Il dogma monetarista di cui Banca Centrale Europea è espressione ha incorporato nelle relazioni sociali un modello astratto di interdipendenze e di compatibilità che rende fluido il processo di scambio. Ogni rottura del flusso produce effetti di auto protezione e rinforzo del sistema. Quanto più il dogma monetarista produce effetti disastrosi sulla società tanto più viene rafforzato.
La scienza fisica parla di feedback positivo per definire situazioni in cui un effetto causato da certe condizioni finisce per rinforzare le condizioni che hanno provocato quell’effetto. Pensiamo ad un termostato che regola la caldaia in maniera tale che, se il calore aumenta, l’intensità del calorifero viene aumentata così da produrre ancor più calore e così via all’infinito. La civiltà sociale della modernità, aveva creato dei termoregolatori a feedback negativo, per cui se aumentava troppo il calore interveniva un servomeccanismo a ridurre l’intensità del calorifero, e se il funzionamento del mercato produceva disoccupazione lo stato interveniva a ridurre l’azione del mercato attivando una spesa sociale e così via.
Bene, questo funzionamento sembra impazzito, nell’epoca della deregulation, perché non vi è più una funzione di regolazione esterna al flusso tecno-semiotico che è tutt’uno con il processo di valorizzazione. La crisi dell’Euro, che è esplosa nel mese di aprile del 2010, è una prova bruciante di questo impazzimento. La ristrettezza monetarista delle regole che governano l’Unione europea, di cui la Banca centrale è custode gelosa, ha condotto al collasso politico-finanziario e sta conducendo l’economia europea verso la recessione. Riducendo i margini di spesa pubblica, riducendo il salario e i servizi sociali, il monetarismo della Banca centrale ha provocato un immiserimento, una riduzione della domanda, e lo strangolamento della vita economica. Che bisogna fare in caso come questo? Una persona ragionevole direbbe che occorre ridurre la stretta, che occorre aumentare la domanda, permettere ai vecchi di andare in pensione anticipatamente così da aumentare le possibilità di occupazione dei giovani e così da aumentare il danaro circolante per un rilancio dell’economia. Ma tutto il contrario si verifica, invece.
La privatizzazione non finisce mai
Dato che la stretta monetarista ha portato al default greco e prepara il default di altri paesi, allora bisogna stringere ulteriormente, occorre rendere più stringenti i criteri di partecipazione alla zona euro. È il ritornello dei dottori neoliberisti che vogliono curare la malattia prodotta dalla cura neoliberista applicando in maniera più rigorosa e aggressiva la cura medesima. Ecco allora che, trent’anni dopo Margareth Thatcher, il dibattito elettorale britannico si svolge all’insegna della privatizzazione. Ma come? Non era stato privatizzato tutto? Ebbene no, la privatizzazione non finisce mai, perché la società ha continuato a produrre qualcosa di nuovo nella sfera del comune. L’intelligenza collettiva ha prodotto nuove tecnologie, nuove concatenazioni, nuovi contenuti. Ecco allora che la piovra privatistica rilancia il suo interminabile progetto di spoliazione del comune e di sottomissione alla regola privatistica. È come se un organismo sano e vitale producesse nuovo sangue per un vampiro insaziabile che poco alla volta riesce a debilitare l’organismo, e portarlo sul limitare dell’estinzione.
Che può fare in queste condizioni l’organismo sociale? Come può la società sottrarsi all’abbraccio del semiocapitale, che pure l’ha permeata a tal punto da azzerare ogni efficacia della volontà politica, e da rendere inconcepibile una sovversione dei codici di funzionamento linguistico-finanziari? A questo punto compare la disruption, il crollo di infrastrutture della civiltà globale. Un vulcano islandese esplode diffondendo una nube di cenere nei cieli europei, bloccando la circolazione aerea per dieci giorni con danni incalcolabili. Metafora di un ritorno del rimosso: la corporeità che la virtualizzazione dimentica o rinvia. L’emozionalità che i linguaggi codificati costringono in una dimensione non dicibile. Il territorio fisico che il trasporto aereo sorvola.
Chernodrill nel Golfo del Messico. L’ultrapotenza tecnologica delle grandi corporation del petrolio, della BP e della Halliburton hanno creato sistemi di tale complessità che l’errore tecnico può renderli ingovernabili provocando danni irreversibili nell’ambiente. In questi casi la disruption si verifica nel punto di inserzione della tecnologia sulla natura, a dispetto della pretesa di dominio illimitato sulla Natura, e la disruption provoca una interruzione del flusso di relazioni che permette allo sciame di funzionare. Nel caos che si è diffuso in Europa dopo l’avvio della crisi finanziaria degli stati sovrani, la Natura sembra non giocare alcun ruolo. In questo caso la complessità di un sistema artificiale, il mercato finanziario globale, provoca effetti che sono ingovernabili per gli stati. Non significa niente la pretesa di isolare o contrastare la speculazione. La speculazione non è un’escrescenza maligna della dinamica finanziaria. È la finanza medesima, nel suo funzionamento arbitrario.
La volontà umana si trova inadeguata a fronteggiare la complessità della seconda natura, l’ambiente tecno-informatico non meno di quanto si trovi inadeguata a fronteggiare la complessità della natura vulcanica o sottomarina. La volontà umana è inadeguata a governare la esplosiva complessità dei suoi stessi prodotti, a comprendere e prevedere l’info-flusso proliferante.
Nella direzione contraria
La disruption interrompe il flusso, fa impazzire lo sciame dei comportamenti sociali automatizzati, ma non istituisce di per sé alcuna condizione di autonomia. Lo sciame entra nel panico e cerca di ricostituire il funzionamento temporaneamente disturbato. Il feedback positivo si mette in azione, e reagisce con la creazione di ulteriori sistemi di sicurezza che lungi dal risolvere il problema, aumentano la complessità la velocità e quindi la ingovernabilità del sistema automatico.
Dopo la disruption del settembre 2008 per qualche mese parve possibile che la volontà politica liberasse la società dalla stretta delle corporation finanziarie, e la vittoria di Obama alle elezioni americani diede a molti la speranza che lo stato intervenisse a rilanciare la domanda sociale. Ma sappiamo che le cose sono andate nella direzione contraria. Niente rilancio della spesa pubblica, niente aumento del monte salari, ma spostamento di enormi risorse dalla società verso la finanza che andava salvata dalla bancarotta che essa stessa aveva prodotto.
Le disruption, le rotture puntuali del ciclo, si moltiplicano. Però il moltiplicarsi di disruption locali e globali non crea di per sé le condizioni per la creazione di nuove forme dell’agire sociale. Come potrà crearsi autonomia della società dal capitale, nell’epoca delle disruption, che si è aperta?
La metodologia stessa dell’azione umana deve adeguarsi a un nuovo principio, non più quello dell’attivismo che trasforma ma quello della passività che, sottraendosi, crea un altro spazio.
Occorre render possibile l’abbandono del mercato del lavoro, l’istituzione di comunità auto-sufficienti che si separano dalla società circostante, la creazione di circuiti di consumo condiviso, la produzione autonoma dei beni di consumo essenziale.
Una simile strategia non va intesa affatto come una rinuncia alla ricchezza, al contrario. Una ridefinizione della ricchezza è indispensabile, e non si tratta soltanto di una ridefinizione concettuale, terminologica, ma di un mutamento culturale, psichico, sensibile.
La percezione della ricchezza come acquisizione, accumulo, proprietà è un effetto patologico dell’impoverimento della vita che il lavoro obbligatorio ha prodotto nello psichismo sociale.
Occorre riattivare una percezione dissipativa della ricchezza, una percezione della ricchezza come godimento del tempo nel tempo. Questa è la premessa di un vasto movimento di attivo passivismo, fuga creativa.