1. Ne La torre di Babele, il terzo volume di quella sua quadrilogia che affronta
le evoluzioni di una famiglia inglese dai primi anni Cinquanta agli ultimi anni
Sessanta, Antonia Susan Byatt parla anche di un romanzo, inserendone ogni tanto
qualche brano e raccontandone la vicenda pubblica.
Uno scrittore solitario e più o meno emarginato dal milieu intellettuale – uno scrittore che, pur di rompere definitivamente con il proprio passato e con l’educazione ricevuta, si autoribattezza Jude Mason – scrive La torre del balbettìo e, per una serie di fortunate o sfortunate circostanze a seconda del punto di vista, riesce a farselo pubblicare. Siamo in un’epoca delicata – la Byatt ricorda che nel 1961 era stato processato per oscenità L’amante di Lady Chatterley di David Herbert Lawrence, oltre trent’anni dopo che fu scritto – e il mostruoso realismo del romanzo, la sua crudezza rivoltante e la sua onesta impudicizia fan sì che diventi subito il bersaglio dei benpensanti. Mason viene denunciato, processato e condannato, come il suo editore – la Torre del balbettìo destinata al rogo.
Racconta un’evoluzione sociale esemplare: un gruppo di persone che la pensano allo stesso modo, fortemente unite e disperatamente fiduciose nel mondo migliore che potrebbero costruirsi, fuggono dalla civiltà e si rifugiano in una specie di grande torre dove si organizzano la vita secondo i dettami dell’uguaglianza, dell’amore reciproco e della gioia. Va da sé che finirà malissimo, che presto il sentimento di libertà si trasformerà nella più cupa oppressione e che, di orrore in orrore, questa comunità disillusa si trascinerà verso il baratro. Ma, allorquando ferveva ancora l’entusiasmo per l’impresa, nei primi momenti di questa nuova vita in comune, in una delle prime assemblee da persone finalmente libere, dopo che i più carismatici avevano parlato e dopo che la maggior parte dei massimi sistemi erano stati apparentemente risolti, ecco che squilla un primo campanello di allarme. Chiede la parola uno che fino ad allora se ne era stato zitto in disparte e, semplicemente, chiede chi sarà il responsabile della pulizia delle latrine, aggiungendo seriamente: “vorrei far notare che più di un tentativo di fondare società ideali o puramente comunitarie è fallito proprio su tale problema”. La metafora della biblica torre di Babele è forse ridondante. Non c’è bisogno di andare tanto in alto affinché l’irredimibile germe della divisione induca la degenerazione sociale.
2. Ogni grande esperienza rivoluzionaria – storia nota e arcinota del mondo alla mano – è rivoluzionaria proprio perché nasce con la fiducia in una soluzione comunitaria migliore di quella da cui si vorrebbe uscire. Non solo risorse più equamente distribuite, ma rapporti nuovi tra le persone, una vita più felice – presumibilmente, per tutti. Tuttavia, c’è sempre qualcosa – qualcosa di imprevisto o qualcosa di prevedibilissimo cui si è prestato poca attenzione collettiva – che, prima o poi, più prima che poi, vanifica il sogno.
3. È indubbio che l’Inquisizione sia nata dal cristianesimo – all’interno del cristianesimo –, così come i campi di concentramento dal fascismo, o altri campi di concentramento e le cosiddette “purghe” – una metafora delittuosa – dalle forme in cui, fino ad oggi, si è realizzato il comunismo. Il risultato di queste evoluzioni interiori sono stati milioni di morti – una sofferenza senza fine per chi c’era e per chi è arrivato più tardi – salvo, forse, ma destinato alla paura, annichilito dall’orrore per quello che erano stati capaci di fare coloro che li avevano preceduti e che, comunque, pur esseri umani erano. Una rivoluzione nasce per sovvertire uno stato delle cose, si nutre innanzitutto di obiettivi nuovi, contro il vecchio, ormai divenuto insopportabile. C’è un momento di questo sviluppo, tuttavia, in cui – improvvisa e urgente – emerge un’esigenza diversa: salvare la rivoluzione medesima, garantire il nuovo stato delle cose, smettere l’offensiva creativa e passare alla difesa. È qui che la contraddizione porta alla catastrofe.
4. Cavo un esempio dalla mia cronaca personale. Lascio il mio ufficio per ultimo. A volte, molte ore dopo che l’ultimo degli altri impiegati se n’è andato. Da alcuni mesi non ho potuto fare a meno di notare numerosi segni di una certa disaffezione. Sulle scale, un fazzolettino di carta apparentemente usato, una pallottolina di carta, qualche sporciziuola palese. La cosa mi seccava, anche perché, a volte, il mio ufficio – l’unico certamente aperto fino a notte inoltrata – era meta di amici e conoscenti, magari di qualcuno che aveva bisogno di un consiglio e sapeva dove l’avrebbe trovato. Mi seccava andar loro incontro dopo l’annuncio telefonico della portineria e imbatterci insieme nello stato delle scale – che basta poco per farle sembrare subito sporche, più sporche di quanto poi effettivamente siano. Sulle prime, quindi, avevo preso l’abitudine di rimuovere io quanto caduto da tasche trascurate o da mani distratte, quanto frutto di una fin troppo determinata incuria. Poi, protraendosi la faccenda, non passando giorno senza che, sulle scale, fiorisse qualcosa – anche sopraffatto da uno scrupolo igienico più che giustificabile –, ho finito con il lasciar perdere. Ma, ogni volta, come scorgevo il segno – interpretandolo come segno dei tempi, come segno di un degrado prima morale e soltanto poi strettamente materiale –, mi rammaricavo tra me e me e scuotevo il capo sconsolatamente.
Giorni fa, però, è stato il momento della verità. Mai avevo neppure accennato alla cosa con nessuno. Un po’ per via del dubbio gusto di ciò che trovavo o che, occhio e croce – standone alla larga –, credevo di trovare, un po’ perché, in queste cose, c’è sempre il rischio di andare a lamentarsi direttamente con il colpevole. Finisce, magari, che lo vai a dire – con gli apprezzamenti del caso – proprio alla persona che, giustappunto, butta per terra i fazzolettini usati per abitudine – sia dove sia. Allora è meglio tacere e tenersi tutto dentro. Ma l’altro giorno no: vuoi perché la cosa mi ha stufato, vuoi perché, scendendo le scale, ho trovato due colleghi del pianoterra – due, dunque, che in teoria non avrebbero potuto essere annoverati fra i possibili sospetti –, due che si erano attardati in ufficio più o meno come me e che, nell’uscire, stavano indugiando in chiacchiere. L’altro giorno no. L’altro giorno mi sono deciso e gliel’ho detto – che mi piacerebbe tanto sapere chi dimostra tanto poco senso civico, tanta poca affezione nei confronti dell’istituzione per cui lavora, chi è tanto maleducato da sporcare le scale – sistematicamente, da mesi. Al che, ovviamente, ho trovato la giusta e rapida comprensione di uno dei due – che ha mostrato tutta la sua schifata sorpresa rapportandola correttamente alla deboscia dei tempi –, mentre nell’altro – che a dire il vero era un’altra – mi è sembrato di percepire come una sorta di sospensione imbarazzata del giudizio, come fosse preda di un dubbio e non lasciasse trapelare la minima sorpresa. Tra il dico e il non dico, tuttavia, alla fine ha vinto il dico – e costei se n’è venuta fuori con l’amara, stupefacente verità.
Il ragioniere del primo piano vive, com’è noto, per l’onore e il decoro dell’istituzione per cui lavora. È sempre stato un ineccepibile modello per tutti noi. Tuttavia, è sospettoso. Teme che non tutti facciano il loro dovere. È così – racconta la collega e suffraga il proprio racconto con numerose e qualificate testimonianze – che, tutte le sere, abbandonato il suo ufficio, mette alla prova scientifica l’impresa di pulizie che ha vinto l’ultimo appalto e, nel scendere le scale, dissemina artatamente esche – fazzolettini, pallottoline di carta, sporciziuole varie accuratamente predisposte al riparo da occhi indiscreti – tra un gradino e l’altro, al centro del breve pianerottolo nei pressi del grande vaso del ficus, in qualche angolino oscuro, assecondando una logica dell’evidenza maggiore e minore ai fini di conferire la giusta dose di casualità all’evento. Sembra che il personale delle pulizie sia stato informato da tempo della cosa e che si diverta un mondo – le risate, tutte le mattine: questa storia del ragioniere che, per essere sicuro del pulito, sporca.
5. Potrei anche ricordare Il dubbio, un film di John Patrick Shanley (che l’ha tratto da un proprio lavoro teatrale) – film del 2008, interpretato da Meryl Streep e Philip Seymour Hoffman –, dove una suora dice il falso per costringere un prete, che sospetta di pedofilia, quantomeno ad andarsene. Il dubbio le rimarrà, la sua relazione con lui è compromessa definitivamente, i principi della sua fede sono andati in frantumi – ai fini, beninteso, della fede medesima o, meglio, della morale che implica.
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Olivarella (Messina), 2007 - Giuseppe Vaccarino
(foto di Fabio Tumazzo) |
6. Torna, dopo trentatré anni, Lo sporco di Giuseppe Vaccarino – questa volta arricchito del suo elemento complementare, Il pulito, scritto anni dopo e ancora inedito. Racconto straordinariamente soave e istruttivo, narra le vicende amare e paradossali di un aspirante filosofo sulle tracce di un manoscritto antico dove si sosterrebbe la rivoluzionaria tesi che allo “sporco” non corrisponde alcunché di fisico, ma che si debba intendere come risultato di mera attività mentale. Lo stesso pezzetto di cibo che consideri una leccornia se è nel piatto giusto diventa repellente se lo trovi sulla sedia o, più semplicemente ancora, nel piatto sbagliato.
Come Jacques il fatalista e il suo padrone di Diderot o come Candido o l’ottimismo di Voltaire sono “bandiere” dell’Illuminismo – o lo rappresentano sul piano letterario -, così Lo sporco di Vaccarino va posto in relazione alle tesi di quella Scuola Operativa Italiana di cui Vaccarino – con Ceccato e Somenzi – è stato fondatore e inesauribile motore. Suo è il merito dell’unico e mastodontico tentativo di un sistema di semantica integralmente conseguente ad un modello dell’attività mentale – nella convinzione che, privi di una metodica per analizzare il linguaggio e per metterci d’accordo sul significato delle parole che usiamo, non si va da nessuna parte o, meglio, si rimane schiavi degli stregoni di ogni tempo e di ogni paese, siano essi chiamati scienziati, preti o filosofi. Se una rivoluzione si disintegra per la mancata consapevolezza della provenienza mentale – e quindi culturale, e quindi sociale – di ciò che definiamo come “sporco” – da cui il dramma di chi è designato a “pulire le latrine”, come dice la Byatt –, figuriamoci quanto può restar salda allorché le categorie in gioco sono quelle di “verità/falsità”, “reale/apparente”, “giusto/ingiusto”, etc.
Come dire – ecco la lezione della Scuola Operativa Italiana filtrata dal racconto di Vaccarino –, che prima di ogni rivoluzione – o almeno concomitantemente –, occorre rifondare la cultura delle persone che a questa rivoluzione si accingono – occorre che abbiano consapevolezza del proprio operare attribuendosene tutta la responsabilità, senza delegare e senza barricarsi dietro a presunte trascendenze: se rimangono schiave delle categorie filosofiche – di cui l’inversione realista destinata allo “sporco” e al “pulito” è solo un esempio, uno dei tanti possibili -, sempre che gli vada bene finiranno col riprodurre il sapere e le pratiche da cui rifuggono. A volte, in peggio.
Felice Accame
Nota
La torre di Babele di Antonia Susan Byatt è pubblicato da Einaudi, Torino 1997. Nel 1977, Lo sporco di Giuseppe Vaccarino vinse il premio “L’Inedito” e venne pubblicato da Marsilio con una prefazione di Silvio Ceccato. Ora, nella versione “arricchita” – e con una mia postfazione –, è pubblicato da DuePunti edizioni, a Palermo. La bibliografia di Vaccarino è sterminata: ricordo La nascita della filosofia, Società Stampa Sportiva, Roma 1996; Scienza e semantica, Melquiades, Milano 2006; Introduzione alla semantica, Falzea, Reggio Calabria 2006; Prolegomeni: dalle operazioni mentali alla semantica, CIDDO, Rimini 2008. Per una storia della Scuola Operativa Italiana, cfr. F. Accame e C. Oliva, Prefazione a Methodos. Un’antologia, Odradek, Roma 2009.
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