con l’immobilità delle élites. Con la staticità delle classi dirigenti e più in generale con la lentezza della mobilità sociale, del ricambio generazionale, dell’accesso alle professioni e ai ruoli più pregiati. Insomma, soprattutto in Europa e ancor più in Italia, siamo sempre più wireless, ma togliere o anche solo staccare un po’ i fili della società conservatrice e gerontocratica dominante è un’impresa molto ardua. Allo stato attuale quasi impossibile. «L’Europa soffre di una straordinaria rigidità corporativa. Tutte le élites finanziarie, sindacali e politiche si tengono e si proteggono a vicenda» ha scritto sul principale quotidiano economico europeo l’ex primo ministro spagnolo Felipe González (2). Ma che la difesa del potere sia ora anagrafica e non più ideologica – perché, come sostiene l’ex premier inglese Tony Blair, «sinistra e destra sono concetti vecchi» (3) – è ribadita dal trionfo planetario dell’old power dei Rupert Murdoch (78), Bob Dylan (68), Clint Eastwood (79), Muhammad Yunus (69), Larry King (75), Giorgio Napolitano (84), Nelson Mandela (89).
Ovviamente di esempi se ne potrebbero fare all’infinito, giusto per esagerare. Ma è tempo di enucleare i caratteri e le dinamiche principali che sono alla base di questo ingorgo che cresce, anche a dispetto di ogni tentativo di arginarlo, e che presenta molte analogie con l’andamento demografico.
Giorgio Triani